Il parto di Tommaso non è stato facile. Come tutti i parti. Alessandra voleva un parto il più naturale possibile, ma non tanto da stare a casa: il centro nascita, dentro l’ospedale e a pochi metri dalle sale operatorie e da neonatologia, ci dava la giusta tranquillità in caso di necessità, unita a un ambiente meno asettico e con più libertà di una sala parto. Libertà che abbiamo sfruttato appieno, passandoci una giornata intera nelle 28 lunghissime ore di travaglio che Alessandra – santa, eroina, guerriera madre – ha sopportato con un coraggio di cui non sarei capace in mille vite.

I padri nei parti hanno un ruolo particolare: pressoché inutili, eppure indispensabili. Bisogna esserci. Stare lì, massaggiare, aiutare, fare forza, non perderla. Nei momenti in cui Alessandra andava a fare le sue docce interminabili, le uniche che le davano un po’ di sollievo dal dolore, io andavo nella stanza vuota a fianco, mi buttavo a terra e piangevo come un matto per un minuto, lasciando andare un po’ di tensione e di paura. Poi mi lavavo la faccia e tornavo di là.

Quando sono arrivate le contrazioni, le grida di Alessandra sono salite di tre ottave. Prima erano lamenti, lunghi e modulati. Ora urlava con una voce che non le avevo mai sentito, che non riconoscevo sua. Posso solo immaginarlo: il corpo della donna, dopo aver creato la vita e averla custodita dentro di sé, la deve far uscire. E quindi inizia ad aprirsi: muscoli, tessuti, persino ossa si spostano, si tirano, seguendo un protocollo imparato con lentezza in centinaia di milioni di anni. Il corpo si tira in mille direzioni per fare uscire te.

Ci sono stati pure momenti comici nella loro intensità: come quando stavo seduto dietro, già in fase espulsiva, lei seduta per terra con l’ostetrica davanti. Senza pensarci – dato che non sapevo cosa stavo facendo – nel mezzo di un urlo, posseduto dallo spirito del bibliotecario che sono, sussurro goffamente ”shhh”, per calmarla. Ho giusto il tempo di vedere arrivare la sua mano sinistra alzarsi oltre la spalla e planare fortissimo sul mio naso: «NON SI DICE SHHH!». Me lo sono meritato.

E infine, finalmente, alla fine di infinite ore, una spinta più forte delle altre ti fa uscire. E sei lì, fermo immobile per secondi interminabili, ognuno dei quali mi toglie un anno di vita. E sei una cosina viola, livida, gettata a terra.

La più cosa più bella abbia mai visto nella mia vita e probabilmente mai vedrò. La voce di A., fino a un secondo prima lacerata dal dolore, si ricompone subito per sciogliersi in un “amore, amore” la cui dolcezza ancora mi perseguita. L’Alessandra che conoscevo era sparita per sempre. Ora era trasformata. Era una mamma.

Per la prima volta, parla a te, che non sei più un’idea, un grumo di cellule che lievita invisibile, ma sei fuori, sei qui, sei ora, sei vero, sei fisico, sei concreto, sei questo spazio e questo tempo. Una cosa livida che mi attrae come un buco nero, fa esplodere un amore che non sapevo di poter provare.

Una cosa livida che per fortuna inizia a muoversi, a piangere un pianto silenzioso e buffo, una scimmietta che viene posata sulla mamma e che si muove sul suo ventre come le tartarughine appena nate si dirigono verso l’oceano. Stesso istinto, stessa storia milionaria di evoluzione.

Sei bravo, prendi subito il seno della mamma, dopo qualche ora tagliamo con calma il cordone ombelicale, lo taglia il papà. Mentre premo con le forbici e mi sembra di tagliare una gomma da giardino, mi rendo conto con stupore che il papà sono io, che adesso Alessandra è davvero mamma, e io sono davvero un papà.

Un’ora perfetta

Ci sono pochi momenti della mia vita in cui sono stato meglio che qualche ora dopo il parto: nella stanza dove sei nato, nel cuore della notte, in un silenzio irreale, dormiva la mamma il sonno dei giusti e dei guerrieri, dormivi tu, su di me. Senza la maglietta, pelle a pelle. Dicono che faccia bene, anche se così non fosse è così bello che va bene uguale. Per un’ora perfetta, forse l’unica della mia vita, mi sono sentito senza colpa. Senza altro desiderio che essere lì, con te, ad abbracciarti e godermi il tuo primo sonno, sentendo con ogni fibra del mio corpo che non c’era un altro posto in cui sarei mai voluto essere, non esisteva nessun altro posto al mondo che non questo. Per un’ora perfetta, in maniera inequivocabile e inesorabile, eravamo giustificati, eravamo il centro dell’universo.

Io e te, accanto alla mamma. Penso che la vita di un bimbo attraversi diverse fasi: vegetale, animale, umana. Quando è dentro la pancia gli parli dolcemente, senza sapere se davvero senta, in maniera non così diversa da quando sussurri ai potus mentre li annaffi e gli accarezzi le foglie. Appena nato è un animaletto buffo, una scimmietta pelosa con giusto un paio di output comunicativi (piangere, soprattutto).

Poi piano piano inizia a capire, inizia a farsi capire, diventa un bambino vero come Pinocchio. Ora Tommi hai due anni, così pieni di eventi che non faccio in tempo a stupirmi di qualcosa che già è passata, che ho già dimenticato.

Avere un figlio è assistere a un’esplosione al rallentatore, vivere dei giorni come fossero settimane. Vorrei dirmi che ho mantenuto intatta la mia capacità di meravigliarmi, ma è incredibile a quante cose ci si abitui, da subito.

Ci si abitua ad alzarsi a orari improbabili per cambiare un pannolino, a farlo al buio e a non sporcarsi di cacca tutte le volte (la tua cacca santa inizialmente fatta di solo latte, purissima cacca giallo oro, preziosa come un giallo di Van Gogh sul fasciatoio blu intenso). Ci si abitua al tuo profumo, alla figura di girino rannicchiata fra me e la mamma, gli occhi chiusi a sognare. Ci si abitua a quella sensazione straordinaria di sentirti dormire sopra di me, di tenerti caldo dentro la fascia, mentre ci rilassiamo entrambi andando su e giù sopra la pallona di gomma per dormire o per sedare le coliche (la gestazione è roba da mamme, l’esogestazione è roba da papà). Ci si abitua a quel livello illegale di ossitocina nel sangue, alle esplosioni di luce quando sorridi le prime volte, quando vuoi dirmi chissà cosa. Ci si abitua al vedere nei tuoi lineamenti me stesso e la tua mamma e i nonni e gli zii, un intero albero genetico che ti abita e che fiorirà nel tempo, in una primavera stupefacente e terrificante. Ci si abitua ai primi passi, alle prime parole, finché un giorno ti giri e tu corri ovunque e mi chiami per nome e hai un tuo senso dell’umorismo e mi fai dei lunghi discorsi e fai i capricci e vuoi vedere gli amici del nido e vuoi che ti legga una storia.

Ogni giorno è una scoperta, e anche questo diventa normale. Volere un figlio è una cosa umana, concreta, biologica, completamente irrazionale. Non serve scomodare idee religiose, non serve neppure attribuirgli un Senso con la maiuscola. Rispetto molto chi capisce di non volere figli e non vuole farli. La trovo una scelta molto assennata. A me, semplicemente, è capitato il contrario.

Ansie precise

Avere un figlio, personalmente, ha archiviato alcune ansie e ne ha generate di nuove. In un certo senso, ho sostituito ansie esistenziali con ansie molto concrete: hai mangiato? hai dormito? hai fatto la cacca? cosa hai in bocca? c’è la porta del balcone aperta?

Ansie che hanno il pregio di essere precise, e spesso con una soluzione a portata di mano. Rimane un gigantesco interrogativo sul futuro, sicuramente: su quella inesorabile catastrofe ambientale che tutti troviamo così noiosa e non interessante, ma che mostra i suoi segni ogni anno che passa. Ha senso fare un figlio durante l’apocalisse ambientale?

Mi accontento per ora di potermi preoccupare di problemi che posso risolvere piuttosto che pensare ossessivamente ad altri che non posso.

Ho anche notato che dormo meno, ma meglio di prima. L’insonnia si è azzerata, e ormai alzarsi la notte non mi costa quasi più. Non dico che sentirti chiamare il mio nome mi faccia piacere, ma è bello sentirsi importanti per qualcuno. È bello sapere che fra tutti gli abbracci del mondo tu cerchi il mio.

Ecco, una cosa è peggiorata: da quando sei nato, le notizie tremende che arrivano dai campi profughi in Bosnia, dalle gabbie americane, dal nostro Mediterraneo mi sono diventate insopportabili. Nel libro Nessun cielo, Pierre Demarty racconta di un padre quarantenne che vede la foto di Alan Kurdi – quel bambino con quella maglietta rossa, quello su una spiaggia – e qualcosa dentro di lui si frattura. Lui smette di funzionare, non riesce più a vivere come prima. Da quando sono papà, queste notizie infestano anche me, non me le scrollo più di dosso. Non è che prima mi fossero indifferenti ma semplicemente l’informazione che prima era mediata è diventata immediata. Istantanea, somatica: una roba di carne prima che di cervello.

La foto di un bambino che soffre la sento prima di pensarla.

Eterodiretti

E quindi mi rendo conto che parte di questa adultità in cui mi hai gettato, caro Tommi, è abituarsi a sentirsi “eterodiretti”, con il baricentro completamente fuori da sé. Non sai quanto abbia ricercato questa sensazione, consapevole (anche se testardo nel provarci) che mai mi sarei mai bastato, che l’autonomia affettiva è una cazzata, che nelle nostre cellule abita una millenaria storia mammifera che ci spinge, volenti o nolenti, verso gli altri. È stato il mio corpo a volerti, per anni: i figli, lo scoprirai anche tu, prima con dolore e poi forse con sollievo, sono un atto di egoismo, di sopravvivenza. Non c’è molto di razionale, l’ho detto. Avevo bisogno io di te, quando ancora tu non c’eri. Avevo bisogno di sentirmi così importante per qualcuno piccolo e impotente come te. Avevo bisogno di voler bene a qualcuno come ne voglio a te. So anche che questo mio volerti bene, un giorno, ci farà litigare, quando vorrai prendere in mano la tua vita, quando vorrai diventare il Tommaso che vuoi tu.

Ieri sera hai dormito per la prima volta dai nonni, e io già soffro l’abbandono. So che questa battaglia che verrà adesso la vinco io, perché tu sei un animaletto minuscolo e divertente, e io posso riversare su di te tutta la mia stupidità, tutto il mio amore, tutta la mia vulnerabilità. Essere padre è rendersi vulnerabili, e io ne avevo una gran voglia. Oggi è la festa del papà, cioè la mia festa.

© Riproduzione riservata