La vicenda dei nostri apparati di sicurezza dimostra come nei processi storici la continuità prevalga sulle rotture. I governi antifascisti, dopo il 25 aprile del 1945, avrebbero affidato i servizi di sicurezza della repubblica ai loro carnefici, ovvero ai massimi dirigenti della polizia politica (PolPol) e dell’Ovra, l’Opera volontaria di repressione antifascista.

Una narrazione ricca di documenti originali, tratti da archivi anche anglo-americani, si trova nell’ampio volume di Giacomo Pacini (La spia intoccabile. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati, Torino, Einaudi) e in quello di Giovanna Tosatti, una delle maggiori esperte della storia del ministero dell’Interno, nella rivista Le Carte e la Storia, edita da il Mulino.

D’Amato è morto nel 1996, ma il tribunale di Bologna sta decidendo se sanzionarlo come organizzatore, insieme a Mario Tedeschi, della strage del 2 agosto 1980 alla stazione centrale.

D’Amato era nato a Marsiglia ed era un figlio d’arte: il padre era un funzionario di polizia. Si era formato alla scuola del capo dei servizi segreti Usa in Italia Jesus Christ Angleton. I due avevano un legame indissolubile. Insieme avevano consegnato alle truppe alleate l’organigramma dei servizi di intelligence nazisti a Roma. Successivamente misero in salvo un fascista combattente tenace come il principe Junio Borghese. Ma non negarono qualche aiuto ad diversi esponenti antifascisti.

Erano azioni che potremmo definire e da “agenti doppi”. Infatti, tutti i funzionari apicali delle polizie fasciste, quando il regime cominciò a sbriciolarsi, non si schierarono con Pietro Badoglio (cioè col Regno del Sud), ma giurarono compattamente per la Repubblica sociale di Salò.

Un cambio di passo

Nell’estate del 1944, Angleton concordò con D’Amato un cambio di passo per l’immediato futuro: il nazifascismo è passato e viene considerato come pericolo incombente il comunismo. I due ministri dell’Interno del dopo guerra, il socialista Giuseppe Romita e il democristiano Mario Scelba, non fanno un ragionamento così esplicito. Ma prendono quel che offre il mercato.

Grazie alle ricerche di Pacini e Tosatti, dopo quelle di Mauro Canali e Mimmo Franzinelli, oggi sappiamo che l’Ufficio affari riservati e il suo grande capo, Umberto Federico D’Amato, sono lo spicchio di un’arancia più grande.

I governi antifascisti di De Gasperi si limitarono a consegnare la difesa dell’ordine pubblico e la cura della sicurezza (interna e internazionale) a funzionari con questi nomi: Arturo Bocchini (capo della polizia dal 1926 al 1940 e autore del confino di polizia e degli Ispettorati speciali di polizia, formati da 50 ufficiali e 400 agenti operativi confluiti nell’Ovra); di Guido Leto (dal 1925 alla testa dell’Ufficio speciale movimento sovversivo e successivamente alla testa dell’Ovra, il principale organo di spionaggio politico, fu uno dei maggiori esperti della lotta per repressione delle attività del Pci) e Carmine Senise (nel 1930 a capo della direzione generale affari riservati che nel 1932 passerà nelle mani di Leto).

Il cavallo di Troia

Passarono sotto il loro controllo una grande massa di confidenti, infiltrati, provocatori infilati dalla PolPol e dall’Ovra nel cuore delle organizzazioni clandestine anti-fasciste. Gli alti papaveri della polizia fascista erano stati assolti dai tribunali e dalle commissioni di epurazioni (di assai dubbia severità) per collaborazionismo.

Il Partito comunista italiano era la principale forza politica e sociale dell’anti-fascismo, la meglio organizzata (anche con un apparato para-militare), con legami (compresi i finanziamenti regolarmente ricevuti) con l’Unione sovietica, una potenza straniera ostile alla Nato e all’alleanza atlantica. Per poterla arginare ci sono voluti circa 40 anni e il ricorso sia agli Stati Uniti sia all’uso dei neofascisti.

In tale arco di tempo molte centinaia di migliaia di persone sono state assoggettate a controlli, schedature, intercettazioni ossessive, compresa la sfera dei costumi sessuali. E nelle fila del Pci D’Amato annidò un operoso nugolo di confidenti. Ma con D’Amato collaborò anche il ministro-ombra dell’Interno, il comunista Ugo Pecchioli, durante i governi di solidarietà. E lo stesso Enrico Berlinguer non risulta ne abbia chiesto la testa.

Iscritto alla P2

D’Amato fu molto esigente nel chiedere a tutti i governi il rispetto di alcune prerogative. La prima: quella di poter compiere indagini, raccogliere informazioni, fare fermi, indicare piste e reclutare il personale. Dunque, una libertà d’azione inedita e non ripetuta nella storia dell’amministrazione della polizia.

La seconda sembra altrettanto incredibile: non mettere a disposizione dei magistrati le carte raccolte, le persone responsabili di crimini, i disegni di delegittimazione e addirittura di sfascio delle istituzioni. Come succederà nelle stragi di Milano e di Brescia.

Quando nel 1974 D’Amato venne trasferito a un incarico apparentemente diverso da quello della direzione dell’Uar, chiese, e ottenne, di potersi occupare: «dalle origini, la natura, i collegamenti internazionali del terrorismo, al caso Moro; dalla strutturazione, competenza, funzionamento dei nuovi servizi segreti, al mantenimento e sviluppo di rapporti con i servizi paralleli e alleati».

Per svolgere questi compiti di natura informativa ritenne opportuno iscriversi anche alla P2. Ed ebbe diversi rapporti personali diretti con Licio Gelli.

Amò definirlo «un cretino che diceva delle tremende banalità…».

Agli inizi degli anni Novanta, deponendo alla Corte d’assise di Roma, descrisse Licio Gelli come un difensore del governo fondato sull’intesa Dc-Psi dal quale traeva molti miliardi e grande potere: «Mi è sembrato piuttosto un uomo di potere, un uomo di affari che non mi pare avesse un interesse particolare a rompere un sistema nel quale stava così bene».

Il prezzo da pagare

I propositi e le speranze riformatrici dell’antifascismo furono pagine sùbito strappate dopo il 25 aprile 1945. I governi guidati da De Gasperi, nel cercare di arginare l’espansione dei comunisti, curarono in qualche modo il restringimento dei diritti di libertà, il mancato rispetto della pari dignità e uguaglianza, la non discriminazione dei cittadini iscritti o elettori del Pci.

Si ama, però, tacere sul fatto che proprio chi ne fece il maggiore uso, Mario Scelba, nel febbraio 1955 non volle stravincere. Si oppose, infatti, all’adozione di un provvedimento legislativo per porre fuori legge il Pci.

Il che fu oggetto di una discussione tra Taviani, allora ministro della Difesa, Mario Scelba, Giuseppe Saragat e Gaetano Martino, sulla base della documentazione relativa ai finanziamenti sovietici al Pci fornita dal capo del Sifar, il generale Ettore Musco.

Per quale ragione, dunque, si continua nel vezzo un pò carnascialesco di stracciarsi le vesti e concentrare ogni ostilità e denigrazione sul solo D’Amato? Sicuramente non fu in grande sintonia con i valori dell’Italia anti-fascista, ma da essa fu liberamente e lungamente cooptato e confermato.

D’Amato si attribuì un reddito mensile di cinque milioni di lire (e altrettanto per ogni singola consulenza). E guadagnava 300 milioni all’anno con la stampa, la tv e i pareri peritali.

È il prezzo che lo stato repubblicano ha ritenuto di dovere pagare ad un «personaggio, peraltro, certamente dotato di rare capacità, a suo modo poliedrico, forse sfuggente, mai banale però», come una studiosa molto misurata nei giudizi come Giovanna Tosatti riconosce a questo inquietante poliziotto. Soprattutto legato al governo di uno stato federale oltreatlantico più che a quello unitario del Mediterraneo.

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