Emma Nolde: «Scrivo canzoni per imparare a fare cose per me difficilissime. Lasciare andare? È un esercizio»

Emma Nolde ha 25 anni e vive nel paese toscano in cui è nata, San Miniato, 28.000 abitanti, in una dimensione dove ancora potersi concedere l’ossigeno e il tempo necessari per sviluppare le proprie idee. In cinque anni e tre album, si è affermata con una voce inconfondibile, potente e indipendente. Performer of the Year ai Billboard Women in Music 2025, Emma Nolde ha appena pubblicato il suo nuovo singolo Quello che deve essere sarà, un manifesto sull’imprevedibilità e la necessità di lasciare che la vita accada. Nel suo pezzo Sirene canta «freghiamocene di tutto, ora puoi essere quello che vuoi», mentre in quest’ultimo singolo canti «lascia che sia, molla la presa, quello che deve essere sarà». Questo nuovo pezzo è un superamento di quello che cantava un anno fa, oppure le due cose sono entrambe valide? Tante delle cose che scrivo sono delle spinte per imparare a fare cose per me difficilissime: io sono una persona che non sa lasciar andare. Mi sembra che, alla nostra età, sentiamo di dover lottare con i denti per conquistare un posto nel mondo. Passo tanto del mio tempo con la testa bassa, a pensare a ciò che faccio nella vita, costruendo una quantità di sovrastrutture folli. Molto prima dei paragoni, di sapere che c’è qualcuno a cui non andiamo bene, il punto è considerare sempre “l’altro” ma non “gli altri” in quanto massa giudicante. Lasciare andare le cose è un esercizio per riuscire ad essere chi siamo e chi vogliamo essere, per questo entrambe le canzoni vanno nella stessa direzione. Quello che intendo dire con Quello che deve essere sarà è semplicemente: lasciali parlare. Questo singolo, slegato dall’album NUOVOSPAZIOTEMPO, sembra proprio la testimonianza di una presa di coscienza rispetto al fatto che crescere significhi imparare ad accogliere la vita che accade, anziché aspettare che sia la vita ad accogliere noi per come abbiamo immaginato che questa dovesse essere. L’aspetto più interessante è che non ne parla come di una resa passiva ma, al contrario, come un atto di coraggio. Mi ha molto colpito scoprire che Valentino Rossi abbia deciso di smettere di correre quando ha capito che poteva farsi male. Mi vengono un po’ gli occhi lucidi, perché con l’arrivo dei 25 anni inizi a vederti da fuori in modo più lucido. La gamma di grigi si infittisce, fai fatica a scegliere una direzione in modo netto e verticale come prima, inizi a considerare il giudizio delle altre persone. Accogliere quella massa giudicante è pericoloso, perché si rischia di dare potere ai confronti, alle piccole invidie e gelosie, si rischia di perdere se stessi. Ho la sensazione che lasciare che le cose accadano è il modo migliore affinché accada ciò che voglio davvero. Quindi no, non è affatto una resa: è la sfida più grande, una concessione di ossigeno. I Cani tornano live, Niccolò Contessa resta un antidivo, ma si prende quel che è sempre stato suo La prima strofa sembra un piccolo manifesto dell’esporsi: «Sarò onesta fino ad arrossire… perderò il controllo… mi voglio vergognare». Esporsi, anche nelle fragilità, è una forma di liberazione? Quando arriva questo momento dell’anno iniziamo a darci degli obiettivi pratici per sentirci in pace con la coscienza, ma sono sempre irraggiungibili. Scrivere, che siano canzoni o liste di propositi, è una pratica che mi aiuta a visualizzare la paura del disordine e fuggire. Allora torna l’esercizio di lasciar andare, accettare che non siamo macchine, che non possiamo controllare tutto. Quindi sì, esporsi per quel che si è significa guardare in faccia le cose difficili. Arrossire – ad esempio – è inevitabile per me, quindi giurarmi di essere onesta fino ad arrossire» è un modo per accettarmi. A proposito di esporsi: in passato ha rivendicato l’uso della parola “frocia”, un modo per ribaltare in modo trasformativo il valore negativo di un insulto. Mi ha fatto pensare che ci educano a scappare da tutto ciò che può farci soffrire, mentre le sue canzoni sembrano voler dire che possiamo riappropriarci del nostro dolore, delle parole difficili, della fatica. Credo moltissimo in questo potere trasformativo, eppure non nego che la parola lesbica – ad esempio – cade con una gravità completamente diversa quando la pronunci alle orecchie degli altri. Non è una parolaccia, eppure ancora non riesco ad essere indifferente al fatto che per qualcuno abbia quel sapore. Vorrei essere in grado di parlarne con mia zia esattamente come ne parlo con lei, invece, inevitabilmente, c’è qualche residuo in me che continua a percepire la parola “lesbica” come la percepiscono gli altri. A volte ancora indosso vestiti diversi in base al contesto, come facevo al liceo, per mascherarmi, ma adesso sto provando a fare un’opera di svestizione completa. Taylor Swift ha risolto il giallo della morte di Ofelia Interiorizziamo il pudore, la vergogna. Ci auto-rimproveriamo! Le dirò, a me fa piacere notare questo processo in me, riconoscere che molte resistenze – che alcune persone considerano superate - sono vive e lottano dentro di me, sprigionando forza e consapevolezza. In effetti ha detto che questo singolo è una lettera a sé stessa e, pensandoci, molte sue canzoni mi sembrano lettere, soprattutto di perdono. Dovremmo imparare a perdonarci di più? Mi sono accorta che scrivere canzoni mi pone nella condizione di immaginare le risposte ad ogni frase che dedico, quindi a non dover combattere, ma piuttosto a prendere in considerazione il punto di vista dell’altra persona. In questo senso sì, le canzoni possono essere opere di perdono. Anche se il piano narrativo e quello reale non sono mai aderenti, quando discuto con qualcuno non mi interessa arrivare al punto in cui mi si dia ragione, ma spero di raggiungere una sintesi che tenga in considerazione le due posizioni. «Nei concerti non mi interessa essere perfetto: i momenti più belli sono quelli di fragilità» Scrivere ha un potere terapeutico e immaginifico quindi. In questo contesto di tecnologie autogenerative, il fatto che immaginare e fantasticare sia la cosa più umana e insostituibile che possiamo fare, mi emoziona molto. Immagino che ci porteremo a immaginare sempre di più. A proposito di questo momento storico, ci sono molti elementi nella sua musica che sembrano andare in controtendenza al nostro tempo: brani lunghi, spazio alla parte strumentale, così come il fatto che dentro ogni sua canzone sembra ce ne siano sempre più d’una, perché la produzione musicale evolve continuamente, come se ogni pezzo fosse un viaggio. Come si sviluppa il processo creativo? Le canzoni sono l’unico spazio in cui io mi prendo il tempo che ci vuole. Aspettare tanto tempo è un modo per mettere alla prova l’idea. A me arrivano, all’improvviso, delle frasi in testa che diventano luminose, ma poi c’è tanto lavoro: le posso provare chitarra e voce, con gli archi sotto, con una batteria. Ci posso mettere tutto il tempo che voglio, anche tre o quattro mesi, perché quelle tre frasi per me sono così importanti che devo trovare il modo migliore per cantarle. Questo approccio rifiuta la narrazione della canzone scritta in dieci minuti. Femministe e Gen Z: chi sono le cantanti che stanno cambiando le regole di TikTok È una narrazione tipica anche nei media. Penso a quando vengono raccontate storie prodigiose di lauree lampo, elevate a modello. Questa retorica di performatività scoraggia e scredita la dignità di prendersi tempo per fare il proprio percorso. Esistono storie e situazioni particolari, certo, che però noi rendiamo universali, ma non lo sono. Adesso ci sto iniziando a fare un po’ pace, ma spesso ho pensato «allora io non sono capace, perché se scrivono tutti in dieci minuti e io ci metto tre mesi, allora c’è qualcosa che non va». Critico la retorica secondo cui se qualcosa non ti riesce subito non sei portato per farla, secondo cui devi arrenderti perché il mondo può fare a meno di te. La pazienza sembra anacronistica, ma è necessaria per elaborare. Nel brano pubblicato oggi, ad un certo punto dice «io non voglio l’infinito, mi bastano tre persone». Mi dice tre persone che, in questo momento della vita, le bastano? Sono la mia famiglia di origine e quella acquisita, composta dalla persona con cui arrangio tutte le cose che scrivo e che si prende carico di una parte di me che non vede nessun altro. Le persone che amiamo di più sono proprio quelle a cui, paradossalmente, facciamo vedere il peggio di noi. E alla fine, stranamente, sono proprio quelle che continuano a non essere mai impaurite e non scappare. Questo mi basta. 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