È notte fonda: tu sei al centro del mondo, e inizi a parlare. Mi racconti del paese da dove sei venuto, le case di cemento armato, la polvere, i pattugliamenti della polizia, il viaggio lunghissimo nel furgone, stretto agli altri con le ginocchia strette al petto come un feto adulto, le violenze, i calci, le nocche rotte, gli stupri alle donne vicino, la preghiera  ai carcerieri per una buccia di limone da strofinare sulla pelle per allontanare le zanzare, e poi il mare nero, il freddo, le partite a pallone sul campo di cemento armato, sole, sole, c’è sempre troppo sole nei tuoi racconti, ed è il sole di un altro pianeta: sei un alieno, un extraterrestre atterrato con la sua navicella di dolore solo per salvarmi.

Parla: continua a parlare, ti prego, pagherò, certo, pagherò ogni minuto che parli, ogni secondo, e ti rifarò nuovo, ti comprerò vestiti, le sneakers edizione limitata che ti piacciono e anche un completo con giacca pantaloni e camicia, anche la cravatta, tu non l’hai mai messa una cravatta, non è vero? Solo una volta, alla tua prima comunione a Dakar, avevi nove anni, la piccola cravatta e un giglio bianco in mano, sarai stato bellissimo col tuo giglio bianco in mano a guardare nel futuro dove in qualche remota profezia quantistica c’era già il viaggio per mare, il cappello per terra davanti al supermercato dove ti ho trovato, c’ero già io ad aspettare la tua folgorazione, c’era già questa notte, il mio corpo sfatto e sgraziato e il tuo perfetto come quello di un dio, mentre ti dico canta, amore, canta per me finché non sarà mattina. Ti ho trovato, e ti prometto che colmerò questo vuoto che ci separa. Troverò un modo. Ci sto provando, non puoi dire che non ci stia provando.

Vuoi andare a trovare la tua famiglia, sono due anni che non li vedi, e allora ti dico bene, andiamoci insieme. Andiamo: Evry, periferia a sud di Parigi, molto, molto a sud, tecnicamente una banlieue ma tu non vuoi che si usi questa parola.

Non è facile per me, sono quello che sono e non è colpa mia se vengo da una famiglia ricca e ho avuto un certo tipo di vita, molto diversa dalla tua, ma non è una colpa aver evitato l’inferno, non è una colpa il privilegio di nascita, questo io lo so, eppure vivo ogni momento di questo viaggio come fosse un’espiazione dei miei cinquant’anni di incontrastato benessere – una prova d’amore, un’ordalia: la Gare de Lyon, il passaggio nascosto che porta verso il basso, la discesa con la scala mobile giù, giù, come negli inferi, l’enorme banchina affollata, i neon, la macchinetta dei biglietti che non ha il touchscreen ma una specie di rotella, il talloncino da timbrare, direzione Melun, scendiamo ancora, nel treno giallo e malmesso sono l’unica donna senza velo in tutto il vagone, nonché quella con la pelle più chiara, e c’è il pianto di un bambino, una ragazza al telefono, non capisco bene le parole ma dice lo odio, lo odio, lo odio con tutta l’anima, Le Vert de Maisons, Créteil Pompadour, Villeneuve, Vigneux-sur-seine, Juvisy, paesi tutti uguali pieni di enormi torri, paesi fatti solo di torri e cubi di cemento, e arriviamo a Evry, la stazione è immensa e quasi deserta, nell’atrio della biglietteria c’è un banchino pieghevole dove vendono frutta e verdura, dico prendiamo un taxi ma tu dici no, qui non ci sono taxi, e poi è vicino, andiamo a piedi, sono due passi, mi guardano tutti, sono stata una stupida a vestirmi così, penso, non dovevo truccarmi, mettermi queste scarpe, per strada vedo il municipio con l’enorme bandiera francese, i caseggiati, file e file di caseggiati futuristici con le insegne chiuse, non ci sono negozi, mi viene voglia di urlare, i negozi sono i sorrisi dell’occidente, il capitale benevolo che sorride ai suoi fedeli, li rassicura, tanti dicono di odiarlo l’occidente capitalistico ma mentono, lo amiamo tutti il capitalismo, la sua struttura i suoi colori le sue regole sono il nostro unico conforto, e qui non c’è conforto, non ci sono negozi, solo un enorme centro commerciale come una cattedrale in mezzo al deserto, e non c’è luce, le strade sono vuote sotto un cielo grigio che sembra stia per spezzarsi, e poi uomini, uomini dappertutto con le magliette tese dalle pance, la barba lunga, gli occhi umidi, qualche donna velata che spinge un passeggino, un giardino dove giocano a basket, uno dei ragazzini ti saluta, qui tutti amano il calcio, dici, eppure non fanno campetti da calcio, tutti vorrebbero porte da calcio e invece il comune pianta solo canestri da basket, sembra che lo faccia per prenderci in giro.

È l’America, ti dico quasi senza pensarci, e la parola mi rimane in mente come un oggetto che ti resta in mano e non sai più dove mettere, l’America, penso, l’America, l’America è la nostra religione, mentre vedo le farmacie con le serrande abbassate che servono i clienti attraverso la grata, la muraglia dei palazzi, le biciclette con le ruote grosse come fuoristrada, una bambina obesa che mangia un dolce, è l’America che si è incastrata qui come una collisione di continenti e ha fatto infezione, ci sono manipoli di ragazzi con le felpe che ci guardano fermi davanti ai portoni, e uno di questi è il tuo, dici, questa è casa mia – no, vorrei dirti, casa tua non è questa, casa tua è la nostra: l’atrio qui odora di ruggine e muffa, ci sono due passeggini lasciati per le scale, lunghi corridoi pieni di porte da dove vengono strepiti di bambini, al quarto piano ci vengono incontro tua madre e tua sorella, e sono grasse, tutti qui intorno sono orrendamente grassi e hanno l’odore di chi mangia merda, e il corpo restituisce l’odore della merda, tua madre puzza, vorrei non fosse così ma è così, tua sorella puzza, mi guardano e ti chiedono: è lei? Sì, dico, sì, so rispondere anche da sola: sono io.

La scena dopo si svolge in cucina. È una delle scene madri di questo racconto. Siamo seduti intorno a questo tavolo di formica azzurrina e tua madre ha preparato il caffè, un brodo nero che faccio fatica a non sputare. Sorrido, sorrido – continuo a sorridere. Tua madre mi fissa. Sono seduta qui e vi guardo parlare a un volume di voce altissimo, qualcuno nelle case vicine sta cucinando e ne sento l’odore e all’improvviso mi prende una vampata d’orrore: orrore per la cucina mangiata dal calcare, orrore i rivoli d’acqua, l’odore di curcuma, le urla dei bambini, orrore le biciclette incastrate sui balconi come in una perenna impennata, orrore le maglie da calcio di Messi di Neymar di Mbappe, ma non è solo orrore, i giovani usano un termine, cringe, dicono è cringe perché non è solo orrore, c’è anche l’imbarazzo, cringe è orrore più imbarazzo, tua sorella grassa che ti parla di un corso di balli latinoamericani e serissima ti mostra il video di questo corso con la sua musica idiota è cringe, sono cringe i suoi vestiti dozzinali, è cringe il suo odore, ogni sua voglia e desiderio è cringe, mi viene la nausea, devo andare in bagno e faccio appena in tempo a entrare nella stanzetta piastrellata piccola come una tomba che vomito nella tazza da cui viene un odore ferroso, conosco quest’odore, qualcuno qui ha avuto le mestruazioni di recente e ha buttato il tampone nel cesso: vomito così forte che sporco le piastrelle. Mi ripulisco la bocca con un filo d’acqua.

Quando esco tua madre è sulla porta, allunga la mano, penso per farmi una carezza, invece mi passa il pollice sullo zigomo, forte, nessuno mi ha mai toccato la faccia in questo modo, come fossi una cosa, come avrebbe palpato un animale, e quando vede che le è rimasto del mascara sul polpastrello sorride come se avesse avuto conferma di qualcosa che già si aspettava, tu es sale, mi dice, sei sporca, e poi lo annuncia come per lanciare un allarme: elle est sale, elle est sale, urla rivolta alla figlia, e ride, e anche tu ridi, e dici elle est sale pas, maman, ma stai ridendo anche tu, adesso sei con loro e contro di me, sei dalla parte di quelli che ridono di me, e in effetti devo essere ridicola qui nella cucina miserabile di una banlieue col mio vestito firmato, i miei capelli da centocinquanta euro dal parrucchiere, la mia voce fuori luogo, completamente fuori luogo: e tu sei con loro e contro di me.

Me ne vado, di corsa, riprendo il cappotto, la borsa, la risata di tua madre m’insegue fino alla porta. Dove vai, mi dici, dove vai, ma io sono già per le scale di corsa, sto scappando adesso, corro, scappo, non mi ferma nessuno, correrò e non mi fermerò finché non vedrò di nuovo il mio mondo e i miei simili intorno, vado di corsa fino alla stazione, un tizio mi urla qualcosa dall’altro lato della strada, ride: questo è il tuo mondo e mi ride addosso. Sei arrivato mentre il treno entrava in stazione. L’hai preso con me. Nel viaggio non ci siamo detti neanche una parola.

Siamo arrivati alla Gare de Lyon e poi siamo tornati all’hotel come due che tornano da una catastrofe. Volevamo unire i nostri mondi, così avevamo detto, avviciniamo i nostri mondi così come noi ci siamo avvicinati, ma è stato un disastro, sembriamo due reduci: non riusciamo a guardarci perché tra noi è passata la guerra.

L’hai visto, i mondi non si fondono, i mondi si scontrano, gli individui a volte possono anche avvicinarsi, ma i mondi no, i mondi non si fondono, i mondi si rompono, si spezzano, le collisioni tra i mondi sono spaventose, aprono buchi neri, movimenti tettonici che non dipendono da noi e non si possono fermare: l’alto spinge fuori il basso, il centro spinge fuori la sua periferia, l’Isle Saint Louis spinge fuori Evry, Kensington spinge via Brixton, Brera spinge via la Barona, è l’universo in espansione, il centro spinge le sue periferie fuori  orbita, nello spazio nero, e noi amore mio non dobbiamo farci risucchiare: dobbiamo stare di qua, dobbiamo assolutamente e senza esitazione stare di qua, anche se questo significa spingere fuori gli altri, la guerra è così, ci siamo noi e ci sono gli altri, noi contro tutti gli altri, e noi dobbiamo rimanere qui nella nostra fortezza e guardare di là solo nei film esotici di periferie squallide e degradate a distanza di sicurezza e poi bere un bicchiere di vino, scuotere la testa con gravità e dire: terribile, lo stato dovrebbe fare qualcosa per queste situazioni, investire di più nei servizi, nella cultura, nell’istruzione, le solite cose, ma stando di qua, l’importante è rimanere dalla parte giusta e salvarci: per loro non c’è niente da fare, la salvezza generale non esiste ma quella individuale invece sì, salvarsi tutti non si può ma salvarsi in pochi sì, e noi siamo salvi, io sono salva e ho salvato anche te, ma possiamo continuare a salvarci solo se rimaniamo fuori da tutta questa merda, perché la merda se la fai entrare poi dilaga dappertutto.

Io ti ho portato fuori per sempre da quella merda, è alle tue spalle adesso, e non devi più voltarti a guardarla anche se ti chiama per nome. Te lo dico ora, una volta per tutte: a Evry non metterò più piede. Non vedrò più tua madre, non vedrò mai più tua sorella e neanche il tuo paese. Tu mi hai salvato amore, ma anch’io ho salvato te, e anche adesso io ti sto salvando.

Ricordi quella volta, eravamo a Londra, ti ci ho portato in viaggio per farti un regalo, e sei rimasto incantato nella stanza d’hotel davanti alla grande vetrata che dà sulla City, l’abbiamo guardata insieme, e tu mi hai infilato le dita dentro, prima due, poi tre e quattro, tutta la mano a pugno, mi hai aperto il corpo, l’ho sentito spaccarsi, era il tuo dolore ed era anche il mio, era tutto il dolore della guerra ma era anche il dolore della nostra salvezza: ho sentito il mio corpo aprirsi, contrarsi e inghiottirti, questo mio corpo si è spalancato spezzato e riaperto, è un parto, ma al contrario, ti sto inglobando, ti sto generando, ti rimetto al mondo, ci rigetto nel mondo tutti e due in una forma nuova, anche se ci fa male, anche se urlo, e fuori è fine gennaio e inizia a nevicare, è come se dal mio stesso corpo spaccato scoppiasse la tempesta, turbini di neve che rullano tra i grattacieli, il mio corpo spezzato genera turbini di neve, come se il tuo pugno nella mia fica avesse scatenato tutto questo, amore, soffiano vortici di neve tra i grattacieli della City, e noi siamo a Londra in una stanza da seicento sterline a notte e guardiamo fuori e io scoppio a piangere, non un pianto da donna ma un pianto di bambina, singhiozzo, latro come una bestia, e tu forse pensi che sia per il dolore e mi accarezzi il viso, ma non smetti, lo sai anche tu che è necessario – mi accarezzi la testa come ai bambini quando piangono forte, i bambini che meglio di tutti sanno cos’è la disperazione, e io ora so cos’è la disperazione, l’amore in ogni sua forma è sempre disperazione, e tu mi distruggi e insieme mi accarezzi mentre piango e fuori è inverno e soffia la neve fra i grattacieli della City, eccolo, è questo l’attimo che ci salva, il rito che ci rimette al mondo – e questo ovviamente non importa a nessuno, le nostre lacrime e il tuo pugno dentro di me, la tua carezza il mio tremore la tempesta tutto verrà soffiato via dal tempo, anche queste parole che sto dicendo ora verranno soffiate via dal tempo e di noi resterà forse solo una frase da qualche parte, un appunto nel quaderno di uno scrittore come un disegno di caccia nel fondo di una grotta nel neolitico, un frammento di noi sperduto nel tempo che dice: io ho amato questo essere – io ho amato questo essere più di ogni altro al mondo.

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