Quando avevo sei anni avevo inventato una magia. Esistevano barbie che cambiavano colore sott’acqua, sirene bellissime, e pensai di poter fare lo stesso. Sarei diventata carina. Immergevo la testa nella vasca per più tempo possibile – o sotto la doccia, in mare, nei fiumiciattoli – ed ecco fatto. Un trucco perfetto, pensai: i miei compagni avrebbero notato meno che non volevo indossare i pantaloni, ma solo vestiti giganti; che pettinarmi i capelli era fuori discussione; che avevo la panciotta e non sapevo bene come ridere. I dolori dei bambini sono profondi e terribili. Mi sono bruciata la schiena molte volte, a forza di guardare giù, in mare; mi ha fatto male il collo mentre cercavo con ostinazione una pozza abbastanza fonda nel fiumiciattolo dove giocavo. Ci sono scivolata dentro spesso, ghiacciandomi mani e piedi.

L’acqua salvifica

C’è qualcosa, nell’immaginario occidentale, che lega il dolore, l’acqua e le parole. Nella magia popolare italiana, l’acqua era usata per liberare dal male. Il primo bagno del neonato veniva fatto in acqua e vino, per rinvigorirlo; si usavano acqua e sale sul maiale che o non ingrassava o dimagriva; il cordone ombelicale veniva fissato con una pietra in mezzo al torrente in modo che il fiume vi scorresse attraverso, gonfiandolo. L’acqua è da sempre salvifica, curativa.

Si pensi al rito di San Giovanni che ancora oggi molti fanno: nella notte del 23 giugno si raccolgono erbe e fiori, lasciandoli a mollo in una bacinella fino alla rugiada del mattino. L’acqua ottenuta dall’infusione viene usata per ferite e dolori, anche per quelli di cuore. Si pensi all’acqua di Lourdes, sparsa sul corpo o presa in boccette per i cari ammalati. Al rito contadino del togliere il malocchio mettendo una goccia d’olio in un piatto pieno d’acqua.

Oggi l’acqua resta purificante anche in altri campi: bere tanto per liberarsi dalla ritenzione idrica; partorire in vasche per non creare traumi al neonato; curare dolori con i bagni termali. Esiste addirittura la talassoterapia e la delfinoterapia.

Elemento femminile

La storia di acqua e dolore si ripete in altri esempi. C’è l’acqua nei tarocchi, collegata al femminile, alla luna, all’emotività; il mito di Narciso che si ama e affoga; i fiumi infernali, Acheronte, Stige, Flegetonte, Cocito; la balena di Melville e il “Water water anywhere/ Nor any drop to drink” di Coleridge.

L’acqua che per Shakespeare era ancora un «andare per mare» per espiare qualcosa, come nei classici. Per i Romantici invece è un elemento femminile e tentatore, che richiama all’avventura: uno strumento per realizzarsi. Nelle maestre come Virginia Woolf, l’acqua delle onde nel suo The Waves non solo ispira il ritmo della storia ma trascina verso l’ultima trasformazione della vita: la morte.

In To the Lighthouse è l’elemento con cui ci si vuole fondere, annullandosi. Anne Sexton usa spesso l’acqua come luogo di contatto mistico, come il sesso («Ci siamo denudati fino all’osso/ e insieme nuotando risaliamo il fiume,/ l’identico fiume chiamato Possesso / e vi sprofondiamo insieme. Nessuno è solo”). E la tradizione non si ferma.

In La cronologia dell’acqua di Lidia Yuknavitch (Nottetempo), una donna passa attraverso un dolore gigantesco: partorisce una bambina già morta. È una “bambina d’acqua”, come la chiamerebbero in Giappone, ma se là “esistono rituali per le madri e le famiglie”, cose simili in occidente sono impossibili – ed è così che Yuknavitch il suo rito di guarigione se lo fa da sé.

Snocciola ogni momento in cui il dolore l’ha accompagnata nella vita: la vediamo bambina, con la sorella grande presa a cinghiate dal padre, violentata, con una madre alcolista che non ha salvato né sé stessa né le figlie; la vediamo fuggire all’università, poi mandare in fumo la carriera da nuotatrice e la borsa di studio, immersa nella vodka e nelle droghe; la vediamo nei suoi matrimoni disperati; scontrarsi coi corpi; trovare la scrittura quando crede che le sue uniche caratteristiche distintive siano «tette culo e bionda». Yuknavitch si ostina a dimostrare qualcosa: che può essere amata, ma che nessuno vuole farlo. In ogni passaggio della storia dell’autrice, è l’acqua ad accompagnare ogni dolore, a plasmarlo con pazienza come fa con i sassi.

La liberazione

L’acqua che libera Yuknavitch è quella della prima doccia dopo che la figlia nasce morta; è il suo venire così forte da schizzare dopo che, finalmente, ha detto al padre che lei se ne va via, «fino a quella notte non sapevo che il corpo di una ragazza potesse farlo. Una sborrata»; è il nuoto da bambina, e poi la birra, la vodka, lo sputo contro Philip, il primo marito, in una delle tante litigate alticce, e la neve che avvolge i suoi passi che si allontanano; a salvarla è l’acqua della corrente che regge il tronco sul quale piange, durante il suo matrimonio; è il luogo dove il fiume sfocia nell’oceano, nel quale spinge le ceneri della figlia; è l’acqua del mare che si vuole prendere suo padre, portandolo alla soglia dell’annegamento; è il lago dove Ken Kesey le dice di suo figlio Jed, anche lui morto, e due vite di scrittori e genitori luttuosi si incrociano, «Le morti dei nostri figli nuotavano in acqua con noi, ci lambivano, ci tenevano uniti e fluttuanti»; è l’acqua violenta delle rapide, dove si lancia con il kayak perché troppo fatta; è nelle lacrime liberatorie tra le braccia di una mistress che chiama “mamma”, «Il pianto di qualcuno che abbandona il corpo. E poi mi frustava dove era nata la mia vergogna e dove mia figlia era morta, e io allargavo le gambe il più possibile per accoglierla»; l’acqua è quella con cui inonda il letto del suo succo grazie a Kathy Acker; l’acqua miracolosa che circonda la madre texana che, nuotando, diventa leggera come un cigno; è quella degli idranti usati per lavare i graffiti durante il servizio di manutenzione stradale, dopo l’arresto per guida in stato di ebbrezza; è nella piscina dove nuota, tonda e veloce, con suo figlio Miles in grembo, portando «la morte e la vita nella stessa frase. Nello stesso corpo».

L’acqua che la salva e la lava e la trasforma sta in tutti quei luoghi che sembrano una morte certa, ma dove si nasconde una strana rinascita.

Lutti e sfortune

Anche le parole cambiano la natura delle cose, poco a poco. Favret-Saada, antropologa che studiò la stregoneria nel Bocage francese, disse che l’unico fatto empirico che fosse stata in grado di registrare davvero durante la ricerca di campo erano state le parole. Non quelle comuni, però: nel Bocage c’erano parole di potere, che erano in grado di imbrigliare un destino e ribaltarlo. Risolvevano i lutti, i drammi, le sfortune.

Nei riti popolari, la parola detta e il gesto compiuto sono della stessa identica natura: concreta, pratica, misurabile. La parola e l’azione trattengono il dolore (il trauma, l’esclusione sociale, il lutto) in una dimensione altra, al di fuori della storia: e dunque fuori dalla vita. Là, solo là, quel dolore non può fare del male. Anche le parole diventano amuleti: oggetti che ci ricordano che quel dolore è chiuso in un altrove, fuori dal corpo e dalla porta di casa.

Forse non è un caso che in molti dei casi letterari citati, l’acqua e le parole sembrano far parte della stessa operazione. La lingua che può trasformare il dolore è quella che si sfarina, si scioglie. Procedendo inesorabile verso un punto sconosciuto, fa quello che fa la corrente sui sassi. Testi ad alta temperatura, insomma, che toccano la poesia e che, per questo, sono in grado di creare un ritmo che incanta, facendo deflagrare l'io e ricomponendolo.

C’è qualcosa che lega l’acqua, le parole e il dolore. Mi sono rivista da adolescente – sovrappeso e senza maschi, con gonnoni e corpetti neri, ancora incapace di ridere, scoprire la Wicca e le sue corrispondenze di colori, erbe ed elementi. Mi interessai di folklore. Scoprii che un tempo in Romagna, durante la notte di San Lorenzo, i contadini raggiungevano il mare e ci si buttavano, insieme alle bestie da lavoro.

Facevano almeno sette bagni. Serviva loro a stare bene. Pensai alla seienne che ero e a ciò che era ancora depositato di quei miei antenati nelle acque dove trattenevo il respiro per sembrare più bella. Quello fu il periodo dove provai a scrivere parole diverse sui quaderni di scuola. Quando arrivava la scrittura – ed era uguale uguale a quello che faceva la magia.

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