All’inizio era lo swing.

Nel decennio tra il 1935 e il 1945 il jazz si adeguò moltissimo all’ottimismo di un’America risanata da Roosevelt, dopo la crisi seguita al crollo di Wall Street. Era una musica pensata per far sfogare quell’entusiasmo, una musica resa più fluida, più decifrabile ritmicamente, con melodie più semplici e riff memorizzabili: una musica ballabile! Ma lo swing è stato molto di più. È stato un importantissimo passo per l’evoluzione di un genere che ha iniziato proprio in quel periodo ad aumentare l’intensità del rapporto tra elementi occidentali bianchi e ingredienti della musica nera. Fu proprio in quel periodo che, per la prima volta in una stessa band, musicisti bianchi e musicisti neri si presentarono insieme di fronte a un pubblico. Era il trio del clarinettista Benny Goodman con al piano Teddy Wilson. Il tutto supportato da un programma radiofonico che andava in onda tutti i sabato pomeriggio per tre ore e trasmetteva solo musica ballabile.

Il jazz oggi

Dallo swing e da quel cambio costante di fisionomia del jazz, arriviamo all’oggi. A come sulla lunga scia di quella metamorfosi, anche se privato della speranza del futuro che si respirava in quegli anni in America, si sviluppa un movimento globale di clubbers, appassionati di musiche da ballo e di club culture che amano danzare sulle diverse derive ritmiche della radice musicale afroamericana.

Quel paradigma nato da una delle peggiori brutalità espresse dall’essere umano durante il periodo della deportazione e della schiavitù, che ha portato gli africani di diversi paesi a subire costumi, tradizioni, linguaggi e strumenti di un mondo a loro fino a quel momento sconosciuto, che li ha utilizzati come bestie da soma – e da monta – per i propri bisogni.

Da quel dolore, mai del tutto guarito e certamente mai dimenticato, sono nate tantissime cellule ritmiche sincretiche che i neri africani in America hanno sintetizzato in alcuni generi riconosciuti, apprezzati e riprodotti in tutto il mondo. Generi musicali che si sono innestati tra loro, dando vita a una precisa mappa temporale e a un percorso ben scandito dell’evoluzione musicale occidentale.

I Cinque Quinti, azienda vinicola che ospita nel suo cortile i live e i panel di Jazz:Re:Found.

Il blues, che nella sua forma moderna nasce nelle piantagioni, ma ha origine in alcuni paesi dell’Africa Occidentale, su tutti il Mali. Il gospel, che porta il blues in chiesa, innalzandolo a ruolo di rito spirituale, aiuta i neri a entrare in contatto con la società americana usando la leva della religione e trasforma quella sofferenza in speranza attraverso la fede.

Lo stesso gospel che esce poi dalle chiese grazie ai più giovani, portati a messa dai loro genitori, e diventa il soul: il linguaggio che accompagna un primo stadio di accettazione “pop” della società americana nei confronti degli “alieni” neri.

Poi il funk, che ne esprime la supremazia in termini ritmici e in seguito, proprio da quelle cellule ritmiche (i breaks di batterie funk), nasce l’hip hop: la più grande rivoluzione musicale degli ultimi cinquanta anni che ancora oggi costituisce lo strumento con cui far conoscere il jazz alle nuove generazioni, tramite diverse ibridazioni tra i generi.

Dischi come “To Pimp A Butterfly” del famoso rapper di Los Angeles Kendrick Lamar, in cui suonano jazzisti di nuova generazione come il sassofonista Kamasi Washington oppure operazioni come “Madlib Invades Blue Note”, in cui il produttore hip hop Madlib campiona e re-mixa alcuni classici del catalogo Blue Note (la più importante etichetta jazz della storia), sono esempi abbastanza recenti di come il jazz usi ancora oggi l’hip hop e il suo metabolismo per essere trasportato in contesti distanti e diffondersi come un virus. Dalle stesse esigenze, ma con tecniche diverse, a Detroit nasce la techno.

Un macro genere

Tutti i dialetti del linguaggio musicale afroamericano, nel corso delle loro relazioni incestuose, hanno sempre flirtato con questo macro genere, che negli anni ha saputo inglobarli, masticarli, digerirli e rigurgitarli sotto forma di qualche strana sintesi rafforzativa.

Il percorso che ha portato il jazz a essere il linguaggio più longevo in termini di vitalità e tendenza, oltre che il più ricco per la varietà di classi sociali all’ascolto (da quella operaia con cui è nato, agli intellettuali che lo hanno seguito nella sua fase di razionalizzazione concettuale), è davvero lungo ma molto coerente e ha coinciso con tutte le fasi di emancipazione, lotte e conquiste dei neri in America.

Negli anni ‘60 e ’70 per esempio, passando dal bebob al free, il jazz ha sviluppato una sua corrente politica estremante consapevole, che ha rappresentato una vera e propria colonna sonora dei movimenti per i diritti civili. Ma oltre al suo aspetto sociale (imprescindibile quando si parla di musica) il jazz è stato, come dicevamo, un vero contenitore musicale all’interno del quale sono stati mescolati i diversi generi della musica nera. Il giornalista e critico musicale Arrigo Polillo, che allo studio del jazz ha dedicato la sua carriera, lo definì «un sottofondo ritmico che si è animato in mille disegni diversi».

Un movimento

Da questo processo di fusione costante nasce la comunità che ancora oggi influenza le direzioni artistiche dei festival di tutto il mondo. Un movimento che in Italia vede in Jazz:Re:Found il festival più longevo, consapevole e, di conseguenza, accreditato anche a livello internazionale. Un luogo di incontro per appassionati di jazz, hip hop, musiche elettroniche, house, techno, soul e tutte le altre forme di urbanizzazione della musica di matrice africana.

Insieme a club storici come La Palma a Roma (che ospitava, tra gli altri, i mitici dj set di Nicola Conte), I Mercati Generali di Catania e pochi altri in Italia, Jazz:Re:Found ha contribuito a far nascere la comunità di clubbers italiani appassionati di jazz.

Ma da dove è partito tutto questo? Quando il popolo del jazz (e delle musiche afroamericane tutte) ha iniziato a riempire le piste dei club (solitamente dediti all’elettronica)? Quando questa moltitudine di “isole” sparse per il mondo ha iniziato a sentirsi parte di un grande movimento, di un arcipelago? Quando i dj hanno iniziato a suonare il jazz e le sue derivazioni, facendo ballare i clubbers più appassionati?

Tutto è partito dalla nascita di un genere che ha unito i mille linguaggi di cui sopra semplificandoli e rendendoli accessibili a molti. Un genere diventato cool grazie anche a un nome perfetto in termini di marketing: l’acid jazz. È l’incontro del jazz con le derive più moderne della black music, il funk, il soul, l’hip hop, la disco e la house.

Nasce negli anni ‘80, anni in cui una delle declinazioni più popolari della house music veniva definita acid house. Proprio durante una di queste serate acid house, il dj e radiofonico Gilles Peterson, oggi divenuto il leader di tutto questo movimento mondiale, con il collega Eddie Piller, coniarono il termine “acid jazz”. Erano al club Dingwalls a Londra e Gilles inventò il termine "acid jazz" con una frase che è passata alla storia: “Finora avete ballato acid house? E adesso ascoltate acid jazz!”. La cosa funzionò talmente bene che il suo compare Eddie Piller creò un’etichetta discografica che chiamò proprio Acid Jazz Records, lanciando artisti come Brand New Heavies e lo stesso Jamiroquai.

Gilles poi lasciò la Acid Jazz Records e fondò la Talking Loud, scoprendo diversi artisti, tra cui i Galliano, fino ad arrivare a vincere un Grammy Award con il disco di Roni Size “New Forms”. Un album che effettivamente sintetizzava tutto il percorso. Il jazz, l’elettronica (sotto forma di jungle), l’hip hop e l’acid jazz, appunto, in un mix che racchiudeva trenta anni di percorso delle musiche nere urbane. Un vero capolavoro!

La Talking Loud ora non esiste più: è stata sostituita dalla nuova etichetta discografica di Gilles Peterson, la Brownswood Recordings, che ne segue le tracce, anche se con premesse diverse. Adesso il genere non si chiama più acid jazz ma ha preso la denominazione più specifica di UK jazz, cioè la declinazione inglese delle musiche afroamericane e la Brownswood ne è la principale promotrice. Afrobeat, ritmi caraibici, tradizione jazz inglese, (soprattutto quella ereditata da formazioni come i Jazz Warriors) e poi tutto il mondo musicale sviluppato in quei prolifici laboratori della cultura urbana europea che sono i club sotterranei di Londra: i basement.

Broken beat, breakbeat, drum’n’bass, dubstep, grime e tante altre micro derive. Tutti generi che le nuove generazioni di jazzisti inglesi hanno ballato di notte nei club e poi interiorizzato nel loro modo di studiare il jazz di giorno. Un processo di sintesi che ha portato questi nuovi musicisti a mettere da parte l’aspetto virtuosistico a favore di una maggiore ballabilità, utilizzando brevi frasi tenute in loop, sintetizzando l’approccio delle musiche ritmiche africane e della musica elettronica da club.

Ma lavorando anche moltissimo sull’aspetto estetico della loro musica, sul suono, il mix, i sintetizzatori e la loro agilità timbrica che permette diversi esperimenti di fusione con gli strumenti originali. Shabaka Hutchings, Moses Boyd, Joe Armon-Jones, Nubya Garcia, Kokoroko: la lista è infinita.

Seguite la playlist creata da chi scrive su Spotify per farvi un’idea della varietà di suoni e stili che popolano questo arcipelago di persone, musicisti e generi. Il tutto è supportato da diversi programmi radiofonici che rappresentano il megafono con cui si diffondono le idee di questi movimenti musicali. La BBC ha moltissime trasmissioni radio specializzate e canali interi dedicati alla musica. E non solo al jazz o al pop, ma a ogni tipo di cultura musicale rappresentata dalle mille anime che una società complessa deve contenere. Su tutti il “WorldWide radio show” di Gilles Peterson su BBC6, in onda tutti i sabato pomeriggio per 3 ore.

Ciò non accade del nostro paese, che è formato da una società ancora poco ibrida, dove non abbiamo abbastanza giamaicani, indiani o nigeriani di seconda o terza generazione che possano contribuire in maniera massiva a una contaminazione della cultura "ospitante". In Italia il processo sarà molto lento: è iniziato ma avrà bisogno di almeno altri trent’anni di tempo.

I live

Ma non esiste modo migliore di capire un movimento musicale che assistere dal vivo alle sue rappresentazioni.

La musica non potrà mai essere precisamente descrittiva: è questo il suo limite ma anche il suo fascino. Quando la musica è didascalica diventa automaticamente banale, retorica, immatura. Questo limite conferisce alla musica la capacità di essere molto più potente da un punto di vista intellettuale, di non avere limiti fisici e di conseguenza di richiedere una maggiore sensibilità emotiva, da parte di chi la fruisce.

Il processo che attiva questo meccanismo è chiamato “fluidità cognitiva”, cioè la combinazione di conoscenze e modi di pensare che provengono da diversi moduli mentali e che rende possibile l’immaginazione creativa. (oltre che l’uso della metafora).

Usate quindi la vostra immaginazione per visualizzare un luogo in mezzo ai vigneti del Monferrato dove, tra palchi, consolle, tavole rotonde, workshop e angoli dedicati al cibo, una tribù proveniente da tutta Europa si incontra per ascoltare, ballare e scoprire le più interessanti evoluzioni e fusioni dei vari generi riassunti in questo articolo in maniera davvero molto sommaria e per questo chi scrive se ne scusa.

Un festival concepito come strumento di organizzazione del pensiero. Un pensiero ancora poco comune in Italia, anche se in continua crescita, e per questo molto affascinante.

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