«Hai voluto la bicicletta?». Nell’elenco dei dialoghi immaginari che mi girano in testa, in cui ovviamente sono la regina della dialettica e vinco con le armi della retorica le battaglie femministe degli ultimi decenni, al primo posto ce n’è sempre uno che inizia con questa domanda. E nel botta e risposta immaginario, ci sono sempre io che di getto rispondo: «Ma anche no!». Perché c’è un diritto di ogni madre che mi preme riaffermare: quello di potersi dichiarare stanca, sfinita, alla frutta, senza che qualcuno ti ribatta come un mantra odioso che i figli, beh, li hai voluti, e ora gestirli è un problema tuo.

«Ma tu quando scrivi?», mi chiedono con un misto di meraviglia e pietà le persone quando scoprono che faccio la professoressa di lettere e ho tre figli (lo chiedono e me, la madre, e confesso che non ricordo interviste in cui la stessa domanda sia stata rivolta a un padre scrittore).

Scrivo di sera, spesso di notte, la mattina all’alba e nei fine settimana. Eccola la mia risposta, la nuda verità. Ed ecco perché portare a termine il mio ultimo romanzo è stata una faccenda più che altro di privazione di sonno, un impegno fisico e mentale non indifferente in cui è stato più difficile trovare la concentrazione che il tempo. Sì, perché ho la testa satura. Casa, figli e lavoro sono il triangolo delle Bermuda in cui ogni giorno rischio di annegare.

Il riscatto delle donne dei tabacchi

Proprio per questo, nelle Donne dell’Acquasanta ho voluto scrivere di una categoria di lavoratrici particolare, quella delle sigaraie, operaie a cottimo che a fine Ottocento lavoravano nella Manifattura tabacchi di Palermo.

La loro è una storia di riscatto tutta al femminile, che restituisce alle operaie la dignità di un ruolo marginale, relegato a fare da sfondo della grande storia, ma che ha tenuto in piedi l’economia di tre delle borgate marinare più popolose della Palermo dell’epoca.

Attraverso le vite delle mie tabacchine ho voluto raccontare la mia di rabbia, che forse era anche la loro, quella di donne lavoratrici costrette ad andare in fabbrica con i figli neonati legati al petto o sulla schiena.

Donne che spesso portavano a casa l’unico stipendio della famiglia e che, terminata la giornata di lavoro, tornavano tra le mura domestiche e si occupavano di tutte le incombenze da sole, senza l’aiuto di mariti e padri. Donne costrette a fare il doppio del lavoro per campare tutti.

Soffocamento

A oltre un secolo di distanza, io non mi sento molto diversa da loro: con un impegno a scuola a tempo pieno, tre figli e un marito imprenditore, la sensazione che provo di più è quella del soffocamento. Mi manca l’aria, una tregua anche minima in giornate che, come quelle delle tabacchine, sono spesso infinite.

Avere figli, soprattutto se si ha un lavoro full time, significa per le madri destinare a sé stesse la porzione più avara di spazio e di tempo, e questo, credo, in risposta all’impulso apparentemente innaturale di sottrarre tutto a sé stesse.

Un impulso che nei secoli mi pare sia stato sacralizzato, trasfigurato in una virtù, nella narrazione agiografica della madre come santa da venerare. Mettere sempre sé stesse all’ultimo posto per abnegazione, sacrificarsi nella speranza di essere amate e di apparire perfette: una tendenza tutta femminile che ci ha rese le peggiori nemiche di noi stesse nella speranza di essere accettate. Avere figli, per quanto mi riguarda, è stato il modo in cui ho scoperto che il bilancio fra amare, donarsi e sentirsi ricambiata è sempre in passivo.

Sono una mamma soddisfatta? No. E con questa risposta non mi sento un mostro, ma una donna pragmatica e realista. Faccio i salti mortali da quindici anni per restare a galla, tra baby sitter, nidi e scuole private.

E senza attaccare con la litania di un’Italia priva di una politica a sostegno delle famiglie degna di questo nome, quella della scuola privata, vivendo a Palermo, non è stata una libera scelta ma l’unica che mi consentisse di continuare a lavorare.

Essere madri

Alla mia, di scuola, non ho mai voluto rinunciare: insegnare è la mia vita, sono una prof anche fuori dalla classe, una che ci crede – ma si può forse fare questo lavoro senza crederci? – che partecipa alla vita culturale della sua città anche trascurando i figli a favore degli alunni, specie quelli meno fortunati. Quante volte non sono stata presente ai colloqui dei miei ragazzi a scuola perché avevo quelli delle classi? Tante, forse troppe.

Credo di essere una buona madre? No. E non lo dico con falsa modestia. Non lo sono perché vivo col costante senso di colpa di non esserci abbastanza. Perché se provi a lavorare, scrivere, leggere e tenerti aggiornata, agli occhi del mondo sei un’egoista che dovrebbe stare più a casa. Nel 2022 come nella Palermo di fine Ottocento.

Ma io non ho mai accettato di scegliere fra il lavoro e i figli. E alla soglia dei 47 anni sono arrivata arrabbiata, frustrata e con un rancore sordo verso una società ipocrita che ci vuole belle, in ordine, performanti, brillanti e soprattutto felici e appagate.

Nella Mistica della femminilità, un reportage del 1963, Betty Friedan racconta, dati alla mano, un fenomeno inquietante: le donne americane degli anni Cinquanta che hanno scelto volontariamente, dopo gli orrori della guerra, di dedicarsi solo a casa, marito e figli sono quelle più interessate dal consumo di psicofarmaci e da alti tassi di alcolismo e depressione.

Com’è possibile, mi chiedo? Non dovrebbero essere le madri lavoratrici quelle più stressate? Io non me la spiego questa fotografia, non trovo una quadra alla questione della conciliazione famiglia-lavoro (una quadra che, ci tengo a sottolinearlo, solo le donne sembrano essere chiamate a trovare).

Quello che penso, però, è che ci sia un urgente bisogno di interrogarsi sulla maternità con onestà, smantellando qualunque mistica o dicotomia, accettando di colloquiare con la parte più intima, oscura e vischiosa di noi stesse. Per imparare a riconoscere i nostri bisogni, prima che i nostri doveri, guardandoli in faccia e chiamandoli per nome.


Il libro di Francesca Maccani, Le Donne  dell’Acquasanta, è uscito per Rizzoli il 7 giugno.

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