La cucina romana è figlia delle molte contaminazioni derivanti dall’espansione dell’area di influenza, ma anche di un preciso sistema agricolo che determina una gerarchia tra i diversi prodotti della terra e dell’allevamento.

L’aspetto alimentare sul quale i romani erano davvero intransigenti, però, era la cottura, in particolare quella della carne. Infatti, se erano disposti a concedere una certa indulgenza verso quei popoli che mangiavano cose diverse da loro, nei confronti di chi mangiava carne cruda non mostravano alcuna pietà; dal loro punto di vista non erano nemmeno degni di essere considerati umani.

Homo coquinarius

Anzi, quando volevano screditare un popolo, usavano proprio questo argomento, da qui probabilmente deriva l’antica leggenda secondo la quale gli Unni erano soliti nutrirsi di carne cruda, che veniva frollata tenendola per qualche giorno tra la sella e la groppa del cavallo, come ci dice Ammiano Marcellino: «Sono così rozzi nel tenor di vita da non aver bisogno né di fuoco né di cibi conditi, ma si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po’ di tempo fra le loro cosce ed il dorso dei cavalli». In realtà, noi sappiamo che gli Unni cuocevano sia la carne sia la verdura, quindi questa descrizione dello storico romano va considerata a tutti gli effetti una fake news.

Questa idea di classificare il livello di sviluppo delle civiltà umane non solo sulla base di ciò che mangiano, ma anche di come lo mangiano, è tutt’altro che peregrina. In fondo, secondo molti antropologi, non è l’uomo che ha domesticato il fuoco, ma il fuoco che ha creato l’uomo. Tanto è vero che il gastronomo francese Alexandre Stern è arrivato a inventarsi un nuovo stadio evolutivo per l’uomo: dopo essere stati homo habilis, homo erectus e homo sapiens, noi oggi saremmo l’homo coquinarius. L’idea di trasformare i cibi attraverso la cottura, ma anche attraverso il freddo, ha molto a che fare con l’evoluzione umana, ma anche con le paure alimentari; quindi, prima di addentrarci nel tema affascinante delle gerarchie sociali ed economiche delle diverse cotture, vale la pena cercare di capire quando e perché l’uomo ha iniziato a cuocere i cibi.

Partiamo da una constatazione banale, se volete, ma di fondamentale importanza: tra la domesticazione del fuoco e la cottura dei cibi c’è una bella differenza e probabilmente tra i due eventi sono passati anche diversi millenni. Addirittura, c’è chi ipotizza che in mezzo siano passati oltre 500mila anni. Inizialmente il fuoco è stato utilizzato per scaldarsi e per protezione, incrementando in questo modo la capacità di sopravvivenza degli uomini anche in ambienti ostili e abitati da predatori.

Ma quando quei nostri antenati hanno cominciato a cuocere il cibo sono avvenute trasformazioni fondamentali nel loro aspetto e nel loro cervello; è cambiata la dentatura e quindi è cambiato il viso, ma soprattutto è cresciuta in maniera considerevole la dimensione del cervello. A dirla facile facile, le energie risparmiate nella masticazione e nella digestione, vennero investite nelle funzioni cerebrali, infatti, mentre il cervello cresceva, si rimpicciolivano l’apparato digerente e la bocca.

Alle origini

Gli effetti dell’invenzione della cottura sono chiari, ma le cause? Si, insomma, perché ad un certo punto quei nostri simpatici trisavoli si sono messi a cuocere i cibi e in pratica non hanno più smesso? Qui non possiamo cavarcela dicendo che i cibi cotti sono più buoni. A parte che i crudisti di oggi non sarebbero per nulla d’accordo, è evidente che questa rischia di essere una spiegazione troppo semplice, perché non è assolutamente assodato che i cibi cotti siano più buoni di quelli crudi.

Sicuramente lo sono per noi oggi (sempre esclusi i crudisti), ma, come tutti sappiamo, i gusti possono cambiare nel giro di poco tempo, figuriamoci tra un’era geologica e l’altra. Quindi la scelta di cuocere il cibo prima di consumarlo potrebbe non essere legata a questioni di gusto. Anzi, ci sarebbero stati più motivi per continuare a consumare cibi crudi piuttosto che cibi cotti; in generale, l’abituale gode sempre della preferenza rispetto allo sconosciuto.

È più probabile che la cottura dei cibi sia legata a fattori di tipo sociale e, in seconda battuta, di sicurezza alimentare. Il fuoco come elemento distintivo dei gruppi umani che lo avevano domesticato portò sempre più spesso a riunirvisi intorno e a svolgere sempre più attività nelle sue vicinanze. Tra queste attività, ovviamente, ci fu ben presto anche quella di consumare i pasti. La cottura, quindi, si configura come un elemento culturale prima che gustativo; del resto, la convivialità e la funzione sociale della mensa distinguono il comportamento alimentare dell’uomo rispetto a quello di tutti gli altri animali.

A tutto ciò si aggiunse anche l’esigenza di rendere commestibili cibi che crudi non lo sono o di rendere più facilmente consumabili alimenti di difficile masticazione. Cuocere, condire, marinare, macinare, affettare, insomma, in una parola cucinare, sono tutte attività che permisero all’uomo di allargare notevolmente il ventaglio di prodotti edibili e quindi di aumentare la propria sicurezza alimentare, perché la possibilità di utilizzare cibi sostitutivi è da sempre una delle strategie migliori per affrontare momentanei periodi di scarsità. La cottura, quindi, è una sorta di assicurazione sulla vita, quantomeno quella della specie, se non del singolo individuo. Il gusto e il disgusto sono prima di tutto strutture sociali.

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