È il 3 luglio 1971 quando Jim Morrison muore, a soli 27 anni, nella vasca da bagno di un appartamento di Parigi, dove stava cercando di rimettere in sesto la sua vita. Novello Marat del rock’n’roll, spegne la sua fiammante parabola nella purificazione dell’acqua. Una morte simbolica e misteriosa che contribuisce al mito dell’artista maledetto, redivivo Dioniso del rock.

Le versioni contrastanti sulla sua ultima notte e la rapida sepoltura avvenuta senza la presenza di amici e famiglia hanno alimentato una leggenda che, a cinquant’anni esatti di distanza, non sembra essersi esaurita.

La tomba al cimitero di Père-Lachaise è ancora un vero e proprio luogo di culto, dove tutto il popolo del rock va in pellegrinaggio. Sulla lapide di James Douglas Morrison campeggia la frase in greco “katà tòn daìmona eautoù”, seguendo il proprio demone: e non si può negare che il leader dei Doors abbia vissuto la sua breve esistenza rimanendo fedele al proprio daimon, al proprio demone.

Il paradosso dei meme

La biografia di Morrison è spesso diventata l’agiografia di un santo luciferino: si affastellano storie e testimonianze che ricostruiscono i pochi anni fulgenti di una figura carismatica che, soprattutto post mortem, ha assunto per tanti il ruolo di vate e di sciamano.

Morrison è stato oggetto di infiniti saggi e tesi di laurea intenti ad analizzare i riferimenti culturali presenti nella sua produzione. E soprattutto, in un’infernale legge del contrappasso, è diventato ciò che non voleva: un’innocua icona pop da citare sui social network, l’autore dei più astrusi aforismi perfetti per un meme su Facebook.

Uno, nessuno, centomila Morrison. Figlio di un ufficiale della marina americana, James ha aderito sùbito al clima di irrequietezza e di insofferenza per le istituzioni, alla voglia di distruzione e di affermazione che ha segnato un’intera generazione. Morrison studia alla Ucla, alla Facoltà di arti drammatiche di Los Angeles, dove insegue il suo sogno di fare cinema. È un vorace lettore e i suoi riferimenti culturali sono poliedrici, vanno dal beat americano ai maudits francesi, da Jack Kerouac ad Arthur Rimbaud; dalla filosofia alla poesia romantica, da Friedrich Nietzsche a William Blake. Lo testimoniano i libri presi in prestito dalla biblioteca e le annotazioni sul suo diario, in cui scrive febbrilmente appunti e poesie da cui prenderanno vita molte delle future canzoni.

Nascita dei Doors

I Doors nascono nel 1965: con Ray Manzarek, Robby Krieger e John Densmore. Il nome della band riprende il titolo di un libro che diventerà un feticcio delle ricorrenze sessantottine: The Doors of Perception, Le porte della percezione, pubblicato da Aldous Huxley nel 1954. Il titolo di Huxley, a sua volta, è una citazione dei versi di William Blake, tratti da The Marriage of Heaven and Hell, che campeggiano come esergo: «If the doors of perception were cleansed, everything would appear to man as it is, infinite». Se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all’uomo come essa veramente è, infinita.

E proprio l’enigmatico poeta e incisore inglese diventa uno dei riferimenti della poetica di Morrison, Il matrimonio del cielo e dell’inferno (edito in Italia con una traduzione del 1930 di Giuseppe Ungaretti) è una chiave interpretativa di tutta la filosofia dei Doors.

“Senza Contrari non c’è progresso – scrive Blake – Attrazione e Ripulsa, Ragione e Energia, Amore e Odio sono necessari all’Umana esistenza”. Blake riprende implicitamente un’antica tradizione gnostica dove la realtà è data dalla convivenza e dalla compenetrazione tra luce e tenebra, tra bene e male, tra paradiso e inferno. Una prospettiva che fonde filosofia orientale e sapienza occidentale e che Morrison incarna perfettamente.

Il primo disco esce nel gennaio del 1967 ed è una sequenza di undici tracce indimenticabili. Il primo pezzo, Break on through, fa da apripista. L’invito, incalzato da un ritmo rock spietato, è chiaro: apri un varco, vai dall’altra parte, varca il muro e accedi a un lato invisibile e imperscrutabile del reale!

«Il giorno distrugge la notte e la notte divide il giorno». Nella figura di Jim Morrison scorrono forze contrastanti e ipnotiche che richiamano l’antico culto di Dioniso; un disordine dell’animo che evoca la dinamica duale tra pulsioni erotiche e pulsioni distruttive raccontate dalla psicanalisi freudiana. Ma c’è qualcosa di più, qualcosa di nuovo, qualcosa di perturbante che affascina e spaventa, che seduce e inquieta.

End of the night. Un viaggio al termine della notte, direbbe Louis-Ferdinand Céline, che non è in sintonia con il mood effusivo e pacifico della Summer of love: i versi oscuri e le interpretazioni ipnotiche di Morrison parlano senza censure di amore e morte, degli eccessi della natura umana e dell’incomprensibilità del mondo.

Waiting for the sun. L’attesa del sole è assediata dai fantasmi del passato e dagli eccessi del presente accentuati da un precoce abuso di droghe e di alcol perché, come canta in Roadhouse blues, «il futuro è incerto e la fine sempre vicina». Morrison gioca incestuosamente con il successo, ne è attratto e lo rifugge temendo di diventare un mero fenomeno di intrattenimento: «siete tutti degli schiavi» grida dal palco cercando di scuotere il pubblico e di placare i propri demoni.

Vita e teatro

Non è un caso che le sue performance più dirompenti ed eversive siano ispirate dalla visione dello spettacolo di una delle avanguardie teatrali degli anni Sessanta, il Living Theatre. Judith Malina e Julian Beck in quegli anni mettevano in scena il rivoluzionario Paradise now, una performance simbolo del maggio francese, una protesta politica e una liberazione esistenziale, ma anche un’esplosione di fisicità in cui gli attori ballano e si spogliano portando sul palco studenti, artisti, vagabondi e persone comuni in un’esplosione di gioia paradisiaca e di violenza infernale.

Il Living insegna che, al di là del testo e della parola, c’è il corpo: il corpo dell’attore e il corpo dell’artista, il corpo del carnefice e il corpo della vittima. Il Re lucertola, colui che “può fare qualsiasi cosa”, apprende la lezione: sul palco non usa solo la voce, ma tutte le energie crudeli ed erotiche del corpo. La sua danza dionisiaca, la sua straniante immobilità, i suoi movimenti ebbri, la sua energia bacchica, i suoi versi animaleschi, le sue smorfie malinconiche.

I concerti – in sei anni di carriera, Morrison si esibisce poco più di 200 volte dal vivo – sono puro “teatro”, nel senso più antico del termine: un rituale sacro, un sacrificio violento e purificatore.

Aprire le “porte della percezione” significa mettere in scena un rito divinatorio e sciamanico che libera la psiche e modifica gli stati di coscienza. Il sogno di trascendere la propria coscienza e di andare al di là dell’Io non è un’invenzione della stagione psichedelica, non è una trovata edonista che implica l’assunzione di sostanze chimiche. Aldous Huxley, nel testo in cui racconta i suoi trip sotto gli effetti della mescalina, lo spiega senza mezzi termini. Trovare una “potenza trasportatrice” è stato da sempre l’obiettivo delle pratiche religiose e degli esercizi spirituali, così come delle più importanti opere dell’arte di tutti i tempi.

E l’umanità non sarà mai in grado di «fare a meno dei paradisi artificiali». «La maggior parte degli uomini e delle donne – scrive il nostro Huxley ne Le porte della percezione – conduce una vita, nella peggiore delle ipotesi così penosa, nella migliore così monotona, povera e limitata che il desiderio di evadere, la smania di trascendere sé stessi, sia pure per qualche momento, è stato sempre uno dei principali bisogni dell’anima». Ma questo viaggio nell’altrove è stato impedito da un’educazione “preminentemente verbale” tutta fatta di parole e di nozioni, senza nessun riferimento al corpo e alle emozioni. Le “dotte follie della ricerca”, tutte concentrate su note a piè di pagina ed erudite bibliografie, hanno trascurato e dimenticato il corpo e la percezione.

Jim Morrison, più o meno scientemente, risponde a quell’originario “bisogno dell’anima”. La sua opera e la sua vita sono un “paradiso artificiale” in cui – oggi come ieri – possiamo vivere un’esperienza visionaria e mistica che ci conduce al di là dei limitanti confini della ragione.

This is the end, beautiful friend. This is the end, my only friend. The end.

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