Nel 2022 con i Rolling Stones ad Hyde Park senza aver inciso un singolo, l’anno dopo la firma per Island Records. Un’ascesa fulminea che gli inglesi chiamano industry plant: termine dispregiativo per chi ha usato la scorciatoia
«I’m only here for your entertainment» («Sono qui solo per il vostro intrattenimento»), così recitava la provocatoria scritta sul vestito bianco di Abigail Morris – la frontman della band indie rock The Last Dinner Party – indossato in occasione della cerimonia dei Brit Awards. Era il 2 marzo scorso quando le cinque componenti del gruppo britannico (Lizzie Mayland, Emily Roberts, Georgia Davies, Aurora Nishevci e Abigail Morris) hanno vinto il premio “Rising Star” in occasione della 44ª edizione del riconoscimento musicale britannico più ambito dell’anno.
Per la British Phonography Industry, l’associazione che rappresenta le case discografiche nel Regno Unito e organizza ogni anno i Brit Awards, erano proprio loro le stelle nascenti, la next big thing del nuovo pop-rock barocco.
L’ascesa delle Dinner Party (il “Last” è stato aggiunto un anno e mezzo fa per evitare conflitti con l’omonimo supergruppo statunitense jazz-rap) è stata fulminea: nel 2022 hanno aperto il concerto dei Rolling Stones ad Hyde Park senza neanche aver pubblicato un singolo. Poi, un anno dopo, la firma sul contratto discografico con la leggendaria Island Records che ha permesso loro di distribuire Prelude to Ecstasy, la loro prima fatica.
L’album, prodotto dal visionario James Ford (Blur, Fontaines D.C. e Arctic Monkeys, soltanto per citare alcuni artisti con i quali ha lavorato) e anticipato nei mesi precedenti da una sequela di singoli che hanno inanellato una costante serie di successi radiofonici, ha raggiunto subito la vetta delle classifiche britanniche cominciando a far storcere il naso alla maggior parte della critica musicale d’oltremanica.
Infatti, gli esperti del settore made in UK le hanno presto bollate come il più classico esempio di industry plant. Traducibile con “impianto industriale”, si tratta di un termine dispregiativo per identificare un artista o una band a cui è stato concesso un vantaggio in termini di visibilità.
La scorciatoia
Le ragioni possono essere molteplici ma, in poche parole, si definisce industry plant chi fin dagli esordi ha firmato un contratto con una grande casa discografica (la cosiddetta major) nonostante la sua immagine pubblica possa suggerire un percorso indipendente o che, quantomeno, sia arrivato al successo in maniera graduale.
L’essersi assicurate l’apertura agli Stones in una data iconica come quella di Londra, in una location altrettanto esclusiva come Hyde Park, ha portato le cinque di Brixton a fronteggiare l’accusa di aver in qualche modo preso una scorciatoia per raggiungere i vertici di un settore competitivo come quello musicale e di non essersi “costruite da sole” come una band emergente si auspichi dovrebbe fare. In altre parole, chi viene sostenuto da pezzi grossi dell'industria musicale nelle sue fasi iniziali, apparentemente senza aver prima dimostrato il proprio valore artistico, è tacciato di essere industry plant.
L'esempio più chiaro e di tendenza lo si osserva nel K-pop, il pop coreano, dove delle vere e proprie accademie per lo sviluppo degli artisti vengono esaminate da team di dirigenti dell'industria musicale con il solo fine di creare gruppi o artisti solisti potenzialmente perfetti per il mercato.
«Sono qui solo per il vostro intrattenimento», ricordate? Ecco, la cantante Abigail Morris si riferiva proprio a queste speculazioni. Le Last Dinner Party hanno anche risposto alle critiche ricevute. Georgia Davies, la bassista del gruppo che in un’intervista al Guardian ha parlato a nome di tutta la band, ha voluto sottolineare come la critica musicale spesso confonda l’investimento economico di una major con la mancanza di autenticità.
«Non c'è una definizione univoca di industry plant – ha detto Davies – ma in genere questo termine salta fuori quando si parla di giovani donne che cominciano ad avere successo». In questo senso, il progetto The Last Dinner Party è soltanto uno degli ultimi esempi. Lorde, la cinque volte vincitrice di un Grammy, ha firmato un contratto con la Universal quando aveva solo tredici anni. Questo le ha permesso di crearsi nel tempo una formazione vocale e un’importante conoscenza in termini di composizione di canzoni.
In questa categoria rientra anche Clairo, uno dei massimi riferimenti del pop-queer contemporaneo, che si è guadagnata la reputazione di artista industry plant perché suo padre è il co-fondatore dello studio di registrazione Rubber Tracks.
L’assenza del dibattito
In questi casi, i talenti vengono accolti da un'etichetta discografica in attesa del grande salto e prima di essere presentati al pubblico. A questo proposito, il caso The Last Dinner Party è ancora più intricato non solo per il fatto che le cinque sono le uniche autrici dei brani di Prelude to Ecstasy – e quindi nessun altro al di fuori della band è intervenuto in fase di composizione – ma perché molte delle canzoni contenute nell’album d’esordio, The Feminine Urge su tutte, sono ispirate dalle personali esperienze queer della band.
Ad aggiungere ulteriore problematicità alla situazione c’è il fatto che Morris, Davies e Mayland si sono conosciute nel 2020 frequentando il King’s College di Londra mentre Roberts e Nishevci, rispettivamente la chitarrista solista e la tastierista della band, sono entrate nel gruppo tramite amicizie in comune. Sulla carta quindi, il gruppo non si è formato a partire da un’idea estemporanea di una casa discografica e, per di più, sono quasi tutte polistrumentiste che sanno il fatto loro in termini di teoria musicale.
Oltremanica il termine industry plant non solo è visto come un insulto a un'opera musicale senza anima, alle cui spalle non è rappresentata una genuina espressione del sentire dell’artista o della band ma è una vera accusa nei confronti di chi viene tacciato di non essersi impegnato per raggiungere il proprio successo. In Italia non capita spesso di porci queste domande o di notare che esempi di questo genere siano al centro di un potenziale scandalo mediatico.
Non ci si fanno troppi preconcetti se quel determinato artista o quel gruppo di riferimento siano o meno derivanti da un sistema meritocratico. O ancora, non ci si chiede se l’avere alle spalle un supporto privilegiato faccia di quel prodotto un capolavoro o qualcosa da evitare a priori.
Lorenzza
Nelle ultime settimane il nome della rapper Lorenzza si è fatto sempre più insistente sui social e l’Italia ha (ri)scoperto con un po’ di delay, per utilizzare un eufemismo musicale, il concetto di industry plant. La giovane rapper italo-brasiliana ha pubblicato un album d’esordio di dieci tracce – 23 minuti totali – distribuito da Universal, major che le ha dato l’opportunità di collaborare con artisti di alto profilo come Night Skinny, Rkomi e Nayt. Una mirata campagna pubblicitaria social e la sponsorizzazione da parte di Sfera Ebbasta hanno fatto il resto, portando Lorenzza a raggiungere nell’immediato dei risultati che di norma, se il primo disco funziona, vengono conquistati dopo tempo.
Se Lorenzza in Italia sta diventando l’ultimo caso di artista che si è “venduta” contro la quale scagliarsi, quello delle Last Dinner Party, almeno entro i confini del Regno Unito, ha permesso – e lo sta facendo tutt’ora – di ragionare attorno alla questione se ci sia davvero differenza tra un'etichetta che promuove nuovi artisti o che decide in maniera autonoma di creare nuovi casi di industry plant.
Per alcuni, il successo delle Last Dinner Party è soltanto un segno di vitalità delle etichette discografiche, che mediante nuove tecniche di promozione mediatica, agevolano gli ascoltatori a fruire di nuova musica, come del resto hanno sempre fatto. Appare controproducente prendersela in prima persona con gli artisti, quando è l’intero mondo dell’industria musicale a basare i propri ricavi su strategie di commercializzazione a scapito proprio dei musicisti stessi, i quali ricevono percentuali molto basse in termini di ritorni economici sui diritti d'autore.
Affidarsi ad una major, però, appare sempre più l’unica, probabile, via a disposizione degli artisti emergenti per assicurarsi che la loro musica venga ascoltata. Ecco, la musica. La grande assente ingiustificata di questo dibattito.
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