Dallo scoppio della pandemia, segretamente, circola un virus psichico di cui non si cura nessuno. Mentre calcolavamo come ingegneri atterriti le distanze di sicurezza utili a non contagiarci, slabbrandole fino all’inverosimile, in quel varco di distanze slabbrate si moriva anche di un male interiore, non misurabile con saturimetri e tamponi molecolari. Parlo di solitudine. Di ogni possibile tipo di solitudine. Non solo quella di cent’anni di Marquez, ma quella che può ucciderti anche nello spazio di un solo pomeriggio, e protrarsi anche quando non ci sei più, lasciando il tuo corpo abbandonato a sé stesso per due anni interi.

È recente la notizia di Marinella Beretta, una donna di settant’anni che è deceduta da sola sulla sua poltrona preferita, a Como, mentre il suo giardino marciva e si contorceva, per poi venire ritrovata mummificata ben due anni dopo. Due anni in cui a questa pandemia è accaduto di tutto, tra varianti e restrizioni e isterie collettive, eppure nulla è stato fatto per arginare gli effetti dell’isolamento sulle persone.

Trovarsi soli

I sondaggi condotti dalla Red Cross hanno rivelato che il 41 per cento degli inglesi si sentono più soli dall’inizio della pandemia e che un terzo degli inglesi ha il timore che questa solitudine, al pari di qualunque malattia, possa peggiorare.

E ancora: il 33 per cento degli inglesi non intrattiene nemmeno una conversazione significativa alla settimana, il 31 per cento sente di non avere nessuno a cui rivolgersi in caso di difficoltà, e il 37 per cento considera i propri vicini dei completi estranei. E tra tutte queste persone sole, afflitte dalla malattia della distanza che si allarga e travolge come uno tsunami, solo il 60 per cento è convinto di poter gestire ancora la pandemia. Come stiamo aiutando quel 40 per cento che invece non ne può già più, come impediremo alle altre Marinelle di morire da sole guardando il giardino avvizzito?

Con la solitudine non si scherza: secondo la ricerca Trapped in a bubble, sempre della Red Cross, aumenterebbe i rischi di morte del 29 per cento. Questa si aggiunge a decine e decine di ricerche sugli effetti della solitudine su persone con patologie oncologiche o di altro tipo. Interessante anche quanto la solitudine incida di più sugli abitanti di zone urbane, e molto meno su chi abita in zone rurali: la natura aiuta lì dove il soccorso umano si dirada.

Il Sun ha lanciato una campagna chiamata Not alone campaign per offrire soccorso telefonico a chiunque si trovi in un momento di sconforto dovuto all’isolamento. Infatti la solitudine, anche in tempi pre-Covid, era già considerata la prima causa di morte tra le persone sotto i 35 anni, più letale del cancro e degli incidenti automobilistici.

Marinella Beretta è probabilmente deceduta di morte naturale, ma c’è ben poco di naturale in una solitudine che si allungava come i suoi alberi morti inghiottendo ogni contatto umano. Sono stati proprio quegli alberi, smottati dal vento, ad attirare l’attenzione dei vicini, che allarmati hanno contattato il padrone di casa – a cui la signora Beretta aveva venduto l’immobile mantenendo l’usufrutto – e hanno così scoperto, dopo aver tentato di contattarla telefonicamente, la sua salma immobile sulla sua poltrona preferita.

Marinella era in pensione e non aveva parenti. Aveva solo la sua casa, ma in usufrutto: una scatola come un sarcofago in cui consumare la vita solo tra i pensieri, gli oggetti, i ricordi del passato.

Attenzione ai giovani

Alcune categorie, naturalmente, sono state più colpite dall’isolamento: i rifugiati e le persone richiedenti asilo hanno perso il supporto sociale. E sono i più giovani a essere più colpiti. Questo forse per la fisiologia del tempo interiore degli anziani: un tempo proteso all’indietro, sul passato, sul conforto dei ricordi, mentre quello dei più giovani affaccia sul futuro, su una vita che adesso appare così pericolante e incerta.

«Se si vuole capire quanto sia duro per i giovani, bisogna pensare che il loro metabolismo vitale è più acceso e veloce e che due anni di congelamento relazionale li ha costretti a uno stato simile ai bonsai che vengono legati per contenere e miniaturizzare la loro spinta evolutiva. Così nell’adolescenza sono aumentati i tentativi di suicidio, e l’età di apparizione di sintomi di disagio psichico e di attività autolesionistiche come il self cutting si è drammaticamente abbassata», mi dice Alessandro Bruni, psicoanalista.

«Qualunque situazione di deprivazione produce un’amplificazione ipertrofica del mondo interiore che può generare in casi estremi proiezioni di fantasmi e stati di allucinosi. Quello che abbiamo visto durante la pandemia, noi psicoanalisti, è stato un impressionante aggravamento di tutte le forme di sofferenza rispetto al recente passato».

Più consapevolezza

Ma allora cosa si potrebbe fare per arginare questo fenomeno disastroso e così poco oggetto di tutela da parte dello stato?

«Intanto dovremo fare i conti con gli effetti di questo tempo di esilio della presenza. Emerge l’idea che non sarà più come prima. Sta a noi make the best with a bad job, un’espressione utilizzata da Wilfred Bion per descrivere il compito essenziale di uno psicoanalista».   

Penso a Marianne Moore, che scrisse «la cura della solitudine è la solitudine», frase lapidaria che in italiano perde una sfumatura preziosa relativa alla differenza tra solitudine scelta e solitudine percepita, ma che proprio con questa perdita di sfumatura restituisce la necessità di vivere l’isolamento con consapevolezza.

È davvero possibile farlo, o questa nuova realtà pulviscolare fatta di spazi vuoti e di volti mascherati, di una virtualità sempre più divorante, ci ha privato di qualcosa per sempre?

«Il web ha assorbito molto più di prima questo surplus di arousal emotivo e inconscio», risponde Bruni, «ma questo ha aumentato ancor di più la forclusione del corpo e la seduzione a costruire avatar virtuali, per poi ritrovarseli addosso avendoli re-introiettati come capsule di identità fittizie, disfunzionali e alienanti». 

Eppure la distanza, oggi sposata dalla virtualità, è un concetto antichissimo. Nella filosofia nipponica si chiama Ma. È la distanza tra le cose e tra le persone. È sia lo spazio vuoto tra gli elementi architettonici di una tradizionale casa giapponese che quello che si apre tra una frase e l’altra di un discorso. È la necessità di un vuoto psicofisico tra due persone, una necessità che in Giappone è alla base delle relazioni sociali e della stessa lingua. Ma come possiamo fare a tenere sotto controllo questa distanza, senza che ci sfugga il suo proliferare incontrollabile, mantenendola entro confini salutari?

Un bel romanzo di qualche anno fa, Distanza di sicurezza di Samanta Schweblin, esordisce definendo «distanza di sicurezza» una sorta di filo immaginario che lega una madre e una figlia. Se quel filo si tende troppo, la madre soffre e deve accorciarlo, avvicinarsi, per il timore che alla figlia accada qualcosa.

Si tratta del rovescio affettivo della distanza pandemica: non la voragine scavata dal sospetto del contagio ma la distanza minima che – soppesando libertà e apprensione – permette a due persone insieme di amarsi e di essere indipendenti. È questa l’unica distanza umana a cui dobbiamo attenerci, che dobbiamo tutelare, senza sforare nemmeno di un centimetro: non quella della paura ma quella della consapevolezza dell’altro, dell’osservazione dell’altro alla metratura giusta e del gesto di accorciare il filo nel momento esatto in cui avrà bisogno di noi.

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