Nel 1955 pubblicava con Einaudi Politica e cultura, raccolta di articoli scritti tra il 1951 e il 1955. La cultura italiana, secondo Bobbio, non aveva contribuito alla formazione di una società democratica, avendo coltivato una «filosofia della elusione», un sapere «accarezzato e vezzeggiato per se stesso». La democrazia era fiorita invece dove si era sviluppato un pensiero empiristico e critico, dove non si era verificato quel divorzio evidente nella società italiana
Nel 1955 Norberto Bobbio pubblicava, con Einaudi, Politica e cultura, che raccoglieva articoli scritti tra il 1951 e il 1955. Negli anni della guerra fredda Bobbio affrontava la questione prendendo le distanze da quanti pensavano di tagliare i nodi complessi, piuttosto che scioglierli. Per questo, commentava, «non è necessaria la ragione (che è l’arma dell’uomo di cultura). Basta la spada», e consigliava di essere «modesti in sapienza profetica». Dinnanzi al vaniloquio dei «piccoli zaratustra provinciali», indicava agli intellettuali la via tracciata dagli illuministi, che non si limitavano a criticare le istituzioni, ma si adoperavano per riformarle, guidati dal metodo scientifico, da una concezione razionale del mondo e da una indiscussa fiducia nel progresso.
Si riconosceva sicuramente nel loro razionalismo, ma ammetteva di sentirsi pessimista riguardo alla fiducia nel progresso, considerando l’ottimismo poco compatibile con la razionalità. La cultura italiana, secondo Bobbio, non aveva contribuito adeguatamente alla formazione di una società democratica, avendo coltivato una «filosofia della elusione», un sapere «accarezzato e vezzeggiato per se stesso». La democrazia era fiorita invece in quei paesi in cui si era sviluppato un pensiero empiristico e critico, come in Inghilterra, dove non si era verificato il divorzio tra politica e cultura, evidente nella società italiana, segnata da un pigro attaccamento al «genio speculativo», che induceva gli intellettuali a discutere «sul primato del pensiero o dell’essere».
Il dibattito nel PCI
Negli anni in cui Bobbio pubblicava i saggi raccolti nel volume, si svolgeva, all’interno del Pci, un serrato dibattito sulle teorie di Trofim Denisovic Lysenko, che, considerate coerenti con il materialismo dialettico, avevano soppiantato in URSS la genetica mendeliana, accusata di essere una scienza borghese. Nell’inverno del 1948-49 biologi vicini al Pci, come Adriano Buzzati Traverso e Luigi Silvestri, espressero apertamente il loro dissenso nei confronti di Lysenko, subendo la «condanna» di Emilio Sereni, responsabile della Commissione cultura.
Sereni, nonostante la sua formazione scientifica, sostenne infatti «il carattere partitico della scienza», nella convinzione che l’ortodossia ideologica dovesse prevalere rispetto all’evidenza dei dati sperimentali condivisi dalla comunità accademica internazionale. Questa irruzione dell’ideologia totalitaria nell’ambito della ricerca aveva avuto il suo corrispettivo nella Germania nazista, quando due Premi Nobel per la fisica, Philipp von Lenard e Johannes Stark, in nome della Deutsche Physik, si erano scagliati contro la fisica “ebraica” di Albert Einstein.
In tale contesto Max Planck e Werner Heisenberg furono accusati di essere «ebrei bianchi», per non aver preso radicalmente le distanze da Einstein. La subordinazione di ogni forma di creatività al progetto totalitario si consolidò nel 1934, quando vennero definiti i canoni del realismo socialista, che doveva essere respinto, sosteneva Bobbio, non tanto perché i quadri che promuoveva erano brutti, ma perché negava la libertà. Si dovrebbe ammettere, scriveva, che «si stima di più un quadro brutto dipinto liberamente che uno bello dipinto per obbligo». In questo caso, per un liberale, il problema diviene etico prima che estetico, perché «il valore ch’egli difende non è quello dell’arte, ma quello della libertà». La circolazione delle idee, sottolineava Bobbio, è connaturata «alle istituzioni giuridiche che caratterizzano lo stato liberale», in cui la politica della cultura si configura come difesa ed esercizio della libertà, diversamente dalla politica culturale centralizzata, adottata dal dogmatismo totalitario.
Democrazia liberale e dispotismo
La severità di questi giudizi non significava, per Bobbio, schierarsi con chi condannava senza appello la “barbarie” bolscevica, ignorando l’esigenza di giustizia sociale presente nei movimenti rivoluzionari. E non significava neanche giustificare la tesi secondo cui le libertà civili non costituivano valori universali, ma solo dei privilegi. Su questo terreno Bobbio si confrontò con Galvano Della Volpe, secondo il quale la libertas maior dell’uguaglianza proletaria avrebbe annullato le libertà borghesi. Ricordando, con Alexis de Tocqueville, che l’uguaglianza può condurre alla servitù o alla libertà, Bobbio ribatteva che il liberalismo aveva sempre lottato contro gli abusi del potere, difendendo un criterio valido in ogni situazione, come dimostrava il fatto che gli stessi comunisti lo avevano invocato nella lotta contro il fascismo.
Se per Della Volpe la sovranità popolare avrebbe realizzato in modo sostanziale la libertà che il liberalismo garantiva solo sul piano formale, per Bobbio proprio le forme procedurali distinguevano la democrazia liberale dal dispotismo. Confrontandosi intorno a questi temi con Palmiro Togliatti su Rinascita, nell’inverno del 1954, scriveva che può sembrare facile sbarazzarsi del liberalismo identificandolo con una teoria e una pratica del potere borghese, ma è assai più difficile sbarazzarsene «quando lo si consideri come la teoria e la pratica dei limiti del potere statale, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui sono riapparsi tanti stati onnipotenti». Ammetteva tuttavia che il marxismo aveva consentito di vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, salvando tanti dalle seduzioni dell’idealismo. Tra quanti si erano salvati solo pochi, però, si erano curati di portare con sé un piccolo bagaglio che custodisse «i frutti più sani della tradizione intellettuale europea, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico». Molti, proseguiva Bobbio, avevano abbandonato questo bagaglio o non lo avevano mai posseduto.
Profeti o scienziati
Nel 1986, Bobbio pubblicò per Einaudi Profilo ideologico del Novecento italiano, già apparso in una versione più breve nel IX volume della Storia della letteratura italiana, diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno per Garzanti. Nella postfazione, La libertà inutile, Bobbio riprendeva un suo articolo pubblicato nell’aprile del 1969 su Resistenza, il giornale degli ex partigiani di Giustizia e libertà. Dopo gli sforzi profusi per riconquistare la libertà, scriveva con disincanto, si doveva ammettere che non se ne era fatto un buon uso, rischiando di sprecarla e di perderla. Nell’analizzare criticamente il ruolo degli intellettuali nel ventennio democristiano successivo alla liberazione e la loro limitata capacità di incidere nella società, rilevava che la cultura era stata tutt’altro che democristiana. Si erano infatti contrapposti e intrecciati marxismo, neopositivismo, liberalismo, cattolicesimo progressista, per giungere infine a una condizione post ideologica in cui si poteva assistere a una rilettura di Nietzsche, «su cui è stato posto il berretto frigio che non gli sta bene».
L’intellettuale, per Bobbio, non deve mai assumere le vesti di un «profeta che parla per oracoli» o compiacersi narcisisticamente delle proprie virtù retoriche, ma deve far proprio il metodo dello scienziato, «che si piega sul mondo e lo osserva». Le figure esemplari che avevano coniugato rigore morale, indipendenza di giudizio e impegno civile erano state rappresentate, per Bobbio, da Luigi Einaudi e da Gaetano Salvemini, che nel Novecento avevano ripreso il messaggio illuministico di Giandomenico Romagnosi e di Carlo Cattaneo, pensatori essenziali nell’itinerario della sua ricerca. Dinnanzi alle culture politiche dei tardi anni Ottanta, osservava amaramente che la storia si ripete e delineava un quadro che purtroppo appare oggi familiare. Scriveva infatti di assistere «di nuovo fra estrema destra ed estrema sinistra allo scambio dei padri: c’è una nuova destra che si richiama a Gramsci e alla sua teoria dell’egemonia e c’è una nuova sinistra che riscopre Nietzsche, Heidegger e Carl Schmitt».
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