Dopo aver passato una vita a inseguire le notizie in giro per il mondo, successe un giorno che le notizie mi vennero a trovare dentro casa. Era due anni fa e la pandemia che colpiva ovunque si era accanita contro il mio paese natale, Nembro, 11.500 abitanti, inizio della Valle Seriana, a dieci chilometri da Bergamo. A mia memoria non era avvenuto mai nulla di particolare che fosse degno dell’attenzione globale. Ed era un privilegio: c’è un detto per il quale i bergamaschi, nella loro proverbiale ritrosia, aspirano a finire due volte sul giornale, quando si nasce e quando si muore. Significa aver trascorso un’esistenza serena e tranquilla, lontano dai riflettori.

All’improvviso si accesero tra le vie e le piazze dell’antico borgo medievale mille telecamere per illuminare l’epicentro della catastrofe. Ma quelli che per i colleghi erano nomi, storie, cifre (come era del resto stato per me quando ero altrove) investivano il mio vissuto, erano affetti, amicizie, amori, memoria. Stavolta ero dentro la notizia, dall’altra parte della barricata.

Faticai un poco, all’inizio, a indossare i panni consueti del giornalista, preso come ero da altre incombenze, blindare la José, la mia anziana madre, perché non fosse contagiata, monitorare l'andamento della malattia in mia sorella, mia nipote, mio cognato, verificare lo stato di salute degli amici stretti.

Vite che non ci sono più

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Ogni giorno portava la sua croce, lentamente scompariva la generazione che aveva ricostruito il paese nel dopoguerra, venivano meno fonti di sapere, mutava il panorama umano. In rapida successione erano mancati Giulio Bonomi, l’intellettuale che incarnava l’impegno politico, Tullio Carrara, il bibliotecario, Sandro Barcella, factotum del cine-teatro, Cristina Marcassoli, l’impiegata dell’anagrafe, Mauro Lazzaroni, presidente del motoclub che fu campione del mondo, Giuseppe Pezzotta, presidente del ricovero, Ilario Lazzaroni, presidente degli artiglieri, Ivana Valoti, l’ostetrica, Silvio Adobati, il gestore del dancing, monsignor Achille Belotti, Elio Beretta, il commerciante, Francesco Giovanelli, lo storico vigile urbano...

Maturai la convinzione che, mio malgrado, potevo dare un contributo raccontando non la loro morte ma cosa erano stati in vita, cosa avevano rappresentato, quale era l’eredità che lasciavano. Proposi al mio giornale, L’Espresso, un articolo che era una sorta di spoon river. Non appena fu pubblicato mi telefonò Beppe Cottafavi, il responsabile delle pagine culturali di questo quotidiano, per propormi di scrivere un libro. Ne discutemmo.

Ero orientato verso il sì ma a un patto: avevo bisogno di tempo per capire quale libro. Non nego che dentro di me ci fosse una sorta di pudore, temevo che potesse essere inteso come uno sfruttamento della tragedia, un uso improprio.

Per questo ne parlai a lungo, con tanti compaesani, e tutti mi incitavano a intraprendere l’opera con l’argomentazione che mi sembrò decisiva: quando tutto fosse passato c’era bisogno di lasciare traccia per le generazioni future di quanto era successo. Mi lusingavano con una domanda retorica: tra noi nembresi se non lo fai tu chi lo può fare? Retorica ma, senza falsa modestia, in qualche modo vera.

Un paese paradigma del Covid

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Mi sono allora posto un’asticella alta e toccherà ai lettori giudicare se l’ho valicata: fare di Nembro il paese paradigmatico del Covid-19 perché ne condensa purtroppo tutte le caratteristiche. Quasi il 70 per cento della popolazione infettata, indice di mortalità oltre il 700 per cento rispetto all’anno precedente, 188 vittime in due mesi quando erano state 126 per la Prima guerra mondiale e 98 per la Seconda.

Ragionai su chi ne dovevano essere i protagonisti. Un medico come Clara Bettini, la giovane da poco laureata che si trovò catapultata in prima linea perché tutti i medici di base si erano ammalati? Una ricercatrice dell’istituto Mario Negri come la mia amica d’infanzia Marina Noris che monitorava ogni giorno la curva dei contagi?

Il sindaco Claudio Cancelli che con cuore caldo e testa fredda aveva speso ogni energia per tenere unita la comunità? Il prete-rock dell’oratorio don Matteo Cella che si era prodigato perché lo scoramento non deprimesse i suoi ragazzi e aveva ricevuto un encomio anche da papa Francesco?

Optai infine per una soluzione diversa. Scelsi di essere  l’io narrante, il ponte di collegamento di un racconto corale. Avevo tenuto un diario fin dal 23 febbraio 2020, il giorno in cui si registrarono i primi due casi di infezione, che si rivelò prezioso. Avevo tra l’altro archiviato le due fotografie che mi aveva inviato mio cognato Flavio e che ancora rappresentano per me l’origine dell’allarme e dunque l’incipit del libro.

Nella prima si vede l’Esselunga di Nembro preso d’assalto nel pomeriggio del 23 febbraio dopo la diffusione della notizia che il virus aveva ultimato il suo lungo percorso dalla Cina alla Valle Seriana. L’indomani lo stesso supermercato con gli scaffali desolatamente vuoti e sui quali era rimasto solo un pacco di pasta Barilla: l’assalto ai forni dei tempi moderni.

Ho adottato la tecnica narrativa che va sotto il nome di letteratura del vero, cioè ho scritto un romanzo usando solo elementi, dettagli e fatti realmente accaduti. L’architettura è cronologica ma si snoda su piani diversi e intersecati. C’è l'aspetto personale, le mie preoccupazioni per la salute dei familiari, i miei colloquio con loro, le paure.

Qui più che altrove

C’è lo sfondo su cosa stesse contemporaneamente succedendo in Lombardia, in Italia, nel mondo. Ci sono le decisioni dei responsabili a vario titolo della comunità per limitare la furia del nemico invisibile. Ci sono i racconti dei parenti che hanno visto morire in un batter d’occhio i loro congiunti o che non li hanno potuti nemmeno assistere dopo che sono scomparsi nei circuiti ospedalieri.

C’è l’abnegazione dei volontari, il lavoro indefesso dei becchini, la lenta ricostruzione delle anime di chi è rimasto da parte degli psicologi. Insomma tutto quanto successo anche altrove, ma qui più che altrove. C’è anche l’orgoglio nei nembresi nel momento in cui sono stati additati come monatti e la lenta risalita dal baratro quando il virus ha allentato la morsa.

Verso maggio, quando è finita l’apnea e si è cominciato a respirare sono tornato sui luoghi di lavoro delle persone uccise dal Covid per rendermi conto di cosa era restato di loro, quali oggetti avevano lasciato, quale insegnamento, e ho parlato con chi li ha sostituiti perché a Nembro non è mai comunque venuta meno l'idea della ricostruzione, del futuro.

Sono passati solo due anni, il virus è ancora tra noi seppur indebolito. La prima ondata ha lasciato ferite, nelle teste e non solo. Mia madre, la José, rimase confinata per ottanta giorni, le portavamo il cibo sull’uscio e cercavamo di alleviare la sua solitudine con lunghe telefonate.

Non si è mai ripresa da quel forzato isolamento. Non ci fu per lungo tempo la possibilità di sottoporla agli ordinari controlli medici periodici perché il coronavirus aveva paralizzato tutti i settori della sanità. Quando ci è stato concesso era troppo tardi per un male che l’aveva invasa. Forse, se l’avessimo scoperto prima... Temo possa essere annoverata tra una delle vittime collaterali della pandemia, lei come molti altri.

Ci ha lasciato il 24 gennaio. È riuscita a sfogliare in tempo, in bozza, il libro di cui è tra i protagonisti. Quando lo ha finito mi ha detto: «Non sapevo che sarei diventata così famosa». Sono state tra le sue ultime parole. Mi piace pensare di averla perpetuata almeno nel ricordo di chi lo leggerà.

Si intitola Il più crudele dei mesi – storia di 188 vite (Mondadori). È un’evidente citazione di T.S. Eliot per il quale il mese crudele è aprile. Per Nembro è marzo, 164 morti sui 188 totali. Quando sono arrivato all’ultima pagina ho considerato che è il libro che non avrei mai voluto scrivere ma è quello che ora son più contento di avere scritto.

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