Quando Xu mi morde, quando mi ha tra i denti, nuda e cattiva su di me, io sto bene. Non è una cosa umana ma è accaduta lo stesso, come accadono i tifoni o i terremoti.

È cominciata in un pomeriggio di novembre, contro i vetri del suo appartamento a Wujiaochang, con i fari bluastri dei centri commerciali in piena faccia, ed è proseguita in luoghi meno personali. Ex fabbriche tessili e macelli anni Trenta, luoghi pieni di logica e di abbandono, architetture algide e ferrose, luce autunnale alla deriva su filari di lamiere in disuso.

Ero a Shanghai da poco più di un mese ma già la conoscevo intimamente. Nanjing Road che la attraversava come una colonna vertebrale, le periferie polverose lungo il fiume Huangpu, i parchi immensi con le bandiere spiegate e le peonie larghe e rosse come teste di neonato.

I grattacieli glitterati del Bund e il vento arido che soffiava verso ovest e attraversava tutto, faceva tremare tutto, il vetro e l’acciaio e le siepi opulente, gli ex complessi industriali fatiscenti, i platani allineati nei quartieri occidentali. Ero lì solo da un mese e già mi sembrava casa, come sembrano casa tutte le cose che insieme soffocano e tengono al sicuro.

Non ho mai chiesto a Xu se lo ha già fatto con altre. Non le ho mai chiesto se sono la prima. Ma quando la notte vado con lei e le sue amiche smilze biondo ossigenate al Poxx mi ritrovo a guardare con apprensione i loro polsi, la cute, le caviglie sottili, per paura di trovare dei segni uguali ai miei.

A volte un graffio rosato luccica per un attimo su un dito, o sull’orlo svasato di un sorriso. Ma non è una prova sufficiente, non è nulla: sotto le luci stroboscopiche è difficile vedere bene la pelle.

Verso est

Finisco sempre per bere un po’ troppo sake d’importazione e tornare a casa da sola, i capogiri. Di notte le strade della concessione francese sono così eleganti da aggravare le mie insicurezze. Boutique, bistrot, brasserie, vetrine retroilluminate con croissant gonfi di lievito e di crema pasticcera o di crema verde fosforescente al matcha. Gli uomini d’affari occidentali degustano insalate di avocado e prosecco nei tavolini all’aperto, sotto file di platani illuminati, sentendosi speciali perché vivono in Cina, sentendosi al sicuro perché non varcheranno la soglia francese e non saranno mai davvero in Cina.

Se non sto attenta sbaglio strada, perché molte vie a Shanghai hanno lo stesso nome e si differenziano solo perché c’è scritto nord o sud, est o ovest. Io devo andare a est.

Est è un piccolo ideogramma che somiglia a una scatola sigillata con dentro piccole radici che crescono sbilenche. Se mi perdo finisco comunque per incontrare le botteghe del quartiere Jing’an, il mio, che vendono manzo essiccato e panini al vapore. Rasoi monouso, creme facciali monouso. Zuppe gialline da riscaldare. Maschere per il viso il cui tappo è un volto violaceo, occhi serrati, labbra a cerchio come a ingoiare genitali maschili. Sul soffitto brillano le teste coriacee dei maiali.

Il suono della ragazza

Si chiama Xu ma io la pronuncio male. La lingua dovrebbe starsene immobile sul fondo del palato, dove comincia la gola, poi fare un fischio poetico e remoto come quello di certi uccelli notturni.

Io invece la chiamavo con la X dei raggi X e degli xilofoni per bambini. Una X prosaica, stonata. Era l’inizio cacofonico del nostro amore. Poi sono migliorata e ho iniziato a dire SSH, come se stessi zittendo qualcuno. Era sbagliato anche quello.

Non riuscivo ad afferrare il vero suono della ragazza a cui pensavo tutto il giorno. Così avevo preso a non chiamarla. La mia bocca si apriva, tremava un po’, desisteva: visto da fuori, non chiamare chi ami somiglia alla fame d’aria in fondo al mare.

Il cassiere succhia spaghetti e non sente il mio saluto. «Ni hao», ripeto, «ni hao». Significa stai bene, ci si saluta così: con una bugia generica su chi ti sta davanti. Sulla sedia c’è un gatto bianco al guinzaglio. Fermo, mitologico.

Se mi perdo finisco sempre nello stesso convenience store, come una pallina che crolla sul fondo di un flipper. Chiedo al cassiere dov’è il tempio della Pace e della tranquillità, perché il mio hotel è lì di fronte, più in alto, al trentunesimo piano, dove il rumore della terra non arriva.

Il cassiere è sempre uguale. Anche se entro in un negozio diverso. Volto duro e glabro, occhi sottili. Attiva una mappa sul cellulare, ingrandisce e rimpicciolisce, mi mostra cose che capisco a stento. Segni blu complicati su sfondo bianco. Una pista da seguire.

Il posto che chiamo casa

Mi sembra un bell’uomo ma forse è perché è tanto tempo che mi sento sola. Se mi chiede come mi chiamo o cosa faccio in Cina, se mi chiede cose più personali della geografia, io mostro sul telefono l’ideogramma di casa, per dire vado a casa, voglio solo andare a casa. La parola casa può diventare nient’altro che un’implorazione.

Sorride. Ringrazio e compro caramelle White rabbit. Sulla carta c’è un coniglio che mi ricorda un pupazzo che volevo a Natale, a cinque anni, e nessuno mi ha comprato. Lo hanno comprato a mio fratello.

Mio fratello urlava più forte, desiderava più forte, i suoi lamenti riempivano i centri commerciali. Arrivo in hotel. Quello è il posto che chiamo casa. L’ideogramma di casa mostra un maiale disteso sotto un tetto: i contadini cinesi abbracciavano i maiali come si fa con i neonati, con un affetto pieno di sgomento.

Sul letto controllo il cellulare e trovo i messaggi di Xu. Sono in cinese. È il suo modo di dominarmi. Rendersi indecifrabile, costringermi a uno sforzo di comprensione. Apro la app del dizionario, poi cambio idea e la chiudo. La insulto tra i denti: sadica, narcisista. Gli insulti tra me e me sono l’unica occasione in cui uso ancora l’italiano.

Io ricordo

Xu ama poche cose al mondo. Ama il silenzio, i rossetti, le falde di luce che si imprimono sul muro attraverso le serrande mezzo chiuse. Ama lo stomaco di maiale in salsa hongshao e ama farmi del male. Il maiale in salsa hongshao è molto semplice da fare: va cotto lentamente con vino, olio, salsa di soia e una valanga di zucchero. Quando è pronto, lo stomaco brilla di rosso come un rubino.

Non ricordo più com’ero prima di incontrarla. Ricordo le cose anagrafiche, quelle che chiunque potrebbe sapere. Tipo che vivevo a Roma da quando ero nata e che guardavo molte serie tv sul divano di casa. Ricordo che avevo due genitori a cui volevo bene, ce li ho ancora, e fino a sei mesi fa avevo anche un fratello.

Ricordo la pianta grassa con i bordi marroncini — una pilea cinese — sul davanzale della mia stanza e il rumore assordante della raccolta vetro su corso Vittorio Emanuele. Ricordo che litigavo con mia madre a voce bassa, sentendomi subito stanca, e che a metà litigio i miei sentimenti diventavano meccanici: cose in cui mi immedesimavo a stento.

Ricordo che il luogo in cui litigavamo con più ferocia era la stanza vuota di mio fratello. Ricordo che avevo i capelli lunghissimi e dormivo molto e che prima di dormire mi dicevo che l’indomani avrei innaffiato la pianta, l’avrei fatto di sicuro, ma poi non lo facevo mai.

Quella che amo

La mia camera d’hotel mi piace tanto. È grigia e spoglia e il parquet è finto. Non ci sono né tende né persiane e si vede Shanghai dall’alto, che è più bella di qualsiasi cosa io abbia mai visto.

La ventola del ricambio d’aria, appesa fuori dalla vetrata, fa un rumore raschiante e dispotico che non diminuisce mai. Entra nei sogni, come un’allerta. Sostituisce la musica quando sogno mio fratello che suona il piano e ride.

So che ogni stanza dei trentasei piani dell’hotel ha una ventola uguale, e questo mi rassicura: l’idea di avere qualcosa in comune con tutti gli altri, oltre la fisionomia umana di base.

Un quadretto, sopra il mio letto, ritrae una cosa incomprensibile. Un animale, forse, o un paesaggio indurito dalla siccità. Le linee sono così astratte che sei costretto a immaginare, ma non così astratte da darti pace. A volte desidero incontrare qualcuno in ascensore, ma poi quando entra qualcuno provo un nodo alla gola.

Xu ha i capelli color catrame ed è stupenda. Mani sottili, gambe lunari. Un sorriso scuro un po’ storto. Potrebbe suonare l’arpa e sfilare sulle passerelle più applaudite. Potrebbe essere una fidanzata rassicurante, di quelle evocate con gli occhi lucidi nei pranzi di famiglia. Potrebbe essere tante cose. Non è nulla. È quella che amo. È quella che non mi può amare.

Quando la sua bocca screpolata mi si poggia addosso penso cose inutili con molta intensità, ad esempio che il linguaggio non dovrebbe uscire dallo stesso buco da dove esce il vomito e lo sputo.

Se mi chiedo com’ero prima di incontrare Xu mi viene in mente il volto di mio fratello Ruben, i suoi capelli biondo spiga e il naso dritto, le poche parole, lo sguardo fermo e luminoso come l’insegna di un hotel dopo un lungo viaggio. Sono abituata a pensare a lui al posto di me. È più comodo, perché lui era migliore. Il fatto che sia morto rende questo esercizio più efficace.

È ancora sabato. È ancora notte. Mi gira la testa. Metto il telefono in modalità aereo e mangio tortine di riso color pece. Ne mangio troppe. Ne mangio fino alla nausea. Sono spugnose e insapori e mi sembra di mangiare la notte umida di certi vicoli dietro la stazione Hongqiao.

È dove vado con Xu a prendere la pillola gialla. La pillola gialla è a base di bile di serpente e argina il bisogno di sentirsi al sicuro. Agisce sull’amigdala, ti fa sentire il cervello avvolto in una copertina di pail. Se ne prendi due ti senti protetta anche sul sedile di un killer che guida a trecento all’ora. Xu è la mia killer a trecento all’ora. È quella che mi mette in pericolo e mi fa dimenticare il sogno banale che accomuna gli umani: stare in pace, in sicurezza, stare in pace e in sicurezza.


Questo brano è tratto da Fame blu, l’ultimo romanzo di Viola Di Grado edito dalla Nave di Teseo in libreria da mercoledì 31 marzo.

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