Aleggia un cupo senso di catastrofe negli ultimi lungometraggi Disney. Due anni fa, il sequel di Frozen presentava un affresco wagneriano sulla colpa, la catastrofe e l'espiazione, tenendo assieme la sanguinosa storia della colonizzazione americana con l'incerto futuro climatico del pianeta. Un capolavoro.

Oggi Encanto offre una metafora se possibile ancora più evidente: quella di una civiltà che deve la sua prosperità alla fonte energetica non rinnovabile di una candela miracolosa, e che di fronte al suo esaurimento non ha altra opzione che iniziare a contare sulle proprie forze, imparando a cooperare.

Per oltre un’ora e mezza, l’immagine della casa magica che si fessura e si sgretola piomba lo spettatore in un attonito tremore: quelli siamo noi, quella è la nostra casa che brucia. Altro capolavoro, con una profondità che i film d’autore se la sognano. A questo punto non stupirebbe che il prossimo Disney fosse un adattamento dei Veda e ci presentasse un’allegra combriccola di indù alle prese con il Kali Yuga, l’avvento dell’era oscura alla fine dei cicli storici.

La fine della civiltà

Come siamo arrivati a questo, un colosso globale dell’intrattenimento che in mezzo ai personaggi colorati e alle canzoni ci piazza delle profezie sulla fine della civiltà occidentale? Qui si misura innanzitutto la temperatura incandescente dell’angoscia americana e si ammira inoltre la capacità della sua industria culturale di tradurre in immagini il senso del loro destino storico.

Questo fenomeno è solo parzialmente consapevole: certo non è casuale che gli sceneggiatori immaginino una delle sorelle della protagonista, la forzuta Luisa Madrigal, come incarnazione della potenza militare americana in crisi da stiramento; né che descrivano il fratello Bruno come il profeta inascoltato — economista eterodosso, ecologista radicale? — del collasso in arrivo.

Ma se Encanto appare tanto esatto è soprattutto perché si tratta di un’opera collettiva, realizzata secondo precise regole di scrittura, plasmata dalle esigenze incrociate di specialisti dello storytelling e dalle forche caudine di un potente ufficio marketing; insomma il film non è l’opera di un singolo individuo geniale ma un prodotto spontaneo dell’inconscio collettivo di una grande macchina giunta a una forma di tragica autoconsapevolezza.

Un declino inevitabile

Il sessantesimo lungometraggio Disney è principalmente un giallo da risolvere, quello di una catastrofe imminente di cui non è immediatamente chiara la causa. Perché la famiglia Madrigal sta perdendo quei superpoteri che avevano garantito prosperità e dominio per tre generazioni? Perché quei poteri — come ogni potere, da quello tecnologico a quello militare — non operano senza energia. Cosa fare se questa si estingue?

La possibilità appare del tutto impensabile all’inizio del film, proprio come all’inizio di Frozen 2 i personaggi cantavano spensierati che «certe cose non cambiano mai» — e invece cambiano, e non saranno mai più come prima. Mentre lo spettatore bambino attende semplicemente lo snodo di un intreccio finzionale, l’adulto invece trepida per scoprire come si possa inventare un lieto fine per quel declino inevitabile.

Un cambio di paradigma

In Encanto la risposta ce l’ha la protagonista Mirabel Madrigal, l’unica che di poteri non ne ha, e che proprio per questo ha un talento unico: la capacità di guidare l’intera città verso un mondo post-carbonio, fondato sulla forza-lavoro umana e su legami familiari forti. Un mondo pre-moderno, insomma.

È da almeno un decennio che i film Disney ci preparano a questo cambio di paradigma culturale. Da Monsters University (2013) a Soul (2020) il tema centrale non è più tanto come realizzare le proprie aspirazioni quanto come imparare a essere felici in un mondo in cui non potremo realizzarle, ma forse possiamo renderci utili in un altro modo.

Dove stiamo andando

E se la narratologia tradizionale insegna che una situazione di equilibrio turbata deve essere risolta ristabilendo un equilibrio, in molti di questi film ormai si dà per scontato che per i problemi che si pongono non c’è nessuna soluzione, ed è meglio passare subito a un piano B. È precisamente quello che farà Mirabel Madrigal per ricostruire le rovine dell’incanto dopo la catastrofe. Sarà un caso che le sue iniziali sono le stesse di Mad Max?

Un altro Max, il sociologo Weber, insegnava che ogni civiltà si fonda su rappresentazioni del mondo condivise, le sole in grado di fornire agli individui le motivazioni necessarie. Oggi questi immaginari li fornisce l’industria culturale americana: per capire dove stiamo andando, non c’è niente di meglio che entrare in un cinema.

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