Quelle che ci ostiniamo a chiamare democrazie sono in realtà regimi governati da una duplice logica; da una parte quella effettivamente democratica, garantita dal suffragio elettorale, e dall’altra il principio della competenza tecnica, incarnato dal dominio crescente delle amministrazioni pubbliche. A simili arcana imperii è dedicato L’ingranaggio del potere del politologo Lorenzo Castellani, un libro che sarebbe utile a tutti leggere per fare piazza pulita da illusioni e malintesi sulla realtà del sistema nel quale viviamo.

L’autore considera che dalla contraddizione inconfessabile tra democrazia e competenza sorgano gran parte dei problemi della contemporaneità. Faremmo dunque meglio a parlare di “tecno-democrazia” e arrenderci alla possibilità che questa forma di governo ibrida porti alla manifestazione ricorrente di crisi e conflitti tra le sue due anime.

Se in altri tempi questo libro avrebbe potuto risuonare con il pensiero di sinistra – quella antitotalitaria di George Orwell e Dwight Macdonald, Cornelius Castoriadis e Guy Debord – oggi si trova paradossalmente a rispondere a preoccupazioni più spesso formulate a destra: il peso crescente della decisione tecnocratica, la sovranità limitata, per non parlare del famigerato stato profondo che popola le teorie cospirazioniste (e che però indubbiamente esiste). Di questo c’è una ragione sociologica evidente, ed è che l’appartenenza alla classe competente dipende dall’accumulazione di un capitale culturale che per ragioni storiche coincide con un’ideologia progressista.

Un equilibrio precario

La riflessione di Castellani si aggira dalle parti di due grandi pensatori tedeschi di un secolo fa: Max Weber e Carl Schmitt. Da Weber prende la rigida distinzione tra il lavoro scientifico del tecnico, idealmente avalutativo, e la vocazione del responsabile politico, in grado di elaborare degli scopi utili per coordinare la collettività. E di Schmitt attualizza le intuizioni, diciamo pure profetiche, formulate contro l’amministrazione pubblica intesa come grande macchina impersonale.

Ma aggiungiamo anche che le cose non sempre finiscono bene quando questa contraddizione si manifesta, perché alcuni – all’epoca erano i nazionalsocialisti – potrebbero essere tentati di muovere il principio democratico contro la fredda competenza e così dissolvere un equilibrio vitale. Nel nostro piccolo lo abbiamo visto ai tempi dell’uno vale uno e lo vediamo oggi nella diffidenza dei sovranisti nei confronti dei “competenti”: micro-esperimenti di democrazia plebiscitaria animati dal risentimento.

Lo stesso Castellani subisce questa tentazione, pur rivendicando lui per primo l’importanza dell’equilibrio tra democrazia e competenza. Subisce questa tentazione quando pur di restaurare quell’equilibrio perduto evoca la necessità di ancorare la politica a dei valori, pena il decadimento nel nichilismo. Tuttavia, il trionfo della ragione tecnocratica all’alba del ventunesimo secolo è una conseguenza inevitabile dell’eclissi di quei valori o, per meglio dire, dell’incapacità per una società multiculturale di dotarsi di valori condivisi. A meno, certo, di non ripiegare su quelli del gruppo dominante spacciandoli per volontà generale. Perché l’idea che esista un corpo politico unitario, dotato di volontà, è anch’essa un’illusione; così la democrazia rischia in ogni momento di diventare nient’altro che una dittatura della maggioranza.

Soltanto il principio di competenza frena la tentazione plebiscitaria. In questo senso la politica in senso alto evocata nell’Ingranaggio del potere è un’entità anacronistica. Il diritto scaturisce sempre dal conflitto, ricorda Castellani citando Natalino Irti, ma la nostra epoca può davvero permettersi questo conflitto? Non a caso il principio di competenza sorgeva assieme alle esigenze della governance imperiale, con lo jus ai tempi di Roma. E non a caso la nascita dello stato moderno, con le sue articolate burocrazie, coincide con la necessità di governare gli effetti di quella primitiva forma di multiculturalismo costituita dalla riforma protestante, attraverso la novità di una “sovranità absoluta” ovvero precisamente neutrale. Tecnocratica ante litteram.

I problemi della ragione tecnocratica

Se la neutralizzazione e la spoliticizzazione delle istituzioni di governo sono conseguenze inevitabili in una società multiculturale che non voglia ripiegare verso il sovranismo violento, restano gli innumerevoli problemi concreti posti dal trionfo della ragione tecnocratica. Castellani ne elenca alcuni, tra i quali la perdita di controllo sulle finalità della ragione strumentale affidata a se stessa, la costituzione di un’aristocrazia meritocratica dispotica e pretenziosa, nonché la difficoltà di legittimare un sistema fondato su una promessa di uguaglianza impossibile da mantenere.

Il politologo, citando Schmitt, evoca la tendenza delle fasi di neutralizzazione a risolversi in crisi ricorrenti, come se la “domanda di politica” emergesse con tanta più violenza là dove si cerca di liquidarla. In fondo sta qui il vero limite dell’ingranaggio del potere, ovvero la possibilità che esso si inceppi e l’intera macchina cessi di funzionare. Sacrificare la democrazia significa doversi arrangiare senza il potente mito che da oltre due secoli stava a fondamento del dispositivo di legittimazione dell’ordine politico. Inoltre, affidarsi alla competenza significa legarsi mani e piedi a un sistema incapace di prendere la misura dei propri limiti, consegnandosi così al dispotismo della ragione. Ma abbiamo un’alternativa?

Modelli (o miti) possibili

Castellani, da politologo realista, sembra auspicarsi un riequilibrio, consapevole del fatto che la storia proceda per urti successivi. Eppure la complessità alla quale è confrontata la politica – oltre al politeismo dei valori citiamo le questioni di sicurezza, le necessità di pianificazione economica e l'elevato grado di dipendenza nel commercio internazionale – oggi non lascia margini per nessun ritorno in grande stile della politica, bensì soltanto per un ulteriore dispiegamento del dominio tecnocratico. Il modello cinese, mostrandosi come il più efficiente, rischia di prevalere de facto.

Se così è, allora dobbiamo soprattutto impedire che la tecno-democrazia evolva in una forma autoritaria. Più che una neutralità assoluta – nella migliore delle ipotesi impossibile, nella peggiore un incubo – quello a cui dovrebbero ambire le nostre istituzioni è una neutralità relativa ai temi etici divisivi per concentrarsi sull’unico valore davvero condiviso, la convivenza pacifica, lasciando che ai fini ultimi dell’esistenza non pensino le tecnostrutture statali ma invece le comunità, i soggetti, i corpi intermedi.

In ciò il modello proposto da Castellani nella conclusione del libro è particolarmente seducente: una società costituita secondo il principio di sussidiarietà come sovrapposizione di ordinamenti, a immagine della comunità di Adriano Olivetti. In effetti, più che opporre democrazia e tecnocrazia, dovremmo semmai chiederci se non c’è troppa “crazia” nei nostri sistemi, troppo potere calato dall’alto, e se non sia meglio riscoprire alcune virtù dell’anarchia o perlomeno dell’autonomia (nel senso dato da Castoriadis), o magari persino dell’incertezza.

Eppure proprio perché questo ordine funzioni in maniera armoniosa, avremo sempre bisogno dei competenti. La neutralità è impossibile, ma forse può ancora rendersi utile come mito politico, proprio come ai tempi delle guerre di religione europee, quando nasceva lo stato moderno. Che aveva il vantaggio di tenere tutti i suoi meccanismi e ruote dentate nascosti all’interno, non esibiti in pubblico e oggetto di continuo dibattito come ai nostri tempi. Allora, forse, svelare la verità dell’ingranaggio del potere, come fa Castellani, non era una così buona idea. Altro che farlo leggere a tutti; è meglio che questo libro non lo legga nessuno.


Lorenzo Castellani è autore del libro L’ingranaggio del potere, edito da Liberilibri

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