Di parte, ma per tutti: cinquant’anni di Radio Pop

Difficile, o impossibile, trovare un altro caso simile in Italia. Da 50 anni a Milano c’è Radio Popolare, organo di informazione indipendente ma anche di una sorta di cultura di comunità. Vive sfidando le leggi di mercato, con oltre 16mila persone che versano ogni anno un “abbonamento” di almeno 90 euro, come se fosse necessario pagare per ascoltare, come un’antica radio via cavo. Radio Popolare, una mostra per raccontare una storia libera Nel 1999 un’iniziativa di Radio Popolare portò migliaia di persone di sera al Parco Nord a formare con le torce la scritta «Milano fa male»: una protesta contro la maggioranza di centro destra che governava la città. Ma Milano e questa radio, per quanto possano litigare, si fanno del bene a vicenda, tutt’ora: in nessun’altra città italiana, in nessuna delle città che pure vissero la stagione delle radio libere e di movimento sorte negli anni Settanta, c’è oggi una realtà radiofonica così forte. L’epoca delle radio libere Cinquant’anni fa la radio veniva concepita e fondata, cominciò realmente le trasmissioni nel 1976. Il momento, e il movimento, era quello delle radio che nascevano artigianalmente occupando frequenze libere, perché una sentenza della Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittimo il monopolio della Rai. Radio Popolare invece era un progetto, sognato studiato e architettato da un giornalista Rai, Piero Scaramucci, che voleva dare una base almeno relativamente professionale e solida a quella che aveva concepito come voce di “contro-informazione”. C’era un vento di sinistra a Milano, ma fu già un capolavoro mettere insieme, nella cooperativa di Radio Popolare l’arco delle diverse anime della sinistra extraparlamentare, della sinistra sindacale, e persino della minoranza di sinistra del Psi. Anche la redazione, all’inizio era “lottizzata” perché noi giovani (allora) venivamo dall’attivismo politico, non da scuole di giornalismo. Scaramucci impose un linguaggio giornalistico, attento alla verifica dei fatti, un approccio laico, aperto. Non ci si rivolgeva “ai compagni”, ma ai cittadini. Stando comunque a sinistra, soprattutto nel senso che si dava voce ai movimenti, alle lotte. Anche a quelle nuove, impreviste dai classici, come i “circoli del proletariato giovanile” ( fratelli maggiori dei successivi centri sociali). Il battesimo di fuoco di Radio Popolare fu la radiocronaca della contestazione della prima della Scala il 7 dicembre del 1976. Una cosa così non l’aveva mai fatta né ascoltata nessuno fino a quel momento. Fu la scoperta che non c’era bisogno di chissà quali impianti, si potevano utilizzare al meglio strumenti semplici ed economici come i telefoni a gettone o correre in radio con la audiocassetta appena registrata. Le uniche radiocronache di qualcosa dall’esito imprevedibile erano state, fino a quel momento, da parte della Rai, quelle delle partite di calcio. La questura ci attenzionò per capire se avevamo in qualche modo pilotato i manifestanti avvertendoli dei movimenti della polizia, ma niente, poteva essere stato anche il contrario. Radio Popolare entrò così sulla scena della informazione, e soprattutto cominciò a entrare nelle teste e nel cuore, nelle abitudini di una vasta sinistra diffusa. Radio Onda Rossa festeggia 48 anni di informazione indipendente: tre giorni di musica, dibattiti a Roma Nelle fabbriche e nelle scuole Sollecitavamo la partecipazione di chi faceva qualcosa. Allora soprattutto quelle che definivamo le lotte. La rubrica sindacale non si limitava a intervistare sindacalisti, avevamo “corrispondenti dalle fabbriche”. Personalmente mi occupavo, tra le altre cose, della Rubrica Giovani (titolo povero provvisorio, poi diventato di lunga durata) e in certi periodi di scioperi occupazioni e autogestioni eravamo arrivati ad avere decine di “corrispondenti dalle scuole”. Telefonavano, registravano. Talvolta facevamo riunioni che sembravano un coordinamento. Qualcuno poi è diventato giornalista, come il compianto Marco De Martino. La sigla era Ma non è una malattia di Gianfranco Manfredi. Fin dall’inizio, ovviamente, c’era la musica a Radio Popolare. C’era il problema della Siae perché magari a casa uno si registrava i dischi. Per qualcuno erano ancora una merce rara. Due ragazzini del quartiere venivano ogni tanto, quando eravamo in via Pasteur, a stare con noi quando facevamo le “conduzioni notturne”. Gli concedevamo di sentire dischi nell’altro studio, quello che non trasmetteva. Si chiamavano Fausto e Iaio (Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci), sono diventati molto famosi perché assassinati, povere vittime della strategia della tensione della estrema destra. Fu Radio Popolare a dare la terribile notizia, e fare da cuore pulsante della straordinaria e per fortuna pacifica protesta di massa che ci fu. Era il 1978. Sequestro Moro. Si inseriva in un clima di scontro politico che durava da anni. Per noi provenienti dalla “sinistra rivoluzionaria” non era così facile solidarizzare con il presidente della Democrazia cristiana, anche se eravamo contro le Brigate rosse. Ricordo che sognai che le Brigate rosse ci facevano trovare Aldo Moro vicino a una cabina telefonica di viale Monza. Andavo a prenderlo, era un po’ stravolto ma stava bene. Con un altro redattore dicevo, nel sogno, «lo portiamo alla radio, lo confortiamo un po’ e gli facciamo dire tutto quello che vuole». Ma come? È pur sempre un leader democristiano… ci arrovellavamo. Rompere tabù Io ero abbastanza portato a rompere tabù interni a quel mondo, lo spirito di Radio Popolare era anche quello della scoperta, dell’invenzione, della contraddizione. Una notte di gennaio del 1978 dopo il giornale radio in cui avevo dato notizia della uccisione di due giovani neofascisti a Roma (Acca Larentia), nella “conduzione notturna” aprimmo i telefoni. Pensavo a un “solito” dibattito nella sinistra sulla violenza, arrivò a sorpresa la telefonata di un militante di estrema destra che invece di insultarci diceva «Perché non la smettiamo di ammazzarci tra di noi, in fondo siamo tutti contro il regime». Lo lasciai parlare, poi un altro, anche. Era la rottura di un tabù, i fascisti non devono parlare, e meno che mai a Radio Popolare. La discussione tra noi e attorno a noi fu molto accesa. Ma in quegli anni ci divertivamo anche molto. Idee semplici e inedite. Bar Sport nasce dalla trovata di commentare la partita di calcio in tv: abbassa il volume della tv, ascolti noi che ci scherziamo sopra. Sergio Ferrentino fu poi il geniale inventore del Border Trophy, una caccia al tesoro via radio che coinvolse complessivamente negli anni migliaia di persone, a scorrazzare per la città. Per me Radio Popolare è stata anche occasione e strumento del coming out: mi feci intervistare da Stefano Segre per dichiarare che effettivamente ero gay. Paolo Hutter è un giornalista. È stato tra le prime voci di Radio Popolare. Gli anni Ottanta sono stati cancellati. E Milano non ha più un’anima