È da decenni che storici e critici dell’arte si interrogano su quale arte possa essere denominata moderna e quale contemporanea. L’ultimo in ordine di tempo a occuparsene è Luca Beatrice, il quale nel primo capitolo del libro Da che arte stai? (Rizzoli) evidenzia che, se da un lato l’idea più diffusa è che l’arte contemporanea inizi nella seconda metà degli anni Quaranta, con l’espressionismo astratto, dall’altro i cataloghi delle case d’asta la fanno risalire agli anni Sessanta. Questo perché gli anni Sessanta influenzano ancora l’arte dei nostri giorni anche in aree geografiche non centrali, come il Sud America o l’Est Europeo, pertanto con la pop art si può parlare per la prima volta di “arte globale”.

Un concetto in evoluzione

La questione non è tuttavia solo temporale, ma anche disciplinare. Difatti se per la storia la modernità continua a essere collocata con la scoperta dell’America nel 1492, per l’arte, se un tempo era così, è da tanto che non lo è più.

Nel suo recente libro Il capolavoro invisibile (Carocci) lo storico dell’arte tedesco Hans Belting parte anch’egli dalla diatriba tra antichi e moderni nell’arte, dove per moderno si intendeva Rinascimento e Umanesimo, cosa che i non specialisti considerano arte antica. Come ci ricordano tanto Beatrice quanto Belting l’idea di modernità e contemporaneità è in continuo movimento, venendo aggiornata di volta in volta a seconda dei corsi e ricorsi storici. L’arte moderna è oggi largamente considerata quella che inizia con l’impressionismo, movimento che per primo ruppe con le forme classiche del passato, giacché il neoclassicismo di qualche decennio prima pareva ricalcare troppo le forme del passato tra Grecia, Roma e Rinascimento.

Ci sono stati degli aggiornamenti recenti che hanno fatto sì che il neoclassicismo venisse considerato come la prima manifestazione della modernità. Questo grazie al fatto che una serie di artisti concettuali, in primis Giulio Paolini, hanno iniziato a utilizzare nelle loro opere calchi del passato, elementi neoclassici, citazioni. Questo ha fatto sì che l’elemento della citazione tipica del neoclassicismo, negletto da molta modernità e avanguardia, sia stato rivalutato dalla linea analitica concettuale dell’arte. Tutto questo ci insegna che la storia la si legge attraverso gli occhi del presente e così anche la storia dell’arte.

Ma l’arte e la storia dell’arte sono due cose differenti. La prima è legata alla nascita dell’umanità, la seconda alla pubblicazione nel 1550 di Le vite dei più eccellenti Pittori, Scultori e Architettori di Giorgio Vasari. Anche se Vasari è un artista, come storico dell’arte già allora metteva l’arte in prospettiva, mentre gli artisti sono più interessati a mettere l’arte fuori dalla storia e dalle sue periodizzazioni. Gino De Dominicis, per esempio, diceva che «Tutta l’arte è contemporanea». D’altro canto prima ancora in questa prospettiva astorica si era posto Giorgio de Chirico, affermando: «Io non sono originale, ma originario».

Mettere in prospettiva è quello che la storiografia artistica fa sin dalla nascita e continua a fare, periodizzando moderno e contemporaneo. In questo senso è utile leggere anche quanto ha da dire la storica dell’arte britannica Claire Bisoph, che nel suo Museologia radicale (Johan & Levi) riassume le prospettive globali del dibattito. Dalla prospettiva occidentale fino al 2000 veniva considerato contemporaneo il periodo compreso dal 1946, mentre dopo il 2000 si è fatto partire il contemporaneo dal 1960, dal boom economico e dalla società dello spettacolo.

Negli ultimi anni, invece, si tende a collocare il contemporaneo a partire dal 1989, dal crollo del muro di Berlino e dalla globalizzazione dei mercati. Se spostiamo il punto di vista da occidente a oriente o al sud del mondo vediamo che per la Cina il contemporaneo viene fatto partire dal 1976, cioè dalla fine della rivoluzione culturale e morte di Mao; mentre l’India dagli anni Novanta. Alcuni paesi africani con la fine del colonialismo a cavallo anni Cinquanta e Sessanta nei paesi anglofoni e francofoni, mentre dagli anni Settanta per i paesi ex colonie portoghesi, e con la fine dell’apartheid, 1994, per il Sudafrica. Per l’America Latina non c’è ancora una netta vera divisione tra moderno e contemporaneo.

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