«Se il liberalismo classico è tanto migliore delle sue alternative, allora perché fa tanta fatica a imporsi nel mondo?». Così l’Economist in un articolo sulla “minaccia della sinistra illiberale”. A noi però sembra il meme del signore anziano che porta il cellulare a riparare e, sentendosi dire che il telefono non è rotto, scoppia a piangere: «Ma se il telefono non è rotto, allora perché i miei figli non mi chiamano?». 

Piuttosto che accettare l’amara verità, ad esempio che il programma liberale malgrado i suoi evidenti successi (benessere materiale, diritti formali) ha perso molta della sua attrattiva per via dei suoi altrettanto evidenti fallimenti (ineguaglianze, inquinamento, disagio sociale), talvolta preferiamo rifugiarci in un’illusione. L’Economist si stupisce di vedere ovunque cose inspiegabilmente rotte, per cominciare dalla sinistra. E se a essere rotto fosse invece proprio il liberalismo?

Reagendo allo stesso articolo, su queste pagine la filosofa Giorgia Serughetti ha denunciato un equivoco: altro che illiberale, quella della sinistra è una battaglia per la giustizia sociale. I maligni diranno che, illiberale, la sinistra lo è sempre stata.

Nel 1872, i comunisti convocavano il loro congresso all’Aja, ben sapendo che l’anarchico Bakunin non avrebbe potuto recarvisi, al fine di espellerlo dall’organizzazione internazionale dei lavoratori: agli atti, alcune sue lettere e opinioni ritenute inaccettabili. E nel 1953, alla morte di Stalin, bastò che Picasso ritraesse il leader sovietico in modo non conforme all’iconografia ufficiale per creare un gigantesco scandalo, che fece rotolare molte teste (precisiamo: in senso figurato). D’altronde la rivoluzione, diceva Mao, non è un pranzo di gala. Illiberale, la sinistra? «Ma ha anche dei difetti» risponderebbe il coro dell’armata rossa.

Progressisti illiberali

Non è certo quella sinistra, rivoluzionaria e comunista, di cui si preoccupa l’Economist, bensì quella incarnata dal Partito democratico americano e dalle sue succursali europee, che noi chiamiamo “centrosinistra” e loro “liberal”, visto che è in quel modo che da due secoli vengono chiamati i progressisti nel mondo anglosassone. Un Partito democratico che, sotto la guida di Joe Biden, prende sempre più a cuore gli interessi delle minoranze etniche (complessivamente circa il 40 per cento della popolazione americana) e sessuali (circa il 5.6 per cento), che unite al terziario urbano e alle donne bianche istruite vanno a costituire una solida base elettorale. A tenere assieme classi e interessi tanto diversi ci sono dei valori di inclusione e giustizia sociale, spesso contrapposti al traballante privilegio del maschio cis bianco eterosessuale (circa un terzo della popolazione).

Ma perché questa sinistra viene definita illiberale? Il riferimento dell’Economist è ai fenomeni di indignazione e protesta che vediamo accadere quotidianamente sui social e che da lì (in America perlomeno, e nello specifico nel mondo editoriale, giornalistico e universitario) influenzano carriere, reputazioni, opinioni, consumi culturali. I fini saranno pure encomiabili, sono i mezzi a essere drastici.

Il caso più recente è quello delle dimissioni del professor Peter Boghossian dall’università di Portland, al termine di quella che lui descrive come una lunga sequenza di pressioni e molestie. Il fatto che alcune sue idee siano criticabili o persino agli antipodi dalle nostre (il suo motto è “Waging ideological warfare against the enemies of western civilization”) non basta a convincerci che questi meccanismi siano salutari. 

Ma se si trattasse solo di questo bisognerebbe concluderne che a essere illiberale oggi è tanto la sinistra quanto la destra, che si indigna, protesta ed epura pure lei, quando a essere toccati sono i suoi valori: abbiamo a che fare con un fenomeno trasversale determinato da una mutazione tecnologica che non siamo in grado di gestire. Con la differenza che la destra è meno rappresentata nel mondo editoriale, giornalistico e universitario, in quanto portatrice degli interessi di altri gruppi socioprofessionali. I liberal, sovrarappresentati nella cosiddetta classe manageriale e nelle amministrazioni, si trovano spesso in posizione di dirigere, prescrivere, insegnare, il che non aiuta a renderli simpatici presso il resto della popolazione.

Il problema, secondo l’Economist, è che la sinistra democratica disponeva, fino a qualche tempo fa, degli anticorpi necessari per evitare certe degenerazioni e rigidità, proprio grazie… al liberalismo, che ha dominato gli ultimi due secoli di storia occidentale, dai tempi di Montesquieu e di Kant. Ad esempio l’idea che sia possibile mediare i conflitti attraverso il dialogo e il confronto di idee, invece che mettendo a tacere il proprio interlocutore. Per non parlare della pretesa, che oggi suona come un lusso vergognoso, di sospendere il giudizio sulle colpe di una persona in assenza di prove solide e incontrovertibili (o magari sospenderlo del tutto, ma non chiediamo troppo).

Splendori e miserie

I principi del liberalismo classico sono sicuramente un’eredità preziosa, un patrimonio di tecnologie sociali che hanno contribuito all’uscita dei popoli europei dall’antico regime, con le sue ingiustizie e le sue violenze. E la rivendicazione di una maggiore giustizia sociale non è altro, come ha acutamente notato Mattia Ferraresi su queste pagine, che una prosecuzione di quello stesso programma, fissato ad esempio negli articoli della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789.

Ma se oggi quei principi vengono rimessi in discussione è perché, come già notava Serughetti, dietro alla loro forma sembra mancare talvolta un po’ di sostanza. Questa era la critica originaria fatta dai marxisti, che denunciavano nella visione liberale un’ideologia borghese, incapace di estendere i diritti oltre la sfera giuridica fino a quella economica, quindi ideologia passivamente complice dell’oppressione.

Lungo tutto il Novecento, i teorici dell’anti-imperialismo hanno insistito sullo scarto tra le promesse e la realtà della modernizzazione liberale. Bastava leggere questi autori per avere la risposta alla candida domanda dell’anziano col telefono rotto: «Se il liberalismo classico è tanto migliore delle sue alternative, allora perché fa tanta fatica a imporsi nel mondo?». Forse perché la sua inscalfibile certezza di essere migliore spesso sfocia in un interventismo disastroso, con esiti spesso… illiberali.

Ed è qui che liberali liberali e liberali illiberali finiscono per specchiarsi. Quella descritta dall’Economist è una sinistra che subisce la tentazione di liberarsi di quelle che ritiene essere delle zavorre – la presunzione d’innocenza, il rispetto dell’avversario, il dialogo socratico – in quella che le appare come una lotta impari contro ingiustizie radicate. Non è altro che una conseguenza della delusione che ampie fasce di popolazione provano nei confronti della promessa liberale. Questo vale per i neri americani, che da decenni attendono l’eguaglianza sostanziale che è stata loro promessa; ma anche per molte donne che trovano ostacoli alle loro aspirazioni professionali. La civiltà liberale ha finito per impiccarsi alle sue promesse e ora inevitabilmente subisce l’onda d’urto della delusione che ha scatenato. È una mutazione, la variante delta del liberalismo.

Cosa resterà del programma liberale? Alcuni suoi principi sembrano già obsoleti. Provateci pure a far quadrare il cerchio, ma non c’è nessun modo di garantire un’assoluta libertà d’espressione nell’attuale ecosistema informativo, con la sua incontrollabile potenza di decontestualizzazione, che ha potenziato il pettegolezzo, perfezionato il dossieraggio, democratizzato il ricatto e raffinato la gogna. Eppure qualcosa di quella civiltà alla deriva, in lotta contro sé stessa, bisogna salvarlo a ogni costo, come argine alle sue stesse degenerazioni: la consapevolezza che la politica serve a garantire pace e giustizia nella diversità, non a dirigere l’umanità verso qualche destinazione morale assoluta che giustificherebbe ogni mezzo.

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