Quello che segue è un estratto da Battere i pugni sul mondo, in libreria dal 27 gennaio edito da Keller editore.

Il prezzo dell’entrata era aumentato ancora. Davanti ai baracchini di legno ciondolavano due giovani con i dilatatori ai lobi e gli avambracci tatuati. Parlavano con la donna che vendeva i biglietti al botteghino. Ridevano, e ignoravano Tobi. Qualcuno fece cadere una bottiglia di birra. Accanto a lui c’era Marco e aveva con sé uno zaino pieno di roba da mangiare e da bere, perché così risparmiava. Patatine ed energy drink, ma almeno niente più barrette. Ora suo padre vendeva accessori per acquari tramite internet.

Passarono alcuni adolescenti, uno abbracciava una ragazza e le soffiava nell’orecchio. Lei rideva e gli tirava dei colpetti nel fianco. Si scambiarono quei gesti per un po’, finché Tobi non li perse di vista nella folla. Era così che doveva essere, pensò. La ruota panoramica girava lenta. I bambini strillavano sul brucomela. Odore di mandorle tostate e panpepato di Pulsnitz. Birra nei bicchieri di plastica. Una salsiccia giaceva a terra, era scivolata dal panino avvolta nella senape leggermente piccante. Tobi e Marco si sedettero sui gradini dell’autoscontro. Il baracchino dello zucchero filato, lì davanti, non c’era più.

Marco si era fatto crescere i capelli, ora gli spuntavano lunghi dalla testa, ma sempre pari, come quando glieli rasavano. Indossava una delle sue magliette dei Rammstein e dai pantaloni a tre quarti con le cuciture visibili pendevano decine di lacci portachiavi. Ne era orgoglioso e li accarezzava come se fossero animali domestici. Tobi sapeva che Marco era uno sfigato. Puzzava e aveva brufoli giganteschi sulla fronte e tra le sopracciglia. Diceva di voler diventare imbianchino. Alla peggio a Stoccarda, dove adesso viveva il fratello. Sempre Stoccarda. «Perché i tuoi si sono separati?» chiese Marco di botto. Tobi disse quello che diceva a tutti. Ciò che sapeva e aveva colto. «Non ne ho idea». Si guardò attorno. Tra l’autoscontro e il breakdance si radunavano ragazzi e ragazze. Si fermavano quasi in automatico in quello spiazzo, mentre la musica delle due attrazioni si faceva sempre più alta.

A fare un giro

Alcuni portavano appesi al collo i cuori di pan di zenzero e le rose di plastica del tiro a segno. La ruota panoramica come il propulsore di un piroscafo del Mississippi. Lì vicino il calcinculo e quasi nessuno che ci salisse. «Vieni» disse Tobi. E avanzò. Sentì dietro di sé i passi di Marco sulla ghiaia, più lenti e sempre un po’ lontani. Allora accelerò finché non lo sentì ansimare. «Aspetta» disse Marco. Poi si fermò. Venne spintonato dai ragazzi, ma rimase in piedi. Venne insultato, ma non reagì. «Dove vuoi andare?» chiese. «A fare un giro» rispose Tobi. Con i gomiti in avanti Tobi si fece largo tra i baracchini e la gente, e lasciò dietro di sé un corridoio per Marco. Lui si spostò nella scia di Tobi. Finì alla deriva e rimbalzò da una parte all’altra. Tobi avrebbe preferito tendergli una mano. O ancora meglio seminarlo. Spari dal baracchino a sinistra. A destra caddero a terra delle lattine. Una luce blu e rossa. Lampeggiava, roteava, saltellava su e giù. Allo stand della sangria, come immaginava, c’era Felix avvinghiato a un secchiello. Magro e pallido. La pelle del viso era ricoperta di pustole rosse. Quelle sulle braccia se le era grattate. Da quando prendeva quella roba, i suoi occhi sembravano scivolati nelle orbite. Fumava una sigaretta e con l’altra mano teneva la cannuccia della sangria. Tobi all’inizio lo superò, ma poi fu intercettato.

«Tobi, ficata» urlò Felix e gli fece cenno di avvicinarsi. I ragazzi e le ragazze che gli stavano accanto e davanti si girarono verso Tobi. Capì subito che non erano amici di Felix. «Qui, siediti», Felix si strinse e con un braccio alzato gridò in direzione dello stand: «Un’altra birra!» Nel baracchino non reagì nessuno. Le ragazze lo guardavano in silenzio e imbarazzate. I più grandi passavano e scuotevano la testa. «Bisogna sempre fare tutto da soli» disse Felix. Si alzò per stringere la mano a Tobi e andare al baracchino. Intanto continuava a girarsi verso il secchiello di sangria e le panche. Sembrava contare i ragazzi e le ragazze che erano ancora lì seduti e che ogni tanto succhiavano da una cannuccia, ridacchiavano o buttavano un occhio ai cellulari. «Potete anche venire tutti da me» propose Felix. «Ecco» disse a Tobi e gli mise la birra in mano. «Non ti ho più visto da quando hai iniziato a uscire con gli amici di tuo fratello». Quindi si sedette tra due ragazze. Tobi rimase in piedi dietro la panca, dietro le schiene sudate dei ragazzi. «I miei non ci sono» aggiunse Felix. Si grattò il viso e le braccia. Un giovane vomitò dietro il brucomela. I conati erano più rumorosi delle urla entusiaste tutt’intorno. La sua ragazza si appoggiò all’albero dietro di lui e rovesciò le due birre che aveva in mano. «Ma c’è anche Marco il ciccione!» urlò Felix.

«Sono secoli che non lo vedo!» Marco era in un punto defilato, con gruppi di persone che gli passavano davanti. Guardava a terra. Lo zaino su una spalla. «Vieni» strillò Felix, «ti compro qualcosa da mangiare». Una ragazza doveva aver riso. Felix si girò dalla sua parte. «Non essere così cattivo» disse lei con un ghigno. Tutto questo lo divertiva palesemente. Tobi avrebbe voluto chiamare Marco, dividere la birra con lui ed evitare di stare solo davanti a quella gente. Soprattutto avrebbe voluto evitare di stare solo con Felix. Erano passati due anni da quando per la prima volta non era andato in vacanza con i suoi. Un evento colossale, giornate intere di alcol e spinelli. Tende in giardino e in casa, porte aperte, vomito e ammucchiate in ogni stanza, finché Felix non aveva iniziato a stufarsi e dar di matto. Dalla seconda settimana era stato a cadenza regolare da Tobi, o almeno aveva provato a incontrarlo. Vagava nel suo terreno e sbirciava dalle finestre se nessuno gli apriva la porta.

Lascialo perdere

Si sedeva sul terrazzo o in cima agli scalini davanti all’entrata. Tobi lo osservava dalla finestra del bagno al piano superiore, faceva piano, non usciva. Sentiva i talloni di Felix colpire il gradino. Le sue dita tamburellare sulla cassetta della posta. Poi un accendino vuoto cadeva a terra. Ma non esplodeva. Il fumo delle sigarette arrivava in cucina e all’ingresso. Tobi non osava parlargli, talmente aveva l’impressione che fosse fuori di sé. Tobi si girò verso Marco e gli fece un cenno con la testa. «Dai» mimò con le labbra, senza fiatare. La birra ai piedi. Coleotteri che scivolavano sulla condensa lungo il collo della bottiglia. Marco con il suo energy drink in mano. Tra le ragazze ce n’era una carina, aveva una ciocca lilla in mezzo ai capelli biondi. La ricrescita era scura, gli occhi pure. «Vieni» insisté Tobi, sempre in modalità afona. «Lascialo perdere» disse Felix e si accese un’altra sigaretta. A ogni tiro arricciava il naso.

Quando apriva la bocca il fumo si sprigionava di botto, come una pentola a cui veniva sollevato il coperchio. Tobi si girò ancora verso Marco. Sembrava che fosse lì ad aspettare che lo facesse, lo aveva fissato per tutto il tempo. Adesso accennava con la testa alla ruota panoramica e all’uscita. «Allora vai» disse Tobi. Stavolta forte e chiaro. Inequivocabile. Marco esitò e se ne andò. Tobi dietro di lui. Rovesciò la birra urtandola con un piede. Sembrò scoppiettare nell’erba secca, appiattita, sottilissima del bosco. Marco era in grado di camminare ben più svelto di quanto Tobi ritenesse possibile. Tobi restò di nuovo impigliato fra braccia e spalle. Accelerò, si bloccò per un attimo, si intrufolò tra coppie e gruppetti. Senza mai perdere di vista lo zaino e i lacci portachiavi. «Marco» avrebbe voluto urlare. «Marco, fermati!» Ma allo stesso tempo lo trovava imbarazzante. Un bagno chimico era stato ribaltato. L’acqua blu e gli strappi di carta igienica avevano formato una pozza al centro del passaggio. La ruota panoramica, lì di fronte, continuava a girare. La gente si tappava la bocca e il naso. Zucchero filato e salsicce nelle mani libere. «Ciao, Tobi». Tobi si voltò. «Ciao» disse.

L’unione delle loro mani. Non riusciva a smettere di fissarle. Le dita erano lontane, in realtà si toccavano a malapena. Una presa che doveva risultare fiacca e sudaticcia. Poi il padre le mollò la mano. «Ho appena visto Marco» disse. «Sì, sta andando a casa» replicò Tobi. I capelli di Kathrin erano più lunghi. Le ricadevano a destra e a sinistra. La riga tracciata con la stessa precisione dei confini di proprietà. Il padre infilò le mani nelle tasche dei pantaloncini. «C’è anche Philipp?» chiese. «Non lo so» rispose Tobi. Il padre annuì. La distanza tra loro era tale che la gente si insinuava in mezzo. «Hai visto il bagno chimico?» chiese Kathrin. «Sì» disse Tobi e avrebbe preferito non dirlo. Del resto lo sentivano tutti l’odore. Un ubriaco saltò nella pozza blu davanti alla cabina ribaltata, e rise. «Noi andiamo a mangiare» continuò Kathrin. «Vieni?» «Già fatto» rispose Tobi. «Marco aveva un po’ di rifornimenti». Kathrin annuì.

Fatevi vivi

Alcuni ragazzi stavano appoggiati al baracchino del tiro a segno, altri erano seduti sui gradini del calcinculo e si abbagliavano a vicenda con le torce dei telefonini. Aspettavano che succedesse qualcosa, ma era ancora troppo presto. «Mi sa che adesso devi andare a casa» disse il padre. «Sì, esatto» confermò Tobi. «Allora siamo stati fortunati a beccarti qui». Kathrin sorrise. Il padre si avvicinò e gli strinse la mano. Le basette erano grigie. Sembrava che avesse intenzione di dire qualcosa. La bocca gli tremò, le mascelle si mossero, ma non disse nulla. Una scena a cui Tobi aveva assistito spesso. La mano di Kathrin era ruvida e screpolata intorno alle unghie. Tobi avvertì il suo profumo quando gli si avvicinò all’orecchio. Più forte del deodorante delle ragazze. «Fatevi vivi ogni tanto con il vostro papà» bisbigliò.

Tobi fissò prima lei riallontanarsi piano piano. Poi il padre, che si era girato un po’ di lato come se non avesse sentito nulla. Con che aria riconciliante gli sorrideva. “Perché non me lo dici tu” pensò Tobi. Mentre già si incamminava alzò una mano per salutare, con una certa esitazione, fino al fianco, per poi lasciarla ricadere mosciamente. «Salutami Philipp» gli urlò dietro il padre. Come se a Philipp gliene fregasse qualcosa di quei saluti, pensò Tobi. «Com’era?» chiese la madre. Tobi le sfilò davanti in corridoio. La porta del soggiorno era aperta. Il televisore sul pavimento. Le tende rimosse. Alcune stanze erano vuote, a parte gli scatoloni piegati.

Si tolse le scarpe da ginnastica. “Quando queste si rompono, le prossime me le compro da solo” avrebbe voluto dire. Soldi tutti suoi, scarpe tutte sue. Salì le scale, mentre lei lo seguiva con lo sguardo. «Tobi, dovrai pur parlarmi» disse. Arrivato di sopra si fermò e non la vide più. Ma vide il legno del lucernario sempre più gonfio e il muschio lavato via dalle tegole finito sul vetro. Un’altra estate piovosa. «Tobi?» chiamò la madre. «Tobias» la corresse.

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