Il nuovo disco di Cosmo, ovvero Marco Jacopo Bianchi, nato a Ivrea nel 1982, figlio di operai e laureato in filosofia, si intitola La terza estate dell’amore; il riferimento esplicito è alla Summer of Love di fine anni Sessanta. «Io ti guardavo ai tempi di brand:new», mi dice subitissimo, come a mettere le cose in chiaro: so chi sei e so cos’hai fatto. «Te lo dicono tutti eh», aggiunge, con una bella tenerezza.

Sì, più o meno, diciamo che la generazione subito dopo la mia che poi s’è messa a suonare guardava Mtv in generale (Mtv Generatioooon!) e quelli che fanno musica “intelligente” guardavano il programma “intelligente”. E infatti stanno tutti malissimo, gli dico ridendo. Ma no, in realtà stanno benissimo, perché sembrano accomunati – non faccio nomi – dalla necessità di fare quello che vogliono e chi se ne frega, che è un gran bene.

Marco è arrivato in ritardo perché è andato a casa a trovare la sua terza figlia, appena nata. Che bella idea far uscire l’album in contemporanea alla nascita di un figlio, gli dico. «In realtà ho fatto bene, perché quando ti nasce un figlio scompaiono tutte le ansie che hai, io ne avevo un sacco sul disco e poi è arrivata a casa ‘sta tipa e ora metto tutto in prospettiva», risponde lui.

Fare figli è la cosa più psichedelica che possa accadere. Fare figli è una rivoluzione permanente.

Ma infatti, invece i miei amici intellettuali e artistoidi non ne fanno. Questa battaglia contro la famiglia tradizionale che alcuni fanno a sinistra è una cazzata. La famiglia “tradizionale” è dentro il concetto di famiglia aperta e libera, non contrapposto.

Esatto. Poi tra l’altro se quelli di sinistra non fanno figli, si estinguerà la sinistra. Visto che è sempre più decisivo dove nasci, il resto è un di cui. D’altra parte è vero che la sinistra è già estinta. L’ultima speranza è il manifesto che hai fatto uscire insieme al disco – ne cito una parte: “La terza estate dell’amore è qualcosa che deve accadere. La prima Summer of Love era legata al movimento hippy di fine anni Sessanta. La seconda al movimento rave di fine anni Ottanta. Oggi la necessità di socialità e amore collettivo si fa sempre più forte”. Un progetto ambizioso, addirittura Il manifesto della terza Summer of Love?

Sono un grande fan del Manifesto del Partito Comunista, soprattutto nei suoi dispositivi retorici. Va dritto, esprime una visione e lo fa nel modo più chiaro possibile. Era necessario “presentare” il disco ma non volevo fare un comunicato stampa tradizionale. Io scrivo molto, mi son chiesto cosa fosse questa terza estate dell’amore ed è venuto fuori il manifesto. Non volevo essere retorico nei testi, ma completarli scrivendo e quindi fare un manifesto mi sembrava figo, per esplicitare il significato politico che c’è nelle canzoni, anche se lì è espresso per immagini. Il manifesto è il collante, completa il concept del disco.

Abbiamo problemi ormai strutturali, dovuti a certi automatismi a cui ci siamo abbandonati da decenni. Automatismi che hanno compresso le esigenze del corpo e della socialità. La pandemia non ha fatto altro che alzare la temperatura sotto la pentola a pressione. Oggi fare musica e aggregarsi è un atto politico, lo era già prima della pandemia, ora ancor di più; dobbiamo reclamare gli spazi, i luoghi d’incontro. Anche perché passata l’emergenza non ci sarà niente di pronto o risolto, gli spazi e i club chiudono, la crisi economica è feroce. Dopo la pandemia vorrei ci fosse una lotta di conquista dello spazio fisico. Abbiamo città piene di cadaveri architettonici, regole liberticide nel loro eccesso di tecnicismi e di burocrazia: anche solo per fare una raccolta fondi per una no profit hai bisogno di fare mille pratiche e spendere un mucchio di soldi. Viviamo in una società che si è trincerata dietro la responsabilità penale e la legittimazione della “tecnica”. Quello che soffre è la socialità. Vedo un legame forte tra il momento festante e l’impegno politico e immagino così il clubbing del futuro. La discoteca mi sembra un luogo che ha fatto il suo tempo, trovo più attuali certi spazi in cui la ricerca musicale, il ballo il divertimento va di pari passo con l’impegno politico, dei centri sociali 2.0, penso a Macao, al Tempio del futuro perduto, politicamente molto schierati. Ora la politica è anche riaprire a questo tipo di impegno, che non è una bandiera, ma un fare: e provare a cambiare le cose passando dal divertimento.

T.A.Z., zone temporaneamente autonome. Sei molto anni ’90. Pensi davvero che la rave culture sia stata una seconda Summer of love?

Hakim Bey, certo, è stata una mia lettura ispiratrice. C’è una lezione da raccogliere nella rave culture. Bisogna pretendere che la politica la riconosca, sono state messe in un angolo una serie di pratiche umane…

Ma perché hai bisogno del riconoscimento della politica?

Sono gramsciano. Reclamare gli spazi e farli riconoscere è un discorso di lotta ideologica, di egemonia culturale.

Capisco meglio ora la tua presentazione dell’album, con gli speaker piazzati in tanti luoghi diversi – da un bosco all’incrocio trafficato di una città. Hai occupato gli spazi fisici con la tua musica. Forse quella performance è il legante tra disco e manifesto.

È proprio quello il concetto! Mettere la musica negli spazi da cui è stata esclusa, arrivare alla consapevolezza che ogni atto che compio può essere un corollario politico rispetto al disco: dalla foto che posti alle azioni che intraprendi. Mi piace comunicare con un manifesto, con una azione come quella che descrivi, ho idee su performance anche più estreme. Mi piacerebbe istigare la repressione, stanare il potere e costringerlo a palesarsi, testando i limiti della libertà, senza alcuna violenza naturalmente. La repressione avviene perché varchi una soglia, e quella soglia deve essere messa in discussione. Se metti musica in giro, cosa che per esempio in Centroamerica è una cosa naturale e condivisa, sei un problema per la società.

Più è ricca la società e meno è spontanea, naturalmente. Io penso che piuttosto che una lotta ideologica, ormai impraticabile, si debba tornare a un certo radicalismo in tema di diritti sociali e individuali, lavoro, e soprattutto redistribuzione della ricchezza. Ma un pensiero radicale non può essere ideologico.

Mi piace la parola radicale, per me significa andare alla base del problema, alla radice. Radicale è la soluzione a un problema, cambiare il paradigma di come affronti i problemi e cerchi le soluzioni. Per esempio la pandemia ha costretto l’Europa a mettere in atto meccanismi economici che prima erano impensabili e ciò ha messo in dubbio delle “regole” che ci eravamo dati e che sembravano non poter essere infrante. Essere radicali per me vuol dire anche essere pragmatici e razionali; prendi il tema della droga: come lo affronti, con i giovani? Devi cambiare approccio in modo radicale. Educare! Esattamente come c’è una cultura dell’alcool condivisa, per cui la maggior parte dei bevitori non è alcolista, lo stesso va fatto con le altre sostanze.

Un altro tema interessante del tuo manifesto è il tema del corpo. Dici così: “Un corpo erotico sbattuto in faccia al gelo di morte del capitalismo e della burocrazia, un ballo sulla carcassa di una società incapace di godere e di organizzarsi per essere felice”.

Concordo con l’idea di rimettere al centro il corpo, diventato oggetto di scontro e non soggetto desiderante; parli di corpo erotico forse in contrapposizione alla società della pornografia, nella quale viviamo – e non parlo di sesso ovviamente, ma di una caratteristica consustanziale al nostro essere sociali; la recita, il finto piacere, l’esibizione come scopo. Niente desideri, solo soddisfazione di pseudo-desideri autoindotti e immediatamente autosoddisfatti.

È assurdo che mentre dilaga la pornografia nell’immaginario giovanile, non crollino tabù, non ci sia maggiore disinvoltura sessuale, tutt’altro. Nel ballo, nel clubbing ciò che mi colpisce è la dimensione carnale. Che non è andare in pista per cercare poi di scopare, ma mettere il tuo corpo in quel flusso.

L’esperienza sessuale, nel senso più alto del termine, è già lo stare insieme alla gente a ballare: è libera e sovraindividuale.

Temo che ai ragazzini manchi questa cosa, anche a causa della continua mediazione del mezzo tecnologico. In più c’è una totale cecità rispetto a questo tema, la politica ormai si fida solo di ingegneri e vuole numeri, e senza numeri non vede il problema tantomeno la soluzione. C’è una reificazione del corpo anche nel dibattito sui diritti, in special modo quello urlato sui social, che non è dibattito.

Altra citazione: “Andrà tutto bene, purché non arrechi disturbo alcuno. La nuova dittatura passa attraverso questa ragionevolezza, e sta erodendo ogni piccolo spazio di autonomia”. È interessante la tua critica alla ragionevolezza nei tempi più irrazionali che ci siano. Dove la vedi tutta questa ragionevolezza? È vero, il peggio sembra passato ma non vedo ancora all’orizzonte un nuovo secolo dei lumi, del quale avremmo tanto bisogno.

La “ragionevolezza” di cui parlo è il dominio del “buonsenso” dettato dal fatto che ci sono regole di prudenza da rispettare. Il tema della sicurezza io non lo digerisco, è un pretesto per vietare, però non viene imposto come tale, e dunque in qualche misura liberticida, ma come una cosa, appunto, “ragionevole”. Secondo me affrontare radicalmente il tema dell’irrazionalismo che poni significa ammettere a noi stessi che viviamo in un’epoca neo-tribale e che è possibile che convivano persone che hanno visioni opposte. Mio padre è un negazionista no-vax. Provo a convincerlo ma lui non mi ascolta e non ascolterà mai la controparte. Io lo ritengo un pazzo. Questa è la condizione più ampia, mentre il mio riferimento è al tipo di società ultra-regolamentata nella quale viviamo, la burocratizzazione, l’ingegnerizzazione di tutti gli aspetti della vita sociale, la perdita della spontaneità. L’impianto burocratico delle leggi viene legittimato da calcoli “ingegneristici”. E ciò fa di chiunque voglia sottrarsi un pazzo.

Vuoi riempire quella piazza di persone? Non puoi. Da tre anni il carnevale di Ivrea non si può più fare, ci sono steward che vengono da fuori a bloccare le strade, c’è il numero chiuso… il carnevale è sempre stato una festa di libertà, di una città che cambiava volto. Poi è arrivato questa specie di squadrismo light, quando invece il nostro carnevale è una celebrazione della rivolta contro il signorotto locale – a inizio Ottocento prese i suoi valori dalla rivoluzione francese.

Ora sembra un evento come potrebbe essere una fiera. Gli abitanti della zona non lo digeriscono ma non si riesce a ribellarsi perché è “ragionevole” il fatto che ci sia un piano di sicurezza “per il nostro bene”.

Però il carnevale di Ivrea è neo-tribalismo, esattamente come la rave culture. Sono rituali.

È vero, ma la “ragionevolezza” trionfante si riduce a una iper-regolamentazione secondo griglie schematiche.

Per me il tema dei no-vax, non è un problema, finché si vaccina una percentuale importante della popolazione, del resto non me ne frega niente, e invece anche noi stiamo lì a massacrarli.

Beh gli hanno dato uno spazio mediatico enorme, sono stati sovrarappresentati, sono solo quattro scemi.

Mi rendo conto proprio che la ragionevolezza si impone nascondendo il suo essere ideologica. Non c’è il dittatore che detta le regole; esiste una serie di norme concertate che vengono imposte in virtù della loro presupposta ragionevolezza che porterebbe al bene pubblico.

Io penso invece che viviamo un’epoca nella quale le decisioni politiche sono imposte con una comunicazione di pancia, non invocando la ragionevolezza: costruiamo un muro al confine col Messico! È irragionevole, ma parla alla tua pancia ignorante e per questo innocente.

Tu dici che la regola gratuita viene fatta passare come ragionevole e questo implica una accettazione della stessa in quanto ragionevole, mentre temo che il consenso passi ancora quasi sempre dalla pancia.

Questo per me è scontato, certo. Ovvio che lottare contro queste derive barbariche è necessario. Ma io penso al tema degli spazi, la mancanza di spontaneità, non c’è la percezione della dittatura quando in realtà anno dopo anno, decennio dopo decennio, gli spazi pubblici sono stati erosi.

Il mio discorso è circoscritto a questo, sul tema più ampio sono d’accordo con te.

Il tuo tema mi pare possa essere allora quello della società del controllo a “fin di bene”, della società della sicurezza, del rischio zero.

Sì. Siamo sprofondati in questo. La maestra di mio figlio non fa correre i bambini nell’intervallo nel cortile di asfalto per paura che cadano. «Se cadete poi rientriamo tutti in classe». Li minaccia così. O anche «non correre così non sudi». Assurdo. Pensa anche al fatto che siamo nel post-pandemia, questi bimbi hanno ancora sempre addosso la mascherina e avrebbero bisogno di aria, di vita, di corpi. La preside vieta loro le uscite quando dovrebbero stare il più possibile all’aperto. Perché devono pararsi il culo a livello penale. In effetti qui la ragionevolezza non c’entra niente…

Sì penso che il tema che ti sta a cuore – e anche a me – è quello della sicurezza e della vita dei corpi. Del resto senza corpo non saremmo e la musica stessa, l’esempio forse più alto di espressione e esperienza spirituale, è fisica. In Antipop, bel pezzo elettronico, un po’ dance intelligente e un po’ punk vivaddio, parli di “fabbrica della musica”…

È un’invettiva divertente. Più pop possibile, perché io voglio essere pop! Ma è anche una presa di posizione contro l’atteggiamento di tanti colleghi, di una nuova ondata di musicisti che speravo potesse cambiare e non lo ha fatto. Il ricambio è stato solo anagrafico. Fanno solo le cose più sicure e meno rischiose.

Però uno ti può accusare di averlo fatto a tua volta, per esempio Sei la mia città, tuo grande successo, che a me peraltro non fa impazzire…

Ma no quello è culo!

Ma va! Era paraculo, non era culo!

Ma no! Non pensavo avrebbe avuto successo, mi piaceva e l’ho fatta. Poi quando partiva in radio mi sembrava comunque avulsa dal resto. Invece parecchi usano solo la reference, per quello parlo di “fabbrica”. Una cosa funziona e la fanno tutti. Ora tutti vogliono fare la trap. A livello stilistico, di scrittura, c’è un sacco di conformismo. Appena è uscita la trap mi ha esaltato, anche un certo dilettantismo che aveva. Quando ho sentito la Dark Polo Gang per la prima volta mi son detto «ma che cacchio è»? C’era un modo di scrivere sfacciato che mi piaceva. Ma anche i primi due dischi di Sferaebbasta mi sono piaciuti. Poi è invecchiata velocemente, fino a diventare la norma. Uscire dal pantano dello standard è difficile, ma tra i giovani artisti pop trovo molto poco coraggio. Io sono un fan di periodi più d’avanguardia, fine anni Settanta, gli Ottanta, anche i Novanta; oggi c’è più stagnazione, c’è solo la ricerca spasmodica dell’attenzione del pubblico che è sempre più sfuggente, si fanno pezzi brevissimi, ora che col digitale potremmo fare pezzi di un’ora l’uno li stringiamo per favorire il consumo veloce. Però nel momento in cui l’artista si mette a pecora davanti a tutto questo mi annoia. L’attitudine che mi piace è il gioco: voglio sentire musicisti, cantanti e produttori che giochino con la musica, voglio vedere citazioni, incastri, sorprese e invece è un po’ tutto piatto. Non tutto, ma tanto.

Penso che il tuo disco abbia trovato un buon equilibrio tra ricercatezza dei suoni e di certe architetture ritmiche e la voglia, di riuscire a tirare fuori da esse delle canzonette leggere. Tuttavia a un primo ascolto rischia di risultare un po’ claustrofobico.

Sono d’accordo con te. Io sono sempre insoddisfatto. Sto cercando di arrivare a qualcosa che ancóra non è chiaro. Non è un disco questo, ogni pezzo ha un suo mondo, mi piacerebbe riuscire a fare qualcosa che funzioni come un’opera dall’inizio alla fine. Quando l’ho risentito ho pensato che fosse tutto “troppo”, ogni tanto dovrei trovare un po’ di vuoto, invece sono tutti pezzi continui, martellanti. Devo superare questo limite. Io faccio ricerca e dj-set su musica molto ripetitiva, sono sprofondato nel clubbing, altro che il mio disco! La roba che ascolto è ossessiva al massimo. C’è sempre il beat, ho la mente drogata di beat.

Ma quello è ok, anzi mi pare la cosa migliore del disco, la base ritmica.

Si ma vorrei dare meno quel senso di claustrofobia, ammesso che io abbia capito cosa intendi. Un disco pesante da ascoltare tutto, i pezzi non sono tagliati, vanno tutti lunghi, seguono il loro viaggio. È un disco che darà il suo meglio dal vivo. Ma vorrei riuscire in futuro a fare un disco con più respiro. Ci arriverò sicuro…

Fai altri due o tre figli e ci arrivi sicuro. Bene, raccontami ora, per chiudere in bellezza, cosa ti ha fatto diventare quello che sei.

Vengo da una famiglia operaia, nella quale c’è stata sempre la possibilità di esprimersi liberamente, non ci sono mai stati divieti. Ho goduto di grande fiducia da parte dei miei, senza grandi disponibilità economica, la fiducia si accompagnava a una vita di ristrettezze. C’era mio nonno, comunista ortodosso, le cui idee ho capito solo studiando filosofia all’Università. Ancora oggi discutiamo molto, è vecchio stampo, un extraparlamentare. Poi l’incontro con la morte. Intorno ai 18 anni ho affrontato una serie di mazzate pesanti, tutto nel 2001. Anno orribile, tra il G8, le torri gemelle, la morte di un mio caro amico, che era il batterista del gruppo e la separazione dei miei. Poi assurdamente mi sono sposato con la ex-fidanzata del mio amico, ci siamo innamorati anni dopo, è stato un lunghissimo tira e molla, non accettavamo ciò che ci stava capitando. Ho capito che in questo turbine della vita bisogna entrarci totalmente… Sul finire del liceo iniziai ad appassionarmi a Nietzsche, anche per quello mi sono iscritto a filosofia, ed ero un po’ nichilista. Ma la musica per me è sempre stata un pallino, leggevo blow-up, ero un “alternativo”. Ho iniziato a suonare con la mia prima band i Drink to me, ho fatto la gavetta, un sacco di piccoli concerti. Quando poi è esplosa la cosa Cosmo con L’ultima festa la prima cosa che ho pensato è che avrei finalmente potuto organizzare delle feste fighissime – io ne ho sempre organizzate a Ivrea, piccole, ma belle, ma volevo imparare a mettere i dischi perché avevo capito che quello che mi piace davvero è radunare le persone e farle divertire. Lo abbiamo fatto per due anni in uno scantinato, con IvreaTronic, poi ci hanno fatto smettere perché eravamo “illegali”. Ma quell’esperienza è stata una sintesi tra il superamento della morale, il danzare su questo cazzo di casino che è la vita, il mettere il corpo al centro di tutto. Sono state le feste ad aprirmi a una dimensione politica. Ho tirato le fila di questo marxismo di straforo che arrivava da mio nonno, i miei discorsi di oggi in realtà sono cose che pensavo già da tanti anni. Ma i pezzi della mia vita si sono rimessi insieme solo grazie alla musica.

 

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