Mio figlio ha detto: buona festa del papà. Il gioco che mi ha regalato si chiama Shangai. Un astuccio di legno con dentro tanti bastoncini colorati. Ci siamo messi seduti sul tappeto del salotto a giocare. Mio figlio mi ha spiegato le regole contento. Probabilmente mi ha regalato qualcosa che piacesse anche a lui. I bastoncini vanno fatti cadere tutti insieme e poi sfilati uno alla volta. Se nel groviglio tocchi un altro bastoncino devi passare la mano. Ogni colore rappresenta un punteggio diverso. Il bastoncino nero dà un sacco di punti. Una roba chirurgica. Se perdi la concentrazione è quasi sicuro che passerai la mano.

Gioco snervante

Alla tivù parlano di Putin e della minaccia atomica. Mio figlio dice: tocca a te. Ogni tanto mia moglie viene a dare un’occhiata e poi torna di là. Sento lo sciabordio dei piatti nell’acqua insaponata. Cerco di sfilare un bastoncino rosso. Mio figlio m’incalza: sei troppo lento, ti trema la mano. Prendo la sigaretta dal posacenere e do una boccata. Il fumo mi va negli occhi. Fumare durante una partita di Shangai non è una buona idea. Poggio la sigaretta sul bordo del posacenere e torno a concentrarmi sul bastoncino rosso. Non è semplice prenderlo ma mi sembra di non avere alternative.

Mia moglie torna in salotto. Dico: questo gioco mi snerva. Poco dopo lei dice: è l’ora. Io annuisco con la testa. Poi però dico: non è ancora presto? Mia moglie mi guarda come se lo facessi apposta. Mi dice: dai, sbrigati. A quel punto il mio bastoncino rosso tocca un altro bastoncino. Mio figlio esulta e io gli dico che dobbiamo interrompere la partita. Fa un po’ di storie e allora dico: lasciamo tutto com’è, adesso preparati per andare a letto. Fa ancora un po’ di storie. Sottolineo: è la festa del papà, stasera facciamo a modo mio. Mi accorgo che la sigaretta nel posacenere non è finita. Mia moglie mi accompagna alla porta. Mi dice: andrà tutto bene. Io annuisco, anche se avrei preferito il lavoro sul mare. Tre mesi in uno stabilimento. Troppo poco, tre mesi. In strada butto il filtro della sigaretta in un tombino.

La divisa fantasma

L’albergo l’avevo già visto durante il colloquio. Dietro la reception c’è un back-office con due bagni. Uno per le donne, uno per gli uomini. Entro in quello per gli uomini. Il collega dalla reception mi dice: l’hai trovata? Io rispondo di sì. Mi tolgo i vestiti e li appendo sulle grucce. Alzo la voce: non credevo che anche il portiere di notte avesse una divisa. Il collega ridacchia. Giacca e pantaloni sono neri, di vigogna (pura lana 100%). La camicia color crema, di popeline (puro cotone 100 per cento). La cravatta è di seta scura. Leggo velocemente le etichette all’interno. In generale credo di stare bene. Mi rimetto le scarpe e raggiungo la reception. Io e il collega parliamo. Gli dico che la pelletteria dove lavoravo ha chiuso i battenti. Che non ci hanno dato il preavviso. Che nessuno vuole più fare certi lavori.

Viene fuori che la divisa che indosso la usava un tizio che adesso fa lo scrittore. Un tizio che ha vinto dei premi letterari importanti e che adesso è osannato dalla critica. Il collega alza le spalle: di colpo gli è girata bene. Io mi guardo la giacca. Noto alcuni dettagli. Ha tre bottoni, spacchi laterali, due tasche e un taschino. La taglia è perfetta, comunque. Il collega mi ripete cosa devo fare per forza e cosa posso tralasciare. Gli sembrano molto importanti le cose che posso tralasciare. Come se a me interessassero soltanto quelle. Forse è vero, però mi infastidisce.

Alla fine della tirata il collega fa ok con la mano e dice: ok? Io gli rispondo: ok. Rimango solo, finalmente. Mi sento emozionato. Fisso la macchinetta delle bibite proprio davanti a me. Sopra c’è l’immagine di una cascata che sgorga cristallina da una roccia. Ce l’hanno messa per far venire sete. Aspetto di essere battezzato dal mio primo cliente. Ma non arriva ancora nessuno. Il collega me l’ha detto che di solito rientrano più tardi. Fuori passa qualche macchina. Dentro c’è il ronzio dei monitor e dei neon. Noto che quando il tempo non passa mi concentro sui rumori. Torno nel back-office. Mi prende la curiosità di aprire il bagno delle donne.

Sulle grucce ci sono le divise delle mie colleghe. Non ne conosco neanche una, però posso familiarizzare con le divise. Anche loro hanno giacche e gonne di vigogna (pura lana 100 per cento). E camicette color crema di popeline (puro cotone 100 per cento). Al posto della cravatta hanno dei foulard molto eleganti. Passo la mano sui tessuti. Esterno e interno. Quando passo la mano sotto le gonne ho un fremito di eccitazione. Poi sento squillare il telefono del centralino. Dico: buonasera. Una voce femminile chiede informazioni. Il prezzo di una camera matrimoniale, l’indirizzo dell’albergo. Concludo dicendo ancora: buonasera. Torno a fissare la cascata d’acqua bianca sopra la macchinetta delle bibite. Mi chiedo quante volte sarò costretto a guardarla. Mi viene in mente anche il lavoro allo stabilimento che non ho potuto accettare. La brezza del mare. D’improvviso mi sento stanco, e non ho fatto ancora nulla. Ho caldo tutto infagottato. L’emozione si trasforma in una leggera ansia. Anche il fatto che la mia divisa fosse di uno scrittore non mi mette a mio agio. Cerco di trovare spazio e aria, mi allento il nodo della cravatta.

Il tenore

Aspetto un’ora, forse di più, prima che arrivi un cliente. Chiedo il documento per la registrazione. Apro il programma sul computer. Forse sono un po’ impacciato, perché il cliente mi squadra dall’alto in basso. Come se non si fidasse, o non mi trovasse all’altezza. Decido di ammetterlo: mi scusi, è la prima notte. Il cliente dice: si figuri. Lo dice solo per educazione, è lampante. Ha un aspetto corpulento e un papillon al collo. Le guance rubizze. Ha l’aria di essere un tenore o qualcosa del genere. Il passaporto non si esprime al riguardo. Siamo quasi coetanei, di questo ho la certezza.

Gli porgo la chiave con sussiego e indico la strada per la camera. Il tenore domanda: posso avere la sveglia? Fisso tutti i pulsanti del centralino. Mi è stato spiegato come fare. Devo farlo. Dico: certamente. Mi appunto l’orario su un post-it. Se non riuscirò a programmare la sveglia del centralino potrò sempre chiamare la camera all’ora indicata. Sono una maschera di sudore. Mi chiedo chi me lo faccia fare e penso a mia moglie e a mio figlio. Penso anche allo Shangai sul tappeto del salotto. Alla partita che dovrò riprendere e che probabilmente perderò. Mi tolgo la giacca, poi me la rimetto.

Artisti

Chissà com’è la vita di uno scrittore di successo. Uno scrittore che ha vinto premi importanti e che è osannato dalla critica. La scrittura dev’essere come lo Shangai. Un lavoro di pazienza per estrarre la frase giusta dal groviglio delle frasi possibili. Chi becca il bastoncino nero ce la fa. Rientrano parecchi clienti, uno dopo l’altro. Consegno le chiavi. A volte dico: buonanotte. Altre volte non dico niente. Sorrido e mi sforzo di essere gentile con tutti. Penso ancora allo scrittore che indossava la divisa prima di me. Ci penso costantemente. Quando metto la carta nella stampante o mi accorgo che un cliente mi guarda in maniera insistita, penso che anche lo scrittore metteva la carta nella stampante o era guardato in maniera insistita da un cliente.

Poco dopo il tenore torna alla reception. Si fruga in tasca e inserisce una moneta nella macchinetta per le bibite. Il collega me l’aveva detto che il frigobar in camera è sfornito. I clienti di un posto del genere non dovrebbero permettersi di guardare con sufficienza il portiere di notte. Il tenore sorseggia una Coca-Cola. Forse non riesce a prendere sonno. Dico: non riesce a prendere sonno? Il tenore è soddisfatto della domanda. Risponde: magari lei vorrebbe dormire e invece non può. Ci guardiamo. Alla fine del turno mancheranno quattro o cinque ore. Non sono neanche a metà dell’opera. Il tenore parla ancora: a parte questo, si occupa di qualcos’altro? Continuo a guardarlo. Neanch’io forse dovrei guardarlo così, come un artista che guarda un altro artista.

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