Sentiamo dire che oggi “non si tiene più conto della complessità”. Colpiti da una lunga lista di inadeguatezze, saremmo capaci ormai di operare solo delle semplificazioni, adottando un disegno primitivo ogni volta che dobbiamo affrontare un discorso, una situazione, un ragionamento. Alla radice di tutto ci sarebbe una stanchezza ormai irreparabile che ci affligge, una sindrome da deficit di attenzione che ci instupidisce tutti, e che alimenta la nostra ignoranza, e una corrente di malvagità che porta il sistema (il potere, la politica) a sfruttare le nostre debolezze, presentandoci facili soluzioni che fanno appello ai nostri istinti peggiori.

Definire la complessità

Eppure non è chiaro cosa sia la complessità, non viene mai spiegato davvero da chi ne sostiene l’importanza. Si parla di un passato in cui la complessità esisteva, in cui non bastava dire le cose come le diciamo adesso, ma era necessario elaborarle con sforzo, trascinandole come massi lungo una salita. Si fa riferimento a un’idea di fardello, di energia spesa nel tempo che fu. «Allora sì che si studiava, si rifletteva, allora sì che si tentava di capire». Però resta nebulosa la definizione di complessità, e il suo senso profondo non viene mai illustrato. Talvolta ci assale il dubbio che ad alcuni piaccia anzitutto la parola, il suono: complessità. In effetti è una combinazione di lettere che funziona molto bene. È musicale, non stanca, non ha nulla di ridicolo. È al tempo stesso vasta e specifica. Per questo ogni tanto pensiamo di sapere cosa significhi anche senza chiedercelo realmente.

A un livello molto generale, “tener conto della complessità” pare abbia a che fare con la capacità di cogliere la realtà nel modo più pieno possibile. Il problema però è che molto spesso la realtà ci appare diversa a seconda della luce che la colpisce. Questo per restare sulla superficie delle cose, senza neppure cominciare ad approfondire. Ci sembra che non basti sommare queste diverse realtà apparenti per dire che abbiamo tenuto conto della complessità. La somma non sembra essere l’operazione adatta, anzi sembra creare solo un disegno caotico, o più semplicemente inutile e brutto. Come una bambina che a forza di mescolare i colori delle tempere ottenga una specie di marrone inservibile.  

Mi trovo a questo punto, non so bene perché, a pensare al carrello della spesa. Nel carrello della spesa ogni cosa entra come se avesse la stessa importanza di tutte le altre. Possiamo però creare un ordine posizionando i prodotti in modo tale che i più ponderosi non schiaccino i più delicati, per esempio non metteremo le uova sotto il fustino del detersivo. Una cautela, un pragmatismo. Accettare un minimo grado di laboriosità, per evitare che le cose – le uova – vengano distrutte. È riconoscere la complessità, questo? La complessità della spesa, intendo. Rendere un gesto, che sembrava semplice, un po’ macchinoso. Farlo per motivi ragionevoli, per una forma di saggezza. È complessità?

Proviamo a immaginare un modo di fare opposto. Non curarsi di nulla, mettere i prodotti casualmente, senza pensare, un po’ come fanno i personaggi dei film quando gettano la roba nel carrello alla rinfusa acciuffandola dagli scaffali. Lo fanno, in realtà, perché sono distratti da pensieri assai profondi, un amore finito, un dolore, un desiderio di fuga, una gioia improvvisa. Una forma astratta, sentimentale o intellettuale che li distoglie dalla fisicità degli oggetti e li fa volare sopra gli intralci pratici, verso una maggiore pienezza esistenziale. Il gesto (buttare le cose nel carrello) naturalmente non è macchinoso, è spontaneo, ma le ragioni del gesto sono piene di significato e conducono a una dimensione diversa dello spirito. Complessità?

Il primo atteggiamento – la cautela, proteggere le uova dalla distruzione – ci vede bene inseriti nella realtà fisica, attenti, ma un po’ ossessivi. Porteremo a casa la nostra spesa con ordine, questo è garantito, e terremo conto del fatto che andare al supermercato non è una questione banale. Ma un’esistenza vasta e articolata non si riduce certo a questo. Giusto? Il secondo atteggiamento – piangere o ridere fra gli scaffali scagliando vasetti di marmellata nel carrello come fossero bombe a mano – parrebbe più prossimo a un’idea di vita vissuta nel suo complesso. Nella sua complessità, anzi. Mescolare la prosaicità della spesa al lirismo delle situazioni mentali, creando un cortocircuito drammatico. Ma se poi torniamo a casa e le uova si sono rotte, qualsiasi osservatore esterno dirà che certamente non siamo stati in grado di affrontare la realtà della spesa nella sua mediocrità solo apparente. Figuriamoci se la complessità del reale è alla nostra portata. Quindi?

La semplificazione, secondo alcuni, è il risultato negativo degli atteggiamenti meccanici e della pedanteria. Fare le cose in base a un certo ordine, comportarsi da ingranaggi, salvaguardare la spesa, dimenticare che esiste sempre una dimensione superiore, ulteriore, uno scarto. Secondo altri, invece, la semplificazione deriva da un'irrequietezza che ci porta a guardare oltre l’esperienza immediatamente vissuta, salvo poi ignorare alcuni elementi essenziali di quell’esperienza. Proprio mentre inseguiamo una complessità immateriale, cadiamo nella banalizzazione fisica. Il personaggio del film, per esempio, “vivrà fino in fondo” mentre fa la spesa confusamente, e sarà convinto di essere circondato da un’umanità stupida che invece fa la spesa con ordine ma vive in modo superficiale. E siccome lui ritiene di coltivare la complessità, potrà persino arrabbiarsi, sentirsi diverso, incompreso. Un po’ come fa oggi chi si lamenta dell’eccessiva semplificazione dei ragionamenti.

Carrelli virtuali

Immaginiamo ora un carrello diverso, il carrello virtuale degli acquisti online. Immaginiamo un’azienda gigantesca che mira a venderci tutti i prodotti possibili, consegnandoli direttamente a casa nostra dentro scatole di cartone in tempi veloci, e permettendoci sostituzioni e rimborsi integrali e rapidi se non siamo soddisfatti degli acquisti.

Questa azienda in realtà non dobbiamo immaginarla, sappiamo che esiste. Si chiama Amazon, e un po’ ci affascina, un po’ ci inquieta. Sicuramente è enorme. Sicuramente è dominante. Come clienti dei suoi servizi, siamo al centro di un’impressione fortissima di semplicità, di immediatezza possibile. “Siamo in grado” di acquistare qualsiasi cosa in qualsiasi momento del giorno e della notte, ricevendola poco tempo dopo, senza muoverci da casa, avendo accesso a un’offerta molto vasta. Tutto si comporta ordinatamente per noi, tutto ha come obiettivo la nostra piena soddisfazione (e un cambiamento epocale delle nostre abitudini). Non solo. L’azienda è in grado di ricordarsi molte cose di noi e di proporci prodotti adatti alle nostre esigenze, nel tentativo – sempre più riuscito – di fornire un servizio su misura. Naturalmente intuiamo che quanto ci appare come semplificazione della nostra esperienza di acquisto cela invece una complessità. Diremo anzi che la semplificazione della nostra esperienza di acquisto non può avere luogo senza quella che immaginiamo essere una notevole complessità sottostante. La semplificazione “deriva”, insomma, dalla complessità, e la complessità esiste allo scopo di creare questa semplificazione.

Il successo di Amazon dipende infatti dalla sua capacità di controllare processi laboriosi senza farlo mai pesare ai suoi clienti. La laboriosità che tratta fa riferimento all’insieme di dati e di sistemi di elaborazione dei dati che permettono di gestire anzitutto il marketing e una logistica estremamente articolata (la logistica lo è sempre, articolata, ma qui lo è ancora di più). Una quantità straordinaria di informazioni da organizzare. Il computer e la sua materialità. Gli algoritmi.

In questo caso la complessità è rappresentata da una serie di passaggi artificiali che noi umani da soli non saremmo in grado di compiere, di sicuro non in modo altrettanto efficiente ed efficace, e che in larga parte non siamo capaci di apprezzare, di valutare. La complessità insomma non è alla nostra portata, ci sfugge. Non è alla nostra portata emotivamente, mentalmente, fisicamente. Ma ci governa. E soprattutto tende a un risultato materiale, concreto e utile. I gesti di Amazon sono volti a uno straordinario sforzo di riempimento di innumerevoli carrelli perfetti. La missione di Amazon è diventare, un giorno non lontano, la società che riempie tutti i carrelli di tutta l’umanità, senza che si rompa neppure un uovo e senza che noi siamo in grado di capire realmente come questo possa avvenire.

Essere parte viva e operante della complessità, per noi persone qualsiasi, in questo caso è molto difficile, probabilmente impossibile. Essere spettatore della complessità anche, perché per assistere a uno spettacolo dobbiamo poterlo comprendere. In definitiva siamo completamente al di fuori, sebbene la nostra esistenza di clienti sia – già adesso o potenzialmente in futuro – dominata da questa complessità nascosta che ci esclude e che ci mostra solo il volto amichevole della semplificazione della nostra esperienza di acquisto. Lo spazio che occupiamo è solo quello della genuinità del servizio, il livello superficiale e infantile, il risultato di un lavorìo sottostante. A noi basta cliccare qualcosa su uno schermo. E nessuno ci chiede nulla, in realtà, se non di essere felici e soddisfatti nel fare tutto questo. Nessuno ci giudica, se non capiamo cosa accade. Nessuno ci chiede di tenere conto di nulla. È molto difficile persino capire se dobbiamo preoccuparci, poi.

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