Quando sulle agenzie di stampa e sui social ha cominciato a rimbalzare l’immagine di un Terence Hill impegnato nel girare la sua ultima scena di Don Matteo, sùbito è parsa evidente la portata del momento; un frammento a suo modo storico, spiazzante per quanto ampiamente annunciato, doloroso (per i milioni di fan) per quanto inevitabile e forse persino salutare. Il passaggio di consegne del sacerdote più amato della televisione italiana avviene nel pieno di una trasformazione del comparto fiction del servizio pubblico e assume significati più ancillari e laterali di quanti ne possa lasciare presagire il nucleo narrativo della storia vero e proprio.

Passare dall’82enne Terence Hill al 50enne Raoul Bova è un cambio generazionale morbido e radicale allo stesso tempo e dice molto soprattutto di come sia cambiato il paesaggio della televisione generalista degli ultimi vent’anni, se pensiamo che il subentrante ha rappresentato per una lunga stagione la punta di diamante della fiction Mediaset, prestando il suo volto pulito agli eroi civili della concorrenza.

L’attore romano di origine calabrese prenderà il nome di Don Massimo (si dice con la “benedizione” dello stesso predecessore) e ancora rimane da capire quanto un brand così riconosciuto anche internazionalmente potrebbe risentirne. Don Massimo non indosserà la tonaca, non scorrazzerà tra la canonica e i borghi del centro Italia in bicicletta, ma in moto, in un aggiornamento semantico di alcuni codici che si erano andati consolidando negli anni e di cui solo con il tempo potremo cogliere gli effetti.

Vent’anni di don Matteo

Ma cosa ha rappresentato Don Matteo per oltre vent’anni? Incastonata dentro i valori di Lux Vide, custode della tradizione e dell’impianto rassicurante della serialità di Raiuno, la serie ha svolto una funzione in linea con le antiche missioni del servizio pubblico, fedele a sé stessa eppure capace di apportare piccole, ma significative innovazioni di linguaggio e di leggere a suo modo le trasformazioni e le turbolenze di un sistema.

Sin dalla scelta di Mario Girotti (il vero nome di Terence Hill), ancora fortemente legato all’immagine dell’agile e scaltro pistolero compagno di Bud Spencer nei mitici spaghetti-western degli anni Settanta e Ottanta, appariva chiaro l’intento pop della serie, la sua volontà di spaziare su un universo ampio, persino di redimere e domare, passando in un colpo solo dalle scazzottate alle carezze, viatico imprescindibile per una prima serata Rai di quegli anni (e in fondo anche di questi più recenti). Don Matteo nasce e prospera come un giallo classico, ma di quei gialli soft in cui le dimensioni della commedia, del melodramma, persino della linea teen (se guardiamo ad alcuni innesti delle ultime stagioni, con una strizzatina d’occhio ai più giovani con la presenza di Fabio Rovazzi nella dodicesima edizione) finiscono poi con il prendere il sopravvento.

Dichiaratamente ispirato alla figura di padre Brown e alle detective stories di Chesterton, Don Matteo ha saputo in realtà slegarsi con arguzia dalle gabbie classiche del giallo deduttivo per navigare nel mare aperto dell’ibridazione e quindi di un generalismo più remunerativo in termini di pubblico. Se l’elemento religioso è la miccia che innesca l’azione del protagonista, intenzionato – parrebbe – più a ricondurre le anime sulla “retta via” che assoggettarsi alle procedure tipiche delle indagini, il contorno assume spesso tratti macchiettistici, persino comici, nella figura dell’inseparabile maresciallo Cecchini (Nino Frassica, e chi altro se non lui?) e più in generale del locale comando dei carabinieri.

Tic di provincia

La provincia italiana, con i suoi ritmi, i suoi tic, i piccoli grandi slanci d’umanità dentro il giardino chiuso e limitato delle proprie ossessioni, è l’altra grande protagonista del successo di un prodotto come Don Matteo. Gubbio prima e Spoleto poi, come “piccoli mondi antichi”, idealizzati e sospesi nel tempo, straordinario veicolo di attrazione turistica. Sebbene nelle prime stagioni Gubbio venga raramente nominata, quell’immaginario da Italia centrale slow ricca di storia e tradizioni lascia subito trasudare tutto il proprio potenziale. Non è un caso, infatti, che Don Matteo (insieme al Commissario Montalbano e la sua fittizia Vigata) sia la fiction generalista italiana di maggior successo all’estero: non solo in Europa, dove la prossimità culturale può apparire più scontata, ma dal Giappone all’Australia al Sudamerica le vicende del sacerdote umbro hanno conquistato mercati e contribuito a rilanciare la serialità nazionale sullo scenario globale.

Non solo: in alcuni casi, il prodotto è stato venduto come format, ovvero adattato nei singoli contesti nazionali, come avvenuto in Polonia. Don Matteo ha incarnato il presidio confortante di un sistema televisivo in smottamento, frantumatosi negli ultimi anni negli infiniti rivoli dei canali tematici e delle piattaforme streaming; con la sua ripetitività narrativa, la scontatezza di alcune formule e l’inevitabile trionfo del bene sul male come unico e ultimo spazio cerimoniale, la fiction è stata il baluardo dell’istituzione, il collante di ère televisive, ancorata nel passato, ma abile a interagire con nuovi linguaggi come il product placement (gli innesti di marchi pubblicitari nel contesto narrativo della storia) e le sue evoluzioni.

È questa l’eredità che Bova si appresta a raccogliere, quella di un brand consolidato prima ancora che una serie tv, quella di un universo simbolico riconosciuto, semplice, magari banale, ma senza dubbio portatore di radicamento e identità.

 

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