Ho iniziato ad ascoltare Lolita podcast circa un anno dopo aver riletto il capolavoro di Nabokov, questa volta in inglese, perché in quel periodo stavo studiando (con un intento forse un po’ masochista per una emigrata negli Stati Uniti) testi di autori che hanno scelto di scrivere in lingue diverse dalla propria lingua madre. A parte le riflessioni su linguaggio, stile e sulla superba prosa di Nabokov, mi sono accorta che il romanzo mi aveva lasciato qualcosa di diverso rispetto a quando lo avevo letto negli anni del liceo. L’ho trovato più disturbante.

Probabilmente perché molto è cambiato in me rispetto a quei tempi e oltre ad aver maturato una consapevolezza diversa rispetto alla voce narrante del romanzo, (che, forse non serve ricordarlo, è la confessione in prima persona del professor Humbert Humbert che ripercorre le vicende della sua vita e della distruttiva passione per la figliastra Dolores Haze, per lui Lolita), adesso sono anche la madre di una bambina della stessa età di Dolores e non riuscivo ad astrarmi nel racconto senza che mi scattasse un istinto di rabbiosa protezione nei confronti della protagonista.

Sebbene per ogni lettura che facciamo non possiamo prescindere dal portato personale legato al momento in cui viviamo, sono comunque una lettrice più smaliziata rispetto a vent’anni fa. Ho studiato, conosco le tecniche narrative, so che Lolita non è una “persona” e il romanzo non è una cronaca, che i livelli di interpretazione di questo libro riempiono le lezioni delle facoltà umanistiche del mondo e via dicendo. Ma ogni volta che chiudevo il tascabile mi interrogavo sul perché sulla quarta di copertina (e la mia edizione inglese per il cinquantenario della pubblicazione non faceva eccezione) comparisse il virgolettato preso da una recensione di Vanity Fair: «L’unica storia d’amore davvero credibile del nostro secolo».

Quella frase, che peraltro è estrapolata in maniera un po’ insensata da un pezzo di Gregor Von Rezzori in cui parla dell’ossessione amorosa di Humbert per Dolores come metafora della fascinazione proibita che prova la vecchia Europa nei confronti della giovane e barbarica America, mi è sempre sembrata del tutto fuorviante come sintesi del romanzo. Che Lolita possa essere considerata una storia d’amore da chi la racconta ci può stare, visto che l’unico punto di vista è quello di un uomo che si descrive come completamente sopraffatto dall’amore e dal desiderio per questa ragazzina. Che sia però un amore “credibile” anzi “l’unico credibile”, è come minimo un paradosso che rischia di ingannare il lettore novizio di Lolita.

Humbert Humbert pur nella sua convincente capacità affabulatoria, racconta la storia con la sincerità spudorata di uno che può mentire a ogni frase e può manipolare il lettore come gli pare (anche perché nessuno potrà portare un’altra versione dei fatti) e per questo è letterariamente uno degli esempi più calzanti di narratore inaffidabile. Se mia figlia adolescente dovesse venire attratta dalla lettura di questo classico grazie a quello che promette la quarta di copertina aspettandosi di leggere l’“unica storia d’amore credibile” del secolo scorso vorrei prima metterla in guardia. Perché il romanzo al di là di ogni lettura moralistica è la storia a tragico fine di un abuso incestuoso.

Lolita podcast

Una risposta alla mia domanda sul perché gli editori amino tanto mettere quel blurb in copertina, l’ho trovata in Lolita podcast di Jamie Loftus (prodotto da iHeartRadio ma disponibile anche su Spotify e altre piattaforme), dieci puntate densissime per un totale di quattordici ore di racconto, tutte dedicate all’indagine su Lolita o meglio su Dolores Haze, in ogni forma e declinazione che ha preso il suo personaggio, dalla sua genesi a tutto quello che le è successo in questi 65 anni, una volta che è uscita dal romanzo ed è diventata protagonista di musical, di film, icona pop per la moda, la pubblicità, la musica.

L’autrice del podcast, la ventottenne Jamie Loftus, attrice comica, scrittrice e già autrice di un altro documentario radiofonico molto interessante, My year in Mensa, in cui racconta come per gioco sia entrata a far parte del Mensa, il club di quelli con il QI alto scoprendo cose non proprio edificanti su quel circolo di intelligentoni, si è di nuovo misurata con un’operazione sfrontata e interessantissima.

Non ha avuto timore di avvicinarsi a un mostro sacro come Nabokov e di partire dal suo capolavoro (dal quale lei stessa confessa di essere ossessionata da quando lo lesse per la prima volta alle medie, seguendo il consiglio di un famoso scrittore per bambini) per realizzare una ricerca a 360 gradi sull’evoluzione e la trasformazione dell’immagine di Lolita nella sua dimensione extraletteraria e sondarne i non pochi legami con la romanticizzazione della pedofilia. Ha condotto la sua indagine senza paura di mescolare le carte, i piani, i temi, in un lavoro complesso, ricchissimo di fonti diverse e complete, da cui si impara molto. E se la prima puntata tratta delle storie vere che possono aver ispirato Nabokov, della genesi del romanzo e degli ostacoli che l’autore dovette affrontare prima della pubblicazione, nonché delle sue vicende biografiche (pare che Volodya a sua volta abbia subito delle molestie da un familiare quando era bambino), dalla seconda puntata in poi si esce dalle pagine del romanzo e dalla vita dell’autore per seguire cosa è accaduto a Dolores Haze, fuori dal racconto che ne fa Humbert Humbert.

Un’altra versione

La prima Lolita riadattata di cui si parla è forse quella più famosa, quella impersonata da Sue Lyon nella notissima trasposizione cinematografica realizzata da Stanley Kubrick nel 1962. La puntata del podcast, che porta il titolo Come hanno fatto a fare un film da Lolita? (frase che compariva anche sulle affissioni promozionali quando la pellicola uscì) affronta nel dettaglio ogni fase di lavorazione del film, dal rifiuto iniziale di Nabokov di partecipare al progetto, alla sceneggiatura di 400 pagine che lui stesso firma (ma poi viene pesantemente modificata da Kubrick e da James Harris che era anche produttore), ai problemi di censura, ma soprattutto si concentra su di lei: Sue Lyon/Dolores.

Lyon, che venne selezionata a quattordici anni tra altre 800 candidate e vinse per quel ruolo un Golden Globe (anche se in teoria a quell’età non poteva andare al cinema a vedere il suo stesso film), fu segnata nella vita da quella interpretazione. Dopo Lolita infatti le offrirono solo parti in altri film in cui doveva recitare la giovane tentatrice, e iniziando a soli sedici anni un’infilata di sfortunati matrimoni con uomini molto più grandi di lei.

La prima questione che salta agli occhi di ogni adattamento di Lolita in cui c’è stato bisogno di un’interprete che ne vestisse i panni, è che ovviamente non hanno mai potuto assegnare il ruolo a una bambina di dodici anni, l’età che ha Dolores Haze nel libro quando viene costretta a iniziare una relazione incestuosa con Humbert. Nel film di Kubrick Lolita ha sedici anni, nel film di Adrian Lyne del 1997, (una versione porno soft romanticizzata della storia perfettamente coerente con la produzione precedente del regista sul filone “passioni proibite” – di Lyne sono 9 settimane e ½, Attrazione fatale, Proposta indecente) Lolita inizia il viaggio con Humbert a quattordici anni e l’attrice che la interpreta è la conturbante e per niente bambina Dominque Swain.

Ma nella sua versione originale Lolita è prepubescente, Humbert è un pedofilo. Come dice lo stesso Nabokov in un’intervista alla Paris Review «Humbert era attratto dalle bambine piccole, non dalle ragazze molto giovani. Le ninfette sono bambine, non stelline o “gattine sexy”. Lolita ha dodici anni, non diciotto quando Humbert la incontra. Vi ricordo che quando compie quattordici anni lui parla di lei come della sua “amante che invecchia”».

L’immediato spostamento dell’età di Lolita fin dal suo primo adattamento ha dato il la a una versione della storia in cui l’innocenza di una bambina e orfana (che non ha alternative a seguire il suo disturbato patrigno nel suo viaggio per gli Stati Uniti, piangendo ogni notte prima di addormentarsi), lascia molto più spazio alla malizia calcolatrice di una ragazza consapevole del proprio potere seduttivo, alleggerendo in grandissima misura la responsabilità di Humbert che si trova soggiogato dal potere di questa piccola manipolatrice. Nel tempo e con le successive versioni si è via via cercato di mitigare la gravità dell’abuso e dell’incesto, rendendo la storia più accettabile. L’alleggerimento della gravità del comportamento di Humbert che scarica il peso della sua perversione su una Lolita più adulta e scafata è leitmotiv dell’eredità mediatica di Dolores Haze.

L’eredità di Lolita

Loftus ha studiato, ricercato, analizzato e confrontato tutte le trasposizioni, le drammaturgie, le sceneggiature, i film e i video musicali a partire dagli adattamenti teatrali tra cui il fallito Lolita, my love e il successivo musical di Broadway di Edward Albee (già autore di Chi ha paura di Virginia Woolf?). Ha passato al vaglio le copertine dei libri (Nabokov aveva sempre chiesto agli editori che non ci fossero immagini di ragazze in copertina ma il suo volere è rimasto inascoltato, nella collezione delle centinaia di edizioni disponibili nel mondo è tutto un fiorire di minigonne, piedini, scarpine, lecca lecca, labbra piene, gli immancabili occhiali a forma di cuore che nel testo originale non compaiono mai).

Loftus ha analizzato il “lolitismo” nei media, decennio dopo decennio, nelle pubblicità, nella moda, nei testi delle canzoni e nelle fanpage, ha cercato testimonianze, intervistato docenti di letteratura, scrittori, registi, psicologi, donne che hanno subìto abusi da piccole essendo state circuite da qualcuno che ha usato il romanzo come “esca” per addomesticare la preda (una volta fatto passare il messaggio che si tratta di un amore non convenzionale, di una passione anticonformista e non di abuso, il gioco è fatto), e altre che si sono “salvate” dal trauma grazie alla lettura di Lolita. E ancora ha analizzato le leggi sulla pornografia infantile e la loro applicazione, l’evoluzione e la trasformazione del discorso sugli abusi a Hollywood, l’ondata negli anni Novanta di film con protagoniste teenager rappresentate come pericolose e sensuali tentatrici, i blog e le fan community di moda delle “ninfette” nei primi anni Duemila.

Un lavoro enorme che ha sviscerato la complessa ramificazione dell’eredità di Lolita: nei sessantacinque anni dalla sua prima comparsa su quell’incipit indimenticabile «Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia», di Lo è stato fatto di tutto. È stata soprattutto trasformata, decontestualizzata, mistificata, fatta crescere, responsabilizzata, sempre de-vittimizzata, a volte in maniera pericolosa e in fondo, della bambina abusata dal patrigno pedofilo, nell’immaginario anche dei tantissimi che non hanno mai letto il libro, è sopravvissuta praticamente solo della ragazzina smaliziata e seducente, diventata un’icona globale di sensuale e consapevole precocità. Lo sguardo maschile su di lei ha senz’altro giocato un ruolo fondamentale (gli adattamenti più famosi sono stati realizzati esclusivamente da uomini) nel portare avanti l’eredità dell’immagine di Lolita. La ragazzina provocante piace (e vende).

E questo spiega anche il perché di quel blurb in quarta di copertina. È il mercato. È stato fin da subito chiaro che la ragazzina sensuale vendeva. Che la storia d’amore è più spendibile della storia dell’abuso su minore, che l’adolescente adescatrice è sexy mentre il senso di responsabilità di un adulto nei confronti di un minore non lo è, non è merce, e non c’è cosa meno attraente della colpevolizzazione del desiderio.

Molto probabilmente a Nabokov il podcast avrebbe fatto orrore, (come credo avrebbe detestato la metà delle cose che hanno fatto con il suo personaggio), ma questo lavoro di ricerca, appunto, parte di quell’orrore ce lo racconta. È un peccato che non ci sia la possibilità di tradurre e far girare i podcast in altre lingue, a livello editoriale è ancora un’operazione non sostenibile. In ogni caso in Italia forse non siamo pronti a ricevere un prodotto del genere.

Diamole voce

Ho provato a sondare scrivendo un post su facebook su questo argomento e sono stata immediatamente attaccata come se tutta l’operazione fosse sostanzialmente un atto di lesa maestà («Lolita va solo letta»), diversi commenti di sedicenti esperti dell’opera assolutamente contrari a considerare Lolita una vittima ma anzi, l’unica artefice del suo disgraziato destino (qualcuno ha scritto «Lolita si rovina la vita da sé, nella relazione che instaura con Quilty» una frase che avrebbe fatto saltare Jamie Loftus sulla sedia), insomma mi pare che per molti Lolita sia meglio lasciarla dove sta, cristallizzata nell’immaginario della ninfetta che fa morire di desiderio l’uomo di mezza età, lui sì poveretto vittima della sua passione.

Eppure forse Lolita una voce sua se la meriterebbe. (Pia Pera ci aveva provato, ma il suo romanzo Diario di Lo alla Loftus non è piaciuto, lo cita solo en passant). Dopo 65 anni e dopo tutte queste manipolazioni dovremmo quantomeno alleggerire Dolores dalla responsabilità di essersi cercata un destino che non aveva assolutamente voluto. Una volta, riferendosi a Lolita, pare che Saul Bellow abbia detto: «Mettiamo pure che non sia una cosa troppo orribile che uomini di mezza età copulino con le bambine, ma bisogna proprio che ne facciano filosofia? Io sarei capace di scrivere un libro migliore dal punto di vista di Lolita». Siccome Saul Bellow purtroppo è morto senza dimostrarcelo e siccome invece è una cosa piuttosto orribile che gli uomini di mezz’età copulino con le bambine, il nostro tempo gliela doveva una forma di risarcimento alla piccola Lo. E questo podcast in un certo senso è quello che prova a fare.

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