Se Jannik Sinner -– il ragazzo prodigio che il tennis italiano aspettava dai tempi della “veronica” di Adriano Panatta – aveva un destino scritto nello sci, il suo ingegnere progettista Riccardo Piatti doveva fare altro, nella vita, che non passarla in calzoncini a colpire palline gialle.

I Piatti, una buona famiglia comasca, si erano figurati un figlio avvocato, o giù di lì. Invece no: nella testa di Riccardo c’erano il tennis, il tennis e poi, ancora, il tennis.

«Ero un mono-pensiero», dice, «e quando mi iscrissi di soppiatto alla scuola maestri di Roma, passai l’esame e arrivò a casa la convocazione, scoppiò il pandemonio: mia madre, e per i tempi era del tutto comprensibile, mi disse quasi affranta che mi voleva avvocato, non operaio con una racchetta in mano. Non dimenticherò mai la partenza, dalla stazione di Como Lago, una sera di fine settembre: lei in lacrime, pareva la madre di un soldato in viaggio per la guerra. Invece, per me, in quel posto desolato, i campi da tennis di giorno e una pensioncina popolare vicino al centro delle Tre Fontane la sera, c’era il paradiso».

Nacque così l’avventura del coach italiano più conosciuto e medagliato d’Italia. Un testone, un bastian contrario: dopo essere stato assunto dalla federazione per crescere i giovani talenti del tempo (i ragazzi del 1970 Renzo Furlan, Cristiano Caratti, Cristian Brandi, Federico Mordegan), la Fit gli fece sapere che quei quattro sarebbero stati scartati al compimento dei diciotto anni, che nessuno ci avrebbe cavato niente di buono e che lui, il coach, li avrebbe dovuti abbandonare, per dedicarsi a una nuova infornata di promesse.

Piatti si rivoltò: suo padre gli aveva inculcato la mentalità dell’impresa privata per cui, se si fallisce, il primo a risponderne con faccia e portafoglio è il padrone. «Se mandate via loro, vado via pure io», si sentirono dire i basiti dirigenti federali, storicamente abituati a gente dalla mentalità parastatale.

Sinner, nato nel 2001, non era neppure nei pensieri dei genitori, in quel periodo. Ma se oggi esiste, e fa fregare le mani a tutti gli appassionati orfani di campioni italiani, è anche perché Riccardo Piatti, a fine anni Ottanta, inventò un mestiere sconosciuto nel nostro paese: il coach di tennis privato. Non stipendiato da nessuno, libero da capi impastati con la politica sportiva di basso cabotaggio. Un lavoro in cui si guadagna – se c’è da guadagnare, e a volte si mangia a malapena – una percentuale sugli introiti dei suoi giocatori. Si vince e si perde tutti insieme.

In quel modo, alla faccia di tutti quelli che gli ridevano dietro o gli davano del matto, creò il fenomeno dei Piatti Boys: Furlan, Caratti e Brandi diventarono eccome professionisti, e tutti quanti vennero convocati più volte in Coppa Davis, a rappresentare quella nazione che aveva loro voltato le spalle.

Forse per il poco amore che l’Italia gli ha sempre manifestato, Piatti ha speso buona parte della carriera a far fiorire i talenti altrui. Il suo progetto compiuto più ambizioso lo realizzò con Ivan Ljubicic, un tredicenne sfollato dalla guerra dei Balcani che aveva trovato riparo a Moncalieri, a due passi da Torino, laddove Piatti aveva piazzato le tende una volta intrapresa la libera professione. Ne intuì le qualità e si mise in testa di farlo puntare in alto, senza vivacchiare di torneini comodi, casalinghi e meno competitivi, rinunciando a qualche guadagno nel presente per venire, chissà, ripagato al centuplo un domani.

Ljubicic giocava, per così dire, all’italiana: amava i colpi complicati, le smorzate, le soluzioni spettacolari che strappano tanti applausi e poche vittorie. Piatti lo affrontò a muso duro: «Tu sei un giocatore di servizio e di rovescio, punto. Usali». Ljubicic li usò: da niente che era, arrivò al numero 3 del mondo. Davanti a lui, solo Rafa Nadal e Roger Federer. Di cui, guarda caso, una volta appresa l’arte dell’insegnamento da Riccardo, è diventato coach.

Il «mulo di Cernobbio»

Un’altra gustosa rivincita per quello che i compagni di corso, a Roma, chiamavano scherzando «il mulo di Cernobbio», perché era sempre il primo ad arrivare alle lezioni e l’ultimo ad andarsene e, nel fine settimana, passava la libera uscita sui manuali tecnici, per trovare cosa non funzionasse nell’insegnamento classico del tennis e come si potesse elaborare un nuovo metodo più efficace per costruire professionisti.

Che il mondo del tennis non iniziasse né finisse in Italia lo aveva capito grazie a Gianni Clerici, il cantore della racchetta, vicino di casa sul lago di Como e narratore inesauribile di avventure e di personaggi. Era stato proprio il Gianni, caro amico di famiglia, a consigliare a Riccardo di non rifugiarsi nel provincialismo ma, se davvero voleva crescere di andare a imparare altrove il tennis di avanguardia.

Per esempio nell’accademia fondata in Florida da un oriundo, Nick Bollettieri, coach di Andre Agassi e di un’infornata di campioni che accorrevano al suo capezzale dai quattro angoli del mondo. Il pubblico, di Agassi, notava il ciuffo platinato da punk, i passanti fulminanti e le magliette fluorescenti; Bollettieri, invece, lo aveva costruito grazie al gioco di gambe e agli appoggi, alle aperture dei colpi moderne e all’anticipo negli impatti. Tutte cose valide e insegnabili ancora adesso.

La stessa qualità di osservazione la sviluppò Piatti, per esempio quando rimase folgorato dal figliolo di una famiglia serba che vendeva pizza al taglio in un impianto sciistico a Kopaonik. «Si muoveva come nessun altro: appena lo vidi, capii che era speciale». Aveva diciott’anni ed era il (molto futuro) numero uno del mondo, Novak Djokovic. Anche lui aveva capito che Piatti era speciale, tanto da lavorarci insieme per un po’. Salvo poi andarsene, perché pretendeva l’esclusiva ma Riccardo non se la sentì di lasciare il lavoro di una vita con Ljubicic.

Dopo Ivan, Piatti cavò il meglio dall’arte pigra di Richard Gasquet, riportandolo ai massimi livelli; poi si occupò di sgrezzare un picchiatore come Milos Raonic, trascinandolo alla finale di Wimbledon. Sempre in penombra: ci sono colleghi che sgomitano per due minuti di inquadratura in tivù, o per tre righe di rubrica firmata, mentre Piatti lo dovettero portare quasi di peso ad assistere alla finale di Raonic contro Murray «perché il vero lavoro è quello che fai in campo», ed è vero e lo sanno tutti, compresi i coach che vivono più su Twitter o in giro a far pubbliche relazioni che col cesto di palline. Ma quando serve un medico si va da quello bravo, non da chi ha più follower.

«Jannik è il riassunto di tutto», dice adesso Riccardo quando parla del suo Sinner. «Non so se sia un caso, ma sembra proprio che sia arrivato il giocatore giusto al momento giusto. Pensa al tennis tutto il giorno, parliamo solo di tennis. È anche lui un mono-pensiero», aggiunge sorridendo.

E meno male che un collega e amico di Piatti, Max Sartori, un bel giorno glielo mise sotto il naso, quel tredicenne più racchetta che fisico. «Max insistette per farmelo vedere e una volta, tra un impegno e l’altro, me lo portò. Dopo qualche minuto che lo vedevo palleggiare, mi girai verso di lui e gli chiesi se lo potevamo adottare».

A me piace giocare

Quando Piatti interrogò quel giovanotto sul motivo per il quale avesse deciso così rapidamente, e senza ripensamenti, di abbandonare lo sci, nel quale era tra i più promettenti la livello nazionale, Jannik rispose: «Perché sciare mi piace, ma non è un gioco. E a me piace giocare». Semplice, lineare. Bastava così.

Un anno fa il primo sigillo di Sinner, il Master Atp per gli under 21, il cosiddetto NextGen. «Quando Jannik lo ha vinto, gli ho detto bravo. Subito dopo, gli ho chiesto chi avesse vinto quel torneo due anni prima: “Boh”, mi rispose. Appunto, gli dissi: non hai ancora vinto niente. Ricordatelo, e rammenta anche che io ho già portato due giocatori alla terza posizione mondiale e, uno di loro, a giocare la finale di uno Slam. Con te, non mi accontenterò finché non avrai fatto meglio». La sfida è stata raccolta: Sinner non è uno da false modestie, sa di essere un atleta speciale e vuole arrivare lassù, al numero uno.

Al torneo di Sofia, primo titolo Atp conquistato da Sinner a neanche vent’anni, Piatti ha mandato in spedizione il fido Cristian Brandi, uno dei suoi primi boys, e l’osteopata Claudio Zimaglia, collaboratore da una vita. Il coach è un tipo da rapporti lunghi, da famiglia allargata con gli inamovibili Rocco, il figlio studen-tennista, e Gaia, la moglie conosciuta (guarda un po’) su un campo da tennis: «Ma con lei non iniziò mica tanto bene, perché la conobbi che faceva la giudice di linea e sbagliò un paio di chiamate a danno di Ljubicic…».

Mentre Sinner tritava la concorrenza e accendeva la passione degli italiani, il coach è rimasto a casa. Proprio come il meccanico finisce il lavoro e poi aspetta ai box, con lo sguardo fisso sulla linea del traguardo. Quando Jannik l’ha tagliata, battendo Pospisil 7/6 al terzo set, si è lasciato sfuggire: «Bravo, sì. Ma questo è solo l’inizio».

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