Ti chiederò delle cose che ti annoieranno, però poi mano a mano arriveremo da qualche parte, spero.

Va bene.

Tocca iniziare con la questione della provincia, giusto? Come sei riuscito a trasformare quello strano luogo dove stai, Ivrea, in un posto da cui non sei mai voluto andare via?

Questo è un posto che, appunto, ha un suo carattere specifico. Ovviamente inclusa la grande storia della Olivetti. Qua, se hai avuto come me nonni dentro l’Olivetti, e se hai un minimo il polso su quello che accade culturalmente – magari eventi che spesso non son tanto per i giovani – c’è questa memoria che torna ricorrente, di Adriano soprattutto e della sua visione politica.

Poi, anche a livello urbanistico e architettonico, siamo dentro diversi suoi progetti. Il fatto che un sacco di gente ti abbia raccontato di un’azienda che si è presa cura del territorio in cui è nata, con una responsabilità morale e sociale, non è proprio una roba così usuale. A volte, quando degenera, diventa una nostalgia fine a sé stessa che in molti ragazzi di qui ha rotto le palle, perché dici: muoviamoci oltre questo ricordo, no? Però la specificità è questa. Tutti questi edifici. Molti sono sfitti, sono proprio vuoti, altri sono stati occupati da società nuove che poi sono tutte evoluzioni del primo grosso cambiamento che mi pare sia stato Omnitel. Fu una creazione di Olivetti. Qui è stato tutto riconvertito, poi. Però quei valori lì sono uno spettro.

Valori a parte, si è impoverito il tessuto sociale.

Chiaro, avevamo una multinazionale potentissima. Sì, si è impoverito. Però devo dire che è rimasto secondo me un bell’humus culturale, che io avverto comunque. Sento sempre un potenziale qua, io, sì. Non è la tipica provincia, questa. Tra l’altro adesso è diventata anche teatro di un bel festival di letteratura, che si chiama La grande invasione. C’era di mezzo minimum fax, adesso è Sur che organizza.

Che facoltà hai fatto?

Filosofia.

Contemporaneamente sai bene che la maggior parte del Piemonte è considerata una zona grigia, cioè una delle aree del nord che sono sfumate silenziosamente dentro la povertà negli ultimi due decenni almeno, quasi un caso di scuola. Si è passati da una regione ricca a una regione che ha parecchie aree dove quella del crollo del pavimento sociale è una paura quotidiana.

Eh, è la grande industria che comunque ha chiuso i battenti. Solo la Fiat che cazzo è diventata, no? Pensa a quante migliaia e migliaia di persone lavoravano in quegli ambiti lì. L’Olivetti, appunto.

Hai una dimensione politica tranquillamente potente, naturale. È una cosa che pratichi solo in relazione alla frangia specifica dei diritti civili e delle loro possibili restrizioni, oppure si allarga alla sfera delle tutele fondamentali per il corpo sociale?

Per me la questione dei diritti civili non è comunque separata da quella che è una giustizia sociale più larga, credo. Fermarsi alle questioni dei diritti civili non è abbastanza, secondo me. È il minimo sindacale. Quello che mi preme ancora di più, che è forse la cosa più grave, è la disuguaglianza sociale.

Lo ripeto: lo scandalo della disuguaglianza e il lasciare trionfare in maniera così evidente il punto di vista del ricco. Per quello che riguarda me, vengo fuori da una famiglia operaia, working class, quegli ambienti li conosco, li ho visti, anche di sottoproletariato ne conosco, e non riesco assolutamente mai a entrare nella retorica del “se uno è così, se lo merita”, che uno deve rimboccarsi le maniche e tirarsi fuori dalla merda. Trovo che quella roba lì vada risolta strutturalmente.

In che modo?

È un problema di disuguaglianza strutturale. Bisogna o riuscire a evitare che si crei o andare a compensarla, banalmente. Quindi in un particolare momento storico, dove ci sta gente che fa profitti giganti quando molti altri sprofondano nella povertà, è abbastanza evidente che le risorse bisogna andare a prenderle dalla cima alla montagna e portarle a valle. Il fulcro della sinistra dovrebbe essere questo. E invece ci facciamo intortare e quando si parla di patrimoniale sembra che si intacchino i conti in banca.

Tu sei pronto a sacrificare i tuoi?

Sì. Io lo dico sempre. Quando ho iniziato a diventare ricco ho capito che tutti quelli ricchi che piangevano miseria, che si lamentavano delle tasse, erano soltanto dei frignoni viziati, perché in realtà io sto bene anche se pago le tasse.

Ti consideri ricco, giustamente.

Sì, ma me lo ha detto il mio commercialista. Guarda che sei tra i paperoni, eh. Ho detto: ammazza! No, non pensavo. Però questo mi ha fatto riflettere su quanto sia esponenziale la curva. Parallelamente si dovrebbe creare un reddito fisso, ma non che lo perdi accettando un lavoro, ovvero istituire il classico reddito universale di base. Quella penso che sia una misura sulla quale andrebbero fatti studi seri – li stan facendo tra l’altro – soprattutto studi di sostenibilità, di copertura.

Quanti figli hai?

Ne ho tre.

Vuol dire che non ti preoccupa il futuro, evidentemente.

Mi preoccupa, in realtà, e quindi mi preoccupo anche di curarlo, il futuro. Quindi penso che non facendo figli non si ha neanche l’opportunità di far sopravvivere certe idee, certe energie.

Questo intendi per curare.

Comunque sono contento che ci siano delle persone dopo di me che portino in giro certe energie, certi pensieri, certe sensibilità.

E come cazzo li educhi?

Non è che devi per forza sempre, come dire, fare loro i lavaggi del cervello. Semplicemente li educhi nell’essere. Nell’essere in un certo modo. Ad esempio sull’identità di genere vanno educati proprio nell’apertura più totale.

I miei figli sanno già che esistono persone transessuali, lo sanno da quando avevano 4 anni. Se tu li rendi sensibili a questo, capisci, quando si trovano in un gruppo, se c’è almeno uno che dice “raga, ma che problema c’è?” con una certa fermezza, magari ne contagia un altro, no? Piuttosto che lasciare il mondo in mano agli stronzi.

C’è una dimensione fricchettona in quello che fai?

Sono un po’ fricchettone. Ho 40 anni. Io diciamo che mi sono infricchettonito un po’ di più in questo periodo. Il fatto della pandemia ha accelerato un processo in corso. Avevo fatto un tour de force di qualche anno, ho battuto il classico ferro caldo per un po’. Il tour de L’ultima festa era stato una grossa fatica, 90 date in 10 mesi. E poi subito dopo è uscito Sei la mia città, ho iniziato a fare feste con Ivreatronic, poi è partito il tour di Cosmotronic, ma io era già da anni che andavo avanti così. Perché avevo fatto un disco di Cosmo, uno della band, i Drink to Me, e poi c’è stato L’ultima festa, era da anni che andavo... un disco all’anno. Quindi quando mi son fermato in realtà era anche per scrollarmi di dosso una potenziale pressione. Avevo bisogno di fermarmi.

E più sentivo la pressione, più facevo altro. Tipo: mi son messo a fare un disco ambient. Che poi è uscito, certo. Ho proprio cercato di massacrare questa sorta di angoscia che poteva salirmi ogni tanto. Ogni volta la prendevo a testate facendo niente. Ci son molti colleghi che sono frenetici, devono avere il pezzo pronto, devono sempre avere qualcosa, no? E invece io son di quelli che a un certo punto si pigliano la pausa. Ho fatto altro.

Ma anche il disco stesso a un certo punto, quando ho iniziato a lavorarci, ho detto ok, adesso lascio andare libere queste improvvisazioni e anche le strutture dei pezzi, invece di pensare a quanto dura il ritornello e a che minutaggio entra, eccetera. Non calcolavo più niente di tutto questo e seguivo... no, aspetta, c’è questo giro: tatatatantam, aspetta, lo faccio andare ancora due battute, mi piace, bello, bello, aspetta, qua ci metto...

E quindi lasciavo andare e poi ogni tanto guardavo. Sei minuti di pezzo! E a chi diceva: cazzo, sei minuti?! Eh, dura così, sei minuti. Libero. Ho sentito un’enorme esigenza di quest’energia, con la crisi che abbiamo iniziato ad attraversare, perché poi è iniziata con la pandemia, che sta avendo tanti risvolti ancora.

Tipo?

E beh, quelli internazionali che sappiamo tutti, quelli economici anche, quelli anche soltanto legati al fatto che le persone hanno iniziato a guardare il mondo del proprio lavoro e della propria vita in maniera diversa, la questione ambientale...

Sai che si sono licenziate un milione e mezzo di persone in Italia?

Si avverte. Penso che conosciamo tutti persone così.

Cos’era per te andare a ballare? E dove?

Ma io non ho mai frequentato il mondo fino a che non ho avuto circa 30 anni, in realtà eh. Io ero più nel giro dei concerti che delle feste, dei club. Sì, sì, frequentavo i concerti, anche su Torino, Milano, insomma seguivo tutta la roba indie, soprattutto angloamericana. Non so, leggevo Blow Up, capito? Con la band si andava in tour, per me era proprio andare in giro a suonare.

E poi pian piano ho iniziato a prendermi bene, dopo un Club To Club (festival internazionale molto rilevante ormai da 20 anni di scena a Torino, c’è anche quest’anno ovviamente, dal 3 al 6 novembre, con grande line-up, ndr) ho detto: madonna, ma che figata! Mi piace questa configurazione, di una persona dietro a degli strumenti, senza questa esibizione per forza ogni volta del rituale rock.

La musica intesa non come una successione di canzoni ma come un flusso unico in cui ti perdi, l’uso anche dell’ecstasy, la dilatazione del tempo, il fatto che tutto diventasse un vero e proprio rituale. Ancora di più, una sorta di tribale post industriale.

E quindi sei andato?

E quindi pian piano, sì, ha iniziato a prendermi bene, la cosa. Però, iniziavo ad avere figli, quindi non è che ho frequentato club alla grande. Se riesco mi ritaglio del tempo, vado. Con Ivreatronic abbiamo iniziato nel 2017 a organizzare delle feste in uno scantinato di una vineria qua a Ivrea, appunto. Abbiam fatto due anni le feste lì, ogni due mesi le facevamo, mezze illegali ovviamente.

E infatti poi ci han fatto smettere, perché gli altri localari denunciavano e arrivava la polizia, quindi abbiamo smesso di farle in quel contesto. Intanto la cosa cresceva di pubblico, sempre di più. All’inizio venivano e pensavano cantassi, la gente: ah, c’è Cosmo! Ma non canti? No, non canto. Non metto neanche pezzi miei, al massimo qualche remix. Però attraverso Ivreatronic abbiamo iniziato a esplorare la parte del dj soprattutto. Sono musicista e mi piace anche il fatto di fare ricerca, imparare.

La radio che poi facevate durante la pandemia faceva particolarmente ridere.

Ah! L’hai seguita? Era un esperimento.

C’era una cosa che proprio mi faceva impazzire.

La mattina, no? Giacomo Laser, un mio amico performer. Disinforma e rinuncia, era il titolo dello show. La radio è stato un bell’esperimento, sai? È stato il modo in cui ci siam stati vicini a distanza, è stato un modo per riscoperchiare tutti i vecchi archivi di musica che erano meno adatti a un pubblico, diciamo, danzante. Erano più da ascolto. È stato bello anche per l’album.

Ancora ieri eravamo in studio a fare un pezzo nuovo e si diceva: mi piacerebbe fare una ballad batteria, piano, chitarra. Cioè rifare anche delle robe che escono proprio fuori dal binario dell’elettronica. Ormai son pronto.

Senti, la cosa comunque più politica che fai è costruire il detonatore che fa deflagrare questa enorme esplosione di energia, durante i concerti.

Eh, ci ho studiato, ci ho studiato, sì, tanto. Nel senso che comunque quando facciamo la scaletta, quando costruisco una setlist lo faccio in maniera che la dinamica del tutto venga convogliata in maniera molto precisa. Sai cos’è il risultato? Sovraeccitazione.

La sovraeccitazione è qualcosa che in qualche modo è sempre un po’ non dico temuta dalle forze dell’ordine, da chi comanda, eccetera, però è guardata con un attimo di timore. Perché una massa di persone sovraeccitate dà sempre un’immagine problematica, no? Per chi deve mantenere l’ordine. E quindi sì, il massimo che mi riesce di fare è quella roba lì. Mandare fuori i corpi, io voglio vedere i corpi che vanno fuori di testa.

È molto ’90 il live.

Sì, sì.

A parte che poi c’è un momento di remix de L’ultima festa che fa molto ridere perché è visibilmente maranza, con il classico giro di piano della house.

Ho usato l’organo dell’M1 Korg. Tan tan tan tan tatata tan ta!

Un classicone.

Sì, sì, ho voluto citare un po’ di robe dell’elettronica che mi piace. C’è una parte breakbeat, c’è una parte U.K. bass, magari un pochino più scura, c’è un tempo techno... quando a un certo punto rallenta tutto. Diciamo che ci sono diversi linguaggi che mi interessano, sia nei miei dj set sia negli ascolti. Io sono un frullatore alla fine. Un artista pop cosa fa? Fa quello.

A proposito di artista pop, il racconto ha sempre due aspetti: il primo l’hai raccontato, l’altro è quello dell’intimità personale e delle relazioni. Tutte le volte che sento alcune cose che descrivi (per questo te lo chiedevo prima, sono di Novi Ligure), vedo parti di certi condomini del Piemonte, di certe scale, di certi androni, di certi pezzi di città. Un certo uso sentimentale del prosaico, della tua intimità in piazza, che poi molti hanno paragonato a Mogol: il caffè al bar, il supermercato. C’era sempre la città o la piccola città lì dentro.

È vero. Anch’io mi accorgo che spesso il paesaggio è quello. Ma io in particolare ne L’ultima festa ho iniziato a rendermi conto che avevo voglia di questa quotidianità, anche nei testi, perché il disco prima, Disordine, era molto filosofico, molto rarefatto. E dopo un po’ ho iniziato a sentirlo come un peso, come un limite. E quindi ho iniziato a cercare immagini e un linguaggio molto più semplice e diretto. Mi piaceva, poi son riuscito a emozionare e a emozionarmi, soprattutto, facendolo.

Somiglia a un vissuto molto tranquillo, molto luminoso, diretto.

Sì, io non è che ho da raccontare una certa rabbia di quartiere, non ho quel tipo... Io vivo in una città tranquilla. Ho una relazione che dura da tantissimi anni. Ci ho fatto figli. Poi ovviamente ho tutte le paturnie del caso, il cazzo che vuoi, però di fatto non è che ho da fare la narrazione alla Massimo Pericolo, per dire... al gabbio, un mese. Cioè non è quella lì la mia realtà. Infatti in un pezzo lo dico anche, «quanto è borghese tutto questo, mi vergogno un po’».

È vero, sempre. Cioè, io vado proprio dritto, non costruisco degli stereotipi. O con quella classica roba che vaga generica. Molti testi della musica italiana spesso sono vuoti perché sono di autori magari che poi li danno all’interprete. Ci manca la carne, il sangue, lo senti che puzza, io lo sento da lontano. Quando arriva la canzone che parla, che senti che c’è dentro una persona, una veramente che ha vissuto, lo avverti, lo senti. E quindi, per quanto mi riguarda, devo sempre ad esempio piangere a un certo punto. Se il pezzo sta andando nella direzione giusta, io piango.

 

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