Il romanzo perfetto non esiste. Chi legge molto, per passione o per mestiere, lo sa bene: nessun autore, nessuna collana, nessun editore è immune a refusi (caspita anziché capita), errori di attribuzione (gli occhi verdi che diventano grigi) e salti di impaginazione (in gergo, orfani e vedove). Anche a rivedere un testo prima della stampa cinque, dieci, venti volte, è praticamente certo che una volta in libreria, spesso aprendolo a una pagina a caso, salterà fuori l'errore. Questo perché, con buona pace degli idealisti, prima di essere un prezioso vettore di storie e pensiero, il libro è un oggetto creato dall'uomo, e come si sa errare humanum est. Agli albori della stampa vennero inventati apposta gli errata corrige, quei fogliettini allegati al testo che segnalavano al lettore gli «errori da correggere». E se capitava di sbagliare ad Aldo Manuzio, chi siamo noi per ritenerci migliori?

Oggi quei fogliettini non si usano più – nell'era dell'ebook e del print on demand si corregge direttamente in elettronico e alla ristampa successiva – ma esiste un ambito narrativo in cui un errata corrige (anzi, un narrata corrige) verrebbe molto apprezzato: il romanzo storico. Il romanzo storico è il genere letterario in cui un autore va a pescare personaggi, sfondi ed eventi nel passato documentato anziché dalla sua pura fantasia.

Nei due secoli da quando è stato creato, ha affrontato tutte le epoche (comprese quelle di cui non sappiamo granché, vedi Salammbô) e dato voce a tutti i grandi della Storia, sempre ballando sul sottile confine tra verità e invenzione, a volte indicandolo apertamente, altre depistando con sapienza per evitare lo spauracchio degli autori – la svista storica. Perché non si scappa: che il romanzo lo scriva il dilettante più pignolo o un grande accademico esperto mondiale della materia, l'errore fattuale è sempre in agguato e, come la goccia che paziente scava la roccia, finisce per infilarsi tra le righe. Volendo, dare la caccia a queste inesattezze potrebbe diventare un gioco di società (letteraria).

Esempi illustri

Comincio io. In Ivanhoe, uno dei primissimi esemplari del genere, Walter Scott immagina che Robin Hood (qui alla prima comparsa in un romanzo) derubi un abate assai poco monastico della sua tabacchiera. Peccato che la vicenda sia ambientata nel XII secolo, trecento anni buoni prima della scoperta dell'America e del tabacco...

E ancora: ne I tre moschettieri, Anno Domini 1625, il prode D'Artagnan vive a Parigi in Rue des Fossoyeurs, che effettivamente era una via dell'epoca, ma il suo amico Aramis vive in Rue Servandoni, che invece non esisteva (il personaggio eponimo doveva ancora nascere). L'errore, di per sé innocuo, diventa significativo quando Umberto Eco scopre che le due vie sono in realtà la stessa, con nomi diversi in epoche diverse. Dunque Aramis e D'Artagnan abitavano nella stessa strada! Ma perché Dumas non voleva che lo sapessimo? (Ed ecco un consiglio per aspiranti romanzieri storici: prima di iniziare a scrivere procuratevi mappe dell'epoca. Oggi si trovano persino stampate in formato anastatico.)

Ancora: ne I promessi sposi la piccola Gertrude, futura Monaca di Monza, viene sottoposta a tremende pressioni perché prenda il velo spontaneamente. Quando alla fine capitola (e sorvoliamo sul fatto che Manzoni sbagli epoca di quei venticinque anni), il padre raggiante la premia con una bella tazza di cioccolata calda. Peccato che anche la cioccolata fosse frutto delle scoperte di Colombo, e a Milano non sarebbe arrivata prima di un secolo.  

Ancora: sempre Umberto Eco, tra le pagine del suo bestseller trecentesco Il nome della rosa, accenna qua e là a peperoni e violini, i primi ancora oltreoceano, i secondi inventati nel Cinquecento. Inoltre Adso, la voce narrante, in un passaggio parla di «secondi», misura temporale che al tempo non si usava. Se avete la bella edizione del quarantennale troverete una postfazione in cui Eco stesso si autodenuncia e un testo debitamente emendato, perché anche i grandi sbagliano, ma sanno farlo con eleganza.

Ancora: ne La caduta dei giganti il solitamente inappuntabile Ken Follett, che per preparare i suoi romanzi si serve di ricercatori con i fiocchi e una volta finito si fa leggere da storici blasonati, mette in scena un gangster americano che durante il proibizionismo attraversa il confine con il Canada, acquista diverse casse di whisky e le riporta in patria per rivenderle a prezzi altissimi. Solo che all'epoca del romanzo il proibizionismo era in vigore anche in Canada, per cui nessun negozio avrebbe avuto whisky da vendere. Chissà, forse a bere sono stati i ricercatori.

Ultimo esempio illustre (ma si potrebbe continuare) è M, la serie di romanzi che Antonio Scurati sta dedicando all'ascesa politica di Mussolini e all'Italia del Ventennio. Un'opera colossale con diversi meriti, fra cui quello di aver appassionato gli italiani a un capitolo di storia patria che non smettiamo di citare e discutere senza conoscerlo davvero. Nelle quasi duemila pagine del racconto scuratiano si trovano, come è umano, alcuni errori storici, prontamente segnalati da lettori e studiosi. Per esempio a un certo punto si dice che nel 1846 alla Scala di Milano lavoravano degli elettricisti. In realtà il teatro fu illuminato per la prima volta da Edison il 26 dicembre 1883. In un altro passaggio si sostiene invece che nel 1922 il Viminale utilizzasse telescriventi, invenzione di fine Ottocento, sì, ma commercializzata in America nello stesso anno, quindi un po' presto perché arrivasse fino a Roma.

Fiducia del lettore

Verrebbe da dire: errori veniali, sviste dimenticabili. Dopotutto Scurati non ha negato che l'Apollo 11 abbia toccato il suolo lunare nel 1969. Poi, persino Marguerite Yourcenar è stata contestata per le sue famose Memorie di Adriano, e Tolstoj fu ripreso dallo zar in persona per alcune inesattezze storiche in Guerra e pace. Se tra centinaia e centinaia di pagine sorvegliatissime sfugge all'autore qualche strafalcione storico (ma anche se vi viene inserito apposta, per scaramanzia, come fa Carlo Lucarelli con il suo commissario De Luca, che ascolta spesso canzonette in anticipo sui tempi) verrebbe da pensare che la cosa sia facilmente perdonata. Invece no. La reazione di alcuni lettori alla minima svista storica può essere viscerale. Il sottoscritto, per dire, ha ricevuto severe critiche per aver infilato una busta di plastica ne L'angelo di Monaco, un thriller sulla nipote prediletta di Hitler morta misteriosamente nel 1931. Eppure la plastica nel 1931 esisteva – il cellophane era in commercio da oltre dieci anni – e per appurarlo bastava un controllo veloce su Internet... Ma ecco un altro consiglio per le folle di aspiranti Follett: non importa che un dettaglio storico sia vero, deve anche essere verosimile, o rischierete di perdere la fiducia del lettore.

A pensarci, una tale attenzione da parte di chi legge è un fenomeno positivo, che illumina di luce incoraggiante il nostro rapporto con il passato. Perché è vero come diceva Coleridge che chi si avvicina a un romanzo sa benissimo che si tratta di un'opera di finzione, e accetta di ignorarlo solo per godersi la lettura (la celebre «sospensione dell'incredulità», che Kurt Vonnegut ribattezzò «spontanea accettazione di fesserie»), ma se basta un dettaglio fuori posto per far crollare l'incanto, questo non è da attribuire alla suscettibilità della nostra epoca, che pure accetta deformazioni ben più profonde nel racconto storico quotidiano. No: è che leggendo un romanzo sul passato non riusciamo a prescindere fino in fondo dalla consapevolezza che quegli eventi sono accaduti davvero, che quei personaggi in realtà erano persone. Anche se si tratta di finzione, anche se narra di epoche remote, noi non riusciamo a dimenticarlo o a tralasciarlo, perché in ballo non c'è solo una storia, ma la nostra Storia.


Fabiano Massimi è autore del libro I demoni di Berlino, edito da Longanesi, in libreria dal 13 maggio

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