Ogni giorno, da più di un anno, è come se in Italia precipitasse un aereo, un 747 carico di passeggeri. Certi giorni, in certi periodi, ne sono caduti due, a volte tre. Sono i morti da Covid-19 il cui numero apprendiamo quotidianamente dai bollettini della Protezione civile. Com’è possibile – ce lo si è chiesto più volte anche su questo giornale – che ci siamo abituati a tutto questo? Abbiamo trasformato delle vite umane in numeri, i numeri in contabilità, la contabilità in abitudine. Quale scambio abbiamo accettato per silenziare lo scandalo, la rabbia, il dolore che questo strazio genera in noi se ci fermiamo a riflettere, pur di proseguire più o meno con le nostre vite?

Di certo è uno scambio che genera un resto, un residuo: per quanto proviamo a rimuoverlo, per quanto il discorso pubblico, la politica, ma anche le quotidiane, salutari incombenze, ci spingano a rimuoverlo, questo residuo permane. Come una vibrazione di fondo, un rumore bianco appena percepibile ma costante. Un residuo di cui ci accorgiamo come quando in città un improvviso silenzio lascia emergere il suono della sirena di un’ambulanza. È questo rumore di fondo che ci sta sbriciolando, che ci sfianca e fiacca, come le mura di Gerico distrutte dalle trombe di Giousè. Un lutto collettivo non elaborato, che si unisce alla stanchezza di tenere insieme casa e lavoro, o all’ansia di chi il lavoro non ce l’ha più o di chi ce l’ha ma esposto al rischio, alla stanchezza di vite trasferite online, alla frustrazione di domande che rimangono senza risposta: quando mi vaccinerò? Quando tornerò a scuola? Quanto durerà?

Mettere a fuoco

Non ci sono soluzioni facili, o almeno io non ne ho. Però ci sono due libri – non a caso di due poetesse – che mi hanno aiutato a mettere a fuoco questo sentimento, e facendo ciò portato un po’ di sollievo. E questo nonostante siano stati scritti prima di questa emergenza e trattino di argomenti apparentemente molto lontani dalla nostra esperienza quotidiana.

Economia dell’imperduto di Anne Carson (traduzione di Patrizio Ceccagnoli, Utopia editore) è difficile anche solo da definire: è un saggio poetico di economia politica? Un testo di critica letteraria, di traduttologia, un poema in prosa nascosto dentro una riflessione filosofica? Carson è una delle più importanti poetesse americane, da tempo in odore di Nobel, che in questo libro parla di altri due poeti, il greco del V secolo avanti Cristo Simonide, e il rumeno di origine ebraica Paul Celan (che però scriverà in tedesco, la lingua di chi ha sterminato il suo popolo e la sua famiglia). La lettura delle loro poesie, il ricordo delle loro vite, è il modo per Carson di parlare dell’imperduto, ciò che resta, ciò che permane in uno scambio. Ciò che non è perso, il pochissimo, il quasi niente: questo è l’imperduto, il minimo oltre il quale c’è il nulla.

Il libro è anche un dialogo serratissimo e illuminante con Marx e la teoria del valore, un modo per mettere a confronto due economie, quella della poesia e quella del denaro: l’equivalente universale del denaro permette di scambiare «Ogni qualità o oggetto per qualunque altro, persino qualità e oggetti che sono in contraddizione» dice Marx, «una sorta di mediatore», già Aristotele l’aveva chiarito. Pensiamo che tutto sia scambiabile, che tutto sia alienabile nel suo valore di scambio, che tutto sia traducibile senza nessuna frizione, senza nessun resto. Simonide fu il primo poeta ad accettare denaro in cambio di poesia, sottraendola così all’economia del dono: per questo fu mal visto dai suoi contemporanei e dai secoli successivi. Dare valore a un’opera equivale a dare un prezzo alla durata mortale della vita: «Quando le merci ci si presentano per la loro valutazione e il loro scambio, ciò che in essere stiamo considerando è il tempo». Ma Simonide fu autore celebre soprattutto per i suoi epitaffi: «E questa sicuramente è una funzione della grande poesia: il ricordarci che il significato dell’agire umano non si esaurisce con i fatti fisici». La poesia, per Carson, è la vera economia dell’imperduto: qualcosa, cioè, che mette a valore ciò che l’economia monetaria non vede, che non considera perché troppo piccolo, residuale, sfuggente, perché è un altro nome del nulla. Carson, come alitando sopra un vetro, rende visibile quei momenti invisibili in cui siamo immersi, quelli che hanno a che fare con la perdita, con il lutto, ma anche con l’incontro con l’altro, il momento sospeso di fronte a un’opera d’arte, un verso, un quadro.

Sciogliersi in lacrime

Questi momenti indefinibili, istanti impalpabili in cui l’emozione trabocca, deraglia dai binari della normale contabilità dei sentimenti, sono spesso accompagnati da una manifestazione fisica: il pianto. Anche Heather Christle è una poetessa, più giovane di Anne Carson, e ha scritto un libro ugualmente indefinibile che il Saggiatore porta in libreria in questi giorni (nella traduzione di Giulia Poerio). Il libro delle lacrime è una sequenza di frasi, immagini, brevi paragrafi intorno al pianto: un atlante personale e culturale del piangere, dello sciogliersi in lacrime. Christle mette insieme aneddoti e storia dell’arte (come le opere dell’artista olandese Bas Jan: il video I’m too sad to tell you è la ripresa di un suo primo piano mentre piange), fisiologia, poesia, storia e memoir personale. Il filo rosso, infatti, sono il suo diventare madre, la scoperta della propria fragilità, e il suicidio di un’amica. Il pianto ha una sua peculiare temporalità: se all’inizio, di fronte a una persona che piange, ne siamo quasi respinti, col tempo non possiamo fare a meno di stabilire un legame, un’intimità con chi sta piangendo. Con Il libro delle lacrime succede lo stesso: all’inizio quasi infastidisce, come il volto deformato dal pianto ha un che di ridicolo e perturbante (ma davvero questa non fa che piangere?), ma poi si rivela come una lettura intensa, emozionante, davvero trasformativa.

C’è questo affresco meraviglioso di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova, Ritiro di Gioacchino tra i pastori. Mostra Gioacchino che si esilia tra i pastori dopo che la sua offerta, secondo la legge mosaica, è stata rifiutata al tempio perché lui e la moglie Anna non avevano figli. Gioacchino è affranto, mesto e raccolto, guarda a terra, chiuso nel suo dolore sterile, probabilmente piange. È l’umanità sofferente in attesa di riscatto (quando, secondo i Vangeli apocrifi, gli apparirà un angelo annunciandogli che avrà una figlia, Maria). Ma ecco il genio di Giotto: uno dei due pastori si rivolge allo spettatore, rompe la quarta parete, stabilisce un collegamento diretto con noi che l’osserviamo. «Lo sguardo del pastore trasmette una strana tensione: mentre ci accoglie nella sofferenza di Gioacchino innalza al contempo una barriera che la preserva come un’emozione provata. Il dolore di Gioacchino è, e rimane, al di là di noi», scrive Anne Carson. Il pastore che ci guarda sembra interrogarci sul dolore di Gioacchino, ci rivela che anche noi, come lui, quel dolore non possiamo davvero conoscerlo ma, nello stesso tempo, non possiamo ignorarlo: anzi, ci lega, ci accomuna e avvicina nella distanza. Questo sguardo paradossale che attraversa i secoli e le lacrime è l’imperduto, il “quasi nulla” della poesia che trasforma il negativo dell’assenza in qualcosa di positivo.

Chissà, forse quel “quasi nulla” pesantissimo che fingiamo di non sentire ma che ci frantuma, quel resto che non riusciamo a scambiare e dimenticare, lo scioglieremo un giorno, insieme, nel pianto.

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