Fare i rider in Indonesia e i limiti delle azioni contro le piattaforme di delivery

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è come si salvano i ristoranti. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. «Tutorial su come inviare cibo ai fattorini di Grab/Gojek per 1 dollaro: cambia la tua posizione in Indonesia; ordina del cibo; di' loro ‘makanannya untuk abang aja’ - il cibo è per te». Una giovane tiktoker di Singapore spiega, passo passo, come cambiare le impostazioni di un’app di food delivery per prendere parte a una campagna di solidarietà internazionale piuttosto inedita: dalla Malesia, a Singapore, alla Thailandia, i cittadini del Sud-est asiatico hanno offerto il pranzo e la cena ai rider indonesiani che a inizio settembre hanno animato violente proteste, esplose dopo la morte di un collega. Umili, inaspettati e sgangherati: quando i rider diventano eroi da fumetto Si è trattato di un moto di buone intenzioni individuali, anche se non è chiara l’efficacia che possa avere un gesto che alimenta il profitto di quelle stesse piattaforme che condannano a condizioni di precarietà chi lavora per loro. Quel che è certo è che, dalle lotte per il pane ai tempi di Maria Antonietta di Francia, alle rivolte per il grano in Urss, fino alla consegne di pasti a domicilio tramite piattaforme digitali, quello del cibo resta un piano su cui continua a giocarsi tanta parte del conflitto sociale. E nell’economia globalizzata, il food delivery rappresenta un terreno di gioco piuttosto comune. Come mangeremo nel 2030. Tra robot e sostenibilità Le proteste Non è un caso che la morte del 21enne Affan Kurniawan, il rider investito e ucciso da un’auto della polizia mentre lavorava a Giacarta, abbia scatenato un’indignazione così diffusa anche al di fuori dei confini nazionali. Le proteste sono scoppiate in Indonesia dalla fine di agosto, dopo la notizia che i membri del Parlamento di Giacarta stavano ricevendo sussidi per l’edilizia di lusso, oltre ai loro salari da parlamentari. L’Indonesia sta attraversando una grave crisi economica, che ha portato diverse frange della società a mobilitarsi con istanze di sussidi e richieste di abbassamento delle tasse, rimaste perlopiù inascoltate dal governo di Prabowo Subianto. La protesta sembra essere nata spontaneamente, senza un’organizzazione precisa alla base, con i gruppi studenteschi che sono stati i primi a mobilitarsi. Poi il malcontento si è diffuso anche tra le classi sociali meno abbienti, coinvolgendo anche i rider, scatenati dalla morte di Affan Kurniawan. Le manifestazioni sono state represse con forza da polizia ed esercito, e hanno causato la morte di 10 persone e lasciato l’intero Sud-est asiatico a riflettere sull’etica di un’economia che si basa sulla precarietà e le scarse garanzie di sicurezza dei suoi lavoratori. L’Asia è più ricca e mangia peggio: l’obesità non è solo occidentale I limiti La gig economy, di cui fa parte il settore delle consegne a domicilio, era arrivata come una rivoluzione, con la sua idea che «il lavoro diventa più accessibile, le persone possono ritagliarselo secondo le proprie esigenze - spiega a Domani Fabio Parasecoli, professore di Food Studies alla New York University - Poi in realtà però non c'è garanzia, non c'è protezione, non c'è sicurezza». E spesso il malcontento va a sommarsi a situazioni già precarie, come nel caso dell’Indonesia, che vive una crisi dettata da una crescita a rilento, l’aumento della disoccupazione, la svalutazione della rupia e un’economia informale in aumento. Anche per questo molte persone si sono rivolte a Grab e Gojek, le due piattaforme di food delivery più diffuse, cercando un’ancora di salvezza che invece rischia di incastrarle in condizioni lavorative insostenibili. «Non è raro che il food delivery si colleghi a elementi di sfruttamento. Se ci pensiamo, chi è il rider? Molto spesso è una persona straniera, magari non registrata, senza le garanzie e i diritti dei locali. A volte deve anche pagarsi l’attrezzatura, che non viene fornita dalla piattaforma per cui lavora - sottolinea il professore - Quindi gli aspetti che afferiscono alla gig economy in questo settore sono potenziati al massimo». Il boom del cibo asiatico sulle spalle dei rider La flessibilità promessa dalla gig economy (conosciuta anche come «economia dei lavoretti») ha un’altra faccia della medaglia. È una manifestazione «del capitalismo neoliberale, in cui tutto è nella responsabilità dell’individuo. Sia come consumatore, sia come produttore, sei tu che prendi le decisioni», continua Parasecoli. E questo è vero non solo dal punto di vista dei fattorini, che con la scusa del lavoro flessibile si ritrovano incastrati in impieghi precari e senza tutele, ma anche dei consumatori. La «Grab campaign» in solidarietà con i rider che si sono visti arrivare pranzi e cene offerti dagli utenti delle app ne è un esempio. Chi beneficia di questo gesto, infatti, non è certo il fattorino - al di là di quei 10 minuti necessari a finire con gusto un pranzo a base di nasi goreng offerto da qualcun altro - e nemmeno il ristorante. «L’attore che guadagna di più è la piattaforma. Parliamo sempre di una società in cui la proprietà intellettuale delle aziende tecnologiche permette di prendere posizioni di potere importanti - dice Parasecoli - È il ristorante che deve adattare i suoi prezzi per entrare in questo sistema». Al di là del gesto individuale, infatti, le sfide poste dalle piattaforme di food delivery necessiterebbero di istanze collettive: «Se tutto è responsabilità dell’individuo, il sistema non ha responsabilità - osserva il professore - Si perde di vista la dimensione sistemica». Licenziati per mail, sottopagati ed esposti ai rischi. Il caso dei rider di Milano pronti a denunciare Nel mondo globalizzato questi fenomeni si registrano da Giacarta e Surabaya fino a Milano e New York. Si parla di pasti veloci che tengono insieme bisogni primari e catene globali di sfruttamento. La «Grab campaign» fa luce su questa contraddizione: il cibo può farsi vettore di solidarietà, ma si tratta di uno slancio piuttosto effimero quando rimane intrappolato dentro le stesse piattaforme che generano precarietà. «Servirebbero piattaforme solidali, che possano venire fuori magari da cooperative» riflette Parasecoli. Ma come coinvolgere i rider? «Il problema grande è che molto spesso non hanno il capitale culturale per poter partecipare attivamente a queste iniziative, perché magari non parlano nemmeno la lingua. E soprattutto: hanno esigenze immediate di guadagnare il pane e portarlo a casa», osserva. «Ma penso che un’iniziativa di solidarietà efficace possa essere quella di coinvolgere anche loro e renderli membri di un qualche tipo di cooperativa». Partecipare ai mezzi di produzione potrebbe risollevare i lavoratori e le lavoratrici della gig economy, limitando le tendenze monopolistiche delle piattaforme. Dalle lotte per il pane alle ordinazioni digitali, è chiaro che il cibo non è solo un bene primario ma misura di giustizia sociale. [Missing Caption][Missing Credit]