Diego Abatantuono 70 anni compiuti il 20 maggio, fa il punto di una carriera che lo vede come assoluto mattatore. Da Eccezzziunale... veramente a Attila flagello di Dio entrambi – citati a memoria da giovani e giovanissimi –, fino ai purtroppo dimenticati Strana la vita di Giuseppe Bertolucci del 1987 e Per amore, solo per amore di Giovanni Veronesi (1993), passando ovviamente per Pupi Avati e per Gabriele Salvatores. Una vita fatta di tanti amici e una carriera di oltre 80 film.

Se oggi incontrasse il giovane Diego Abatantuono degli anni del Derby, cosa gli consiglierebbe?

Gli direi di continuare così, di andare avanti proprio come stavo facendo allora. Io ho iniziato un po’ per predisposizione e un po’ per casualità. Non pensavo certo a vent’anni che sarei diventato un attore, ma desideravo stare in quell’ambiente. Allora al Derby avevo iniziato a fare il direttore artistico e un po’ a muovermi sul palco. Erano passi che stavo compiendo seguendo le mie sensazioni. Forse avrei potuto fare scelte migliori, ma non ho nulla di cui pentirmi. Nessuno o pochissimi sono riusciti a salire sul palco a ventuno anni e in un anno o poco più a fare cinema. Diciamo che meglio di così proprio non poteva andarmi e ogni altro consiglio sarebbe stato solo sbagliato.

Come era il Derby in quel momento?

Aveva raggiunto il suo apice, e seppur molto lentamente stava iniziando la sua fase di declino. E credo che la proposta di mio zio di diventare direttore artistico contenesse sotto testo l’idea di rilanciare con un nuovo ciclo, ma il successo sul palco m’impedì di esplorare quella possibilità.

Perché il Derby resta un’esperienza irripetibile?

Perché irripetibile è la vita di quegli anni, ma non lo dico perché essendo allora più giovane tutto poteva sembrarmi più affascinante, ma perché il mondo è cambiato e in peggio. Quell’esperienza non dipese solo dalla volontà di qualcuno, ma da un’insieme di circostanze. Quel periodo storico fece sì che in quel locale si mescolassero cabarettisti, intellettuali e balordi. Una promiscuità mai più vista. Fu il frutto sì di un pensiero, ma anche di molta casualità.

Oggi Milano saprebbe accogliere un’esperienza come quella del Derby?

Considera che il Derby nasce come locale per i frequentatori dell’Ippodromo. Inizialmente era un ristorante. Dal mondo dell’ippica derivava dunque uno stile, un modo di fare e un vero e proprio gergo. Beppe Viola era la figura di collegamento tra quei mondi che davano forma a una promiscuità unica e oggi impossibile da ritrovare a Milano. E poi la televisione con la sua frenesia ha occupato ogni spazio. È stato un cambiamento culturale. Oggi viviamo in un tempo in cui ci sono parole come virale.

Virale fa parte dell’elenco delle parole che trova insopportabili?

Sì perché è una parola che da solo una sensazione di quantità, ma prescinde da ogni forma di qualità. Prima si pensava alla qualità per ottenere un determinato risultato ora invece si pensa solo al risultato. Ora se uno dice una cazzata e tutti la ripetono, diventa una cazzata virale. Nella parola stessa di virale c’è tutto lo scempio di questo tempo.

E lei come ha capito che era bravo a stare su un palco, a recitare, a far ridere?

Io non guardavo quanto si rideva in sala, per me era importante chi rideva. Io guardavo a Cochi e Renato, a Beppe Viola, a Jannacci, allo stesso Bistecca. Guardavo alle persone che per me erano interessanti. Loro per me erano il vero pubblico di riferimento, se loro ridevano – anche se la gente in sala rideva poco – voleva dire che avevo preso la strada giusta.

Ha mai pensato, dopo ben 17 film in due anni a fare altro che non fosse l’attore?

No assolutamente. Anche perché il personaggio che facevo non era finito, ma aveva solo esaurito il pubblico, perché nessuno sfrutta così un personaggio. Da Troisi a Benigni a Verdone nessuno ha fatto così tanti film, quella era una cosa che si poteva fare all’epoca di Alberto Sordi quando ancora la televisione non era diffusa. Ecco se avessi incontrato me stesso non a 20, ma a 24 anni gli avrei consigliato di cambiare agente.

Come ha preparato la sua seconda parte di carriera?

In quei due anni in cui non ho fatto cinema, ho fatto il Don Giovanni di Molière a teatro, ho fatto una serie per la televisione. Ho cercato di fare delle cose che mi portassero al di là del mio personaggio e che mi permettessero anche di pagare i debiti che mi ero ritrovato fidandomi delle persone sbagliate. Quindi sono stato fermo al cinema, ma per il resto ho continuato a lavorare, anche perché se mi fossi fermato del tutto avrei perso anche la casa. La situazione era realmente drammatica.

In un momento oggettivamente complicato ha conservato però molta lucidità.

Ero convinto di quello che sapevo fare, ero sicuro di me stesso. E penso che se non fosse arrivato Pupi Avati con Regalo di Natale, sarebbe arrivata comunque un’altra possibilità. Come poi è successo con Comencini, Bertolucci e poi fino a Salvatores.

Nonostante la sua carriera mostri chiaramente come si possa far coesistere comico e drammatico, perché nel cinema italiano sembra esserci ancora così poca considerazione dei comici?

Perché è una considerazione figlia della critica. I critici non sanno per davvero come si fa il cinema. Sono solo commentatori di cose di altri. Poi spesso sono persone di assoluta qualità e che anzi aiutano e sostengono chi fa il nostro mestiere, ma ritengo che non capiscano per davvero il naturale talento dei comici che non è una cosa che si può spiegare o imparare.

Vittorio Gassman la considerava un suo erede.

Io sono molto restio a questo tipo di citazioni, però sì mi fa molto piacere e me lo ha confermato anche suo figlio. Quella di Gassman e quindi di Sordi, Tognazzi e Volonté fu una generazione che fece molta gavetta e che seppe fare molte cose diverse.

Non ha mai pensato di provare la regia al cinema?

Io al massimo interpretando un personaggio posso entrare nel merito di parti della sceneggiatura, ma la regia è tutta un’altra cosa. Ho provato a fare una cosa, ma non è nel mio carattere. Sono troppo buono. Il cinema è come una piccola città, dentro c’è gente che fa ogni tipo di lavoro: dall’amministrazione alle luci. Cento lavori. E quindi perché devo fare un lavoro che mi viene meno bene quando ne posso fare uno che mi viene meglio?

Come vive l’inizio dei suoi 70 anni?

Già le parole 70 anni mi danno fastidio, anche se non battono virale. Invecchiare è come avere una malattia molto leggera in alcuni casi e molto meno in altri, ma è un decadimento inevitabile. L’unica è concentrarsi sul famoso bicchiere mezzo pieno e se possibile berselo. C’è certamente l’esperienza, c’è la famiglia fatta di figli e di nipoti, ma ci sono anche gli amici che vengono a mancare o quelli che stanno poco bene. E poi manca quell’energia che si aveva una volta e che ora non c’è più. Io ho avuto una frenesia di vita assoluta, io il capodanno della gente normale l’ho fatto tutte le sere della mia vita per sessanta anni. E per me pensare di tirare i remi in barca è molto difficile.

Cosa le hanno fatto capire uno per uno, Enzo Jannacci, Beppe Viola, il Bistecca, Pupi Avati e Ettore Scola?

Tutto loro sono accomunati da un grande senso dell’umorismo e questo è determinante per capire come è una persona. Difficilmente uno può essere un grande artista per quello che riguarda il cinema se non ha senso dell’umorismo. È parte integrante dell’intelligenza.

Cosa non sopporta del passato e cosa del futuro?

Del passato non sopporto che i drammi vissuti non abbiano dato alcun insegnamento. Del futuro non sopporto quello che non vedrò.

E cosa non sopporta infine delle interviste?

Quando ti dicono: mi racconta un aneddoto? Non ha un aneddoto di quando ha fatto quel film? Lei ha conosciuto Gassman, non ha un aneddoto? L’aneddoto a richiesta è insopportabile.

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