Non è mai facile parlare di Cristina Campo. Espunta dal canone letterario, praticamente sconosciuta ai più, viene venerata da decenni da un manipolo di fedeli, una congregazione dispersa che mantiene accesa la fiammella di un culto che non accenna a spegnersi.

Un piccolo e combattivo cenobio di lettori e lettrici come quelli immaginati da Gottfried Benn, a cui consigliava di «tener duro, sedere contro la parete, leggere Giobbe e Geremia».

C’è anche un’altra ragione, credo più personale. Chi conosce Cristina Campo tiene a custodire questo incontro come un prezioso segreto. La scoperta della prosa campiana è un battesimo del fuoco, una piccola epifania. Si apre una porta verso un tipo di scrittura, di sguardo sul testo che, davvero, ha pochissimi eguali nella letteratura italiana nel Novecento.

Aristocratica, idiosincratica, polarizzante, non lascia indifferenti. Il suo nome si impiastriccia sulla bocca, le sue frasi – ogni lettore ha le sue – vengono costantemente ruminate, continuamente rigirate come una caramella fra denti e lingua. I suoi testi rimangono a distanza di tempo oggetti inclassificabili: prose poetiche, “cose scritte” che intrecciano erudizione e veggenza. Saggi, se vogliamo, «ma l’atroce parola saggistica non si avvicini con il suo laccio accalappiacani».

Cristina Campo è stata meno scrittrice che levatrice, vestale del testo altrui. «Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto meno», diceva di sé, pensando di dover conto di ogni parola.

Ha tradotto, introdotto, spiegato, prefato: ha lavorato alacremente attorno ai libri, idee e tradizioni che voleva portare alla luce. Fu, non a caso, fra le principali artefici dell’introduzione di Simone Weil in Italia.

Senza perdere la solitudine, frequentò nel suo modo particolarissimo molti scrittori e salotti letterari – fra gli altri, con Elémire Zolla, suo compagno per venti anni, si intrecciò a quel nucleo di persone che poi diventerà fondamentale per la nascita della casa editrice Adelphi.

Varie vite

Attraversò varie vite, come spesso accade in base anche alla geografia dei posti dove visse: Bologna fu l’infanzia, nel grande parco dell’ospedale Rizzoli dove lavorava lo zio Vittorio Putti, ortopedico di fama internazionale. Firenze fu la prima giovinezza, dove conobbe Anna, amica del cuore persa tragicamente nel ‘45, a causa di un bombardamento americano. Una ferita tremenda che non si rimarginò più. Roma fu l’età adulta, dove fatalmente conobbe le tradizioni liturgiche orientali e iniziò la sua finale guerra contro il Concilio Vaticano II e la modernità.

La perfezione fu l’unico tema e l’unica ossessione, tanto nella vita quanto nella sua opera: «Meticolosa, speciosa, inflessibile come tutti i veri visionari la poetessa Marianne Moore scrive un saggio sui coltelli. […] Uno solo, comunque, è l’affar suo, la sua lode e il suo salmo: l’ardua e meravigliosa perfezione, questa divina ingiuria da venerare nella natura, da toccare nell’arte, da inventare gloriosamente nel quotidiano contegno».

La perfezione deve per Campo possedere un’innata leggerezza, una naturalezza (magari acquisita e soffertissima, ma sempre tale: facilement, facilement, diceva Chopin) che lei definisce “sprezzatura”: «Sprezzatura è un ritmo morale, è la musica di una grazia interiore; è il tempo, vorrei dire, nel quale si manifesta la compiuta libertà di un destino, inflessibilmente misurata, tuttavia, su un’ascesi coperta. Due versi la racchiudono, come un’astuccio l’anello: ‘Con lieve cuore, con lievi mani, la vita prendere, la vita lasciare’».

Il suo “occhio-ape” «vaga dalla fiaba al gregoriano, dal proverbio popolare al rito bizantino, da Proust a Borges, da Shaharazad alla mazurka, e sempre ne stacca qualche cosa di vertiginoso e di essenziale». Agli antipodi di ogni aridità accademica, Campo coglie il nettare in ogni aspetto del reale, lo lavora dentro di sé, ne secerne una stilla di bellezza.

Vittoria Guerrini

Cristina Campo nasce Vittoria Guerrini, il 29 aprile 1923. Malata di cuore sin dalla nascita, è impossibilitata ad andare a scuola e viene quindi educata da «insegnanti geniali». Inizia a leggere prestissimo: le fiabe – «questi evangeli che così leggermente ci dicono moralità» sono il primo contatto, la prima membrana con il mondo. Affronta bambina Shakespeare, Omero, le Mille e una notte, la Bibbia. Chiede al padre di lasciarle leggere qualche libro della sua enorme biblioteca: «Di tutto questo, non puoi leggere nulla» dice. «Questi sì, sono i russi. Troverai molto da soffrire, ma niente che possa farti molto male». Vittoria diligentemente ubbidisce: legge, impara, soffre.

Da giovane autrice e traduttrice, detesta usare il proprio nome, sperimenta diversi eteronimi – Bernardo Trevisano, Giusto Cabianca – fino ad approdare al suo preferito, quello definitivo: Cristina Campo.

Come scrittrice, si adopera per rendere ogni parola incandescente, di far vibrare la pagina, anche in testi considerati minori come introduzioni e prefazioni. Valga come gioiello («preziosa piccolezza, delicatezza non soggetta alla fragilità, facilità somma di trasporto, limpidezza che non esclude l’impenetrabilità, fiore per gli anni», secondo Borges) l’incipit dell’introduzione a Detti e fatti dei padri del deserto (Rusconi, 1975): «I maestri cristiani del deserto fiorirono, esplosero in un attimo che durò tre secoli, dal III al VI dopo Cristo. Da poco Costantino aveva restituito ai cristiani il diritto di esistere, spezzando il dogma di Commodo – Christianoùs me èinai, i cristiani non siano – e sottratto con dolcezza la giovane religione al terreno meravigliosamente umido del martirio, alla stagionatura incomparabile delle catacombe. Questo significava, evidentemente, consegnarla a quel mortale pericolo che rimase tale per diciotto secoli: l’accordo con il mondo».

Nella sua passione – in senso evangelico – per la perfezione, Campo passa dalla fiaba alla poesia, per approdare a quella che per lei era forma suprema (quindi, sostanza suprema), cioè la liturgia del rito cristiano. Nella liturgia il tempo dell’uomo è scandito dai salmi, cioè poesie in forma di preghiera (o il contrario, che è lo stesso). Verso questa parola tre volte densa – poetica, musicale, teologica – Cristina Campo travaglia tutta la vita. Le sue prose sono forme di letteratura assoluta, presuppongono un lettore perfetto, che intenda tutti i riferimenti. Per Campo, come per Dostoevskij, la bellezza è sorella della Grazia: un modo di salvarsi, di essere giustificati. Crede fermamente nell’esistenza terrena del sacro, dell’immanenza del divino: «Due mondi – e io vengo dall’altro».

Certo, ogni tanto viene il dubbio di dipingerla in maniera troppo seriosa, una sorte toccata anche a Kafka. Quando qualche anno fa è emersa dagli archivi della radio svizzera un’intervista alla Campo – l’unico audio che conosciamo – stupisce quasi sentirla ridere, con un’ironia quasi civettuola.

Contro il Vaticano II

L’impegno degli ultimi anni è tutto dedicato alla lotta contro il Concilio Vaticano II, alla sua modifica radicale della liturgia, dal latino all’italiano. Per Vittoria, battezzatasi Cristina, il tradimento è inconcepibile.

Lavora con petizioni, riviste e articoli, si lega al tradizionalista monsignor Lefevbre, vescovo che andrà apertamente contro la chiesa e sarà anche sospeso a divinis. Alfredo Cattabiani, direttore editoriale di Rusconi, ricorda: «Aveva fondato Una Voce, aveva attaccato il pontefice. Era un’estremista. Direi quasi che fu Lefebvre a essere un discepolo di Cristina».

Antimoderna, antidemocratica, antifemminista («mulier taceat in ecclesia, e anche altrove si esprima il più indirettamente possibile»), Campo è un’intellettuale scomoda nell’Italia del Dopoguerra. In direzione ostinata e contraria, coltivò ricambiata un’antipatia verso un mondo letterario: «Non mi interessa la gente che non capisce subito».

Muore il 10 gennaio 1977, a soli 53 anni, per una crisi cardiaca «appena più forte delle precedenti». Rimane il solco di una meteora, la coda lucente di una cometa che ha solcato i cieli della letteratura: Cristina Campo, «l’esile, la morente». L’imperdonabile.

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