In queste ultime settimane si è molto parlato, e polemizzato, intorno al fenomeno del catcalling. Hanno preso la parola – com’è giusto – donne di tutte le età, che lo conoscono bene, talvolta, purtroppo, quasi fin dall’infanzia; sono state, alternativamente, ascoltate, sbertucciate, lodate per il loro coraggio o tacciate di vittimismo, con tutta la foga che si dispiega ultimamente nell’agorà delle discussioni da social, in un periodo poi in cui la vita sociale di tutti soffre un po’.

Perché?

Ho letto, ascoltato, discusso pure io; e intanto si è fatta strada nella mia testa una domanda che non mi ero mai posta – nonostante la colorita varietà di “complimenti” che complimenti non erano, che mi sono sciroppata dall’inizio della pubertà a oggi. Io lo so come mi sento, quando qualcuno mi grida oscenità o mi lancia versi disgustosi dall’altro lato della strada; so anche come mi sento quando mi vengono urlate cose che mio malgrado mi fanno ridere. Ma la domanda è: che forza muove gli autori di queste moleste galanterie? Chi glielo fa fare? Credo che nessuno possa pensare di ottenere alcunché, a livello seduttivo. Certo, potremmo dare la colpa al patriarcato e non avremmo torto, perché è senz’altro vero che il fenomeno ha le sue radici in un’atavica cultura maschilista che confonde offesa e omaggio, e considera l’infastidire le donne come una prerogativa maschile. Ma è una risposta che non mi soddisfa del tutto, mi dà l’impressione di entrare in una di quelle zone opache in cui tutte le vacche sono nere.

Perché, malgrado il ragionamento non faccia una piega, continua a sfuggirmi cosa riesca di fatto a spingere una persona a rendersi tanto ridicola e irritante. A colpirmi per il loro carattere enigmatico sono infatti proprio i casi più innocui, diciamo, quelli in cui l’approccio si misura con il metro del purissimo fastidio: quanta confusione, di percezione, di priorità, di opportunità, porta a elaborare e lanciare avances già condannate al fallimento? Quale distorto senso della realtà può indurre a esporsi con un tale sprezzo dell’imbarazzo?

Ho cercato di venirne a capo interrogando una pittoresca galleria di personaggi di commedia, inventati e interpretati da uno dei miei attori e registi del cuore, Carlo Verdone. E se mi rivolgo alla commedia non è perché non ho voglia di prendere sul serio la faccenda, al contrario: è che sono persuasa della profonda serietà del comico. Che, con la protezione della risata, infallibile nell’assorbire quel tanto di aggressività che permette di essere sinceri senza offendere, di dire la verità e di esporsi in un modo che sia liberatorio e non censorio né moralistico, esplora limiti e miserie dell’umanità. E, in questo caso, di una certa idea di mascolinità.

Campione di catcalling

Vero campione di catcalling verdoniano è Armando Feroci, bolso agente immobiliare protagonista di Gallo Cedrone, un film amaro e a tratti grottesco, che si rischiara in qualche sprazzo di delizioso iperrealismo, come la visita alla casa fatiscente che il Feroci cerca di presentare alla sua ingenua cliente come una potenziale reggia, citando a sproposito la Divina commedia e bersagliandola di luoghi comuni – ma la modernità de Dante? Il momento più angosciante del film è quello in cui Feroci sfodera un arsenale di elaboratissimi apprezzamenti con cui, al volante della sua decappottabile, bersaglia le passanti, ricevendone in cambio disprezzo e scorno. I commenti sono esagerazioni comiche di un filone che, posso testimoniare, esiste davvero: quello della molestia barocca, dall’architettura complessa e surreale, vero e proprio esercizio di stile del fastidio.

Quello che però rimane, di questa scena che fa ridere ma soprattutto fa sentire tutta l’imbarazzante solitudine, tutta l’incapacità di vedersi dall’esterno di quest’uomo di mezza età che guida una macchina di cui va chiaramente fiero per ragioni di compensazione, troppo abbronzato, troppo basettone, troppo tutto, e in particolare troppo solo, è il senso di una persistente disperazione.

Galletti di periferia

Più tenero, e in un certo senso più realistico, interprete di un machismo da bar che nasconde (non potendo ammettere cedimenti nella presunta implacabile superficie, tanto che quando un regista lo etichetta «faccia da buono», l’offesa è profondissima) un tremendo senso di inadeguatezza e una gran paura delle donne, è l’Oscar Pettinari di Troppo forte: aspirante stuntman che bivacca agli studi di Cinecittà, vantandosi di inverosimili avventure esotiche e di una straordinaria quanto improbabile resistenza ai veleni e a qualsiasi umana debolezza, offre a ignari avventori lezioni di flipper in cui paragona a gran voce lo stile di gioco a ‘n’amplesso, salvo poi rivelare la sua inesperienza e un certo timore reverenziale per le donne non appena si trova ad avere a che fare con una ragazza in carne e ossa.

Il galletto di periferia che a parole racconta avventure mirabolanti e millanta esperienze da far impallidire don Giovanni, ma si rivela infine un insicuro atterrito dalle ragazze, è evidentemente caro a Verdone, che in Acqua e sapone affida questo ruolo al vicino di casa rosso come un gambero (Fabrizio Bracconeri), personaggio piuttosto squallido, deplorevole per molti aspetti, ma che pure, visto in questa prospettiva, fa una certa tenerezza o, almeno, un po’ pena – fermo restando che, come dice alla fine di Compagni di scuola il bellissimo personaggio della psicanalista (Athina Cenci), nella luce dell’alba che segue una notte di scaramucce, se c’è qualcuno per cui è il momento di darsi da fare sono le ragazzine, come Cristina (Natasha Hovey), contesa senza che nessuno la comprenda. D’altronde, poi, stare davvero dalla parte delle bambine significa anche educare i maschi a rispettarle e a rispettare sé stessi liberandosi dal modello introiettato di un machismo farlocco.

Insicuri cronici

In questo solco, direttamente lancinante è la solitudine di Enzo: seduttore senza scrupoli a parole, in realtà insicuro cronico. L’indimenticabile coatto di Un sacco bello, che entra in scena appena uscito dalla doccia del suo triste alloggio-ostello con bagno al piano, e si veste a ritmo davanti allo specchio, senza trascurare l’imbottitura all’inguine e la camicia sbottonata con catena scelta fra una pletora di finti ori tutti simili, ha la macchina attrezzata per un viaggio all’Est, fino in Polonia, con penne biro e calze di nylon come merce di scambio, sedili reclinabili e accendisigari pronto; ma quando l’unico amico che ha accettato di accompagnarlo, e che lui non sapeva essere sposato – non erano, dunque, nemmeno amici! – è vittima di una colica e lo pianta in asso, lui, da solo, senza la spalla che gli dava tutta la sicurezza cercata invano nell’armamentario da aspirante sciupafemmine, con le sue storie gonfiate come i jeans, si sente cadere il mondo addosso. La sua agendina, desolatamente deserta, con Olimpico, Stadio alla lettera O e Stadio Olimpico alla S, è uno spettacolo che stringe il cuore. Le biro, allora, e le calze, si rivelano per quello che sono: surrogati di disperazione.

In Viaggi di nozze, la straordinaria coppia di tamarri Ivano e Jessica mette in scena, in nome di un “cambio di immagine”, una posticcia seduzione al ristorante, per rinvigorire con nuova linfa l’attrazione reciproca. Entrambi si fingono la versione più raffinata di sé stessi: ma se Jessica (Claudia Gerini) è deliziosamente nella parte – con l’eccesso di zelo di coprirsi la bocca con la mano quando mangia una banana – Ivano rovina tutto per via dell’insicurezza che lo rende incapace di rispettare i tempi della seduzione.

In questa galleria di disperazioni maschili, che la commedia rivela senza che ci dobbiamo indignare per forza, concedendoci di riconoscerle umane quanto siamo tutte e tutti, la luce ce la mostra il finale perfetto del film forse più perfetto di Verdone, Borotalco. Dove il goffo Sergio Benvenuti, che si è finto, con conseguenze deleterie ma perdonate, lo sbruffone, l’avventuriero, il machissimo Manuel Fantoni per sedurre Nadia Vandelli, ovvero Eleonora Giorgi, la rivede dopo averla persa quando lei ha scoperto il bluff. Ora sono tutti e due sposati, imprigionati in vite un po’ grigie con i rispettivi fidanzati di una vita; ma quando si ritrovano, su una scala esterna fuori da casa di lei, è proprio Nadia a chiedergli di mettersi a giocare al seduttore, di nuovo, per tornare a credergli per gioco. E alla fine, l’imbranato Sergio Benvenuti, quello che potrebbe sempre “fare di meglio”, è riscattato, per una volta, dalla grazia del desiderio a cui risponde.

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