Dopo l’Uefa tocca alla Fifa. Nel giro di due mesi la federazione calcistica ungherese (Mlsz) va incontro al secondo procedimento disciplinare e a una probabile seconda sanzione a causa delle intemperanze inscenate dalle frange più estreme del tifo da stadio. E questo punto non si tratta più di una questione da demandare agli organi di giustizia sportiva delle confederazioni internazionali. Perché la sistematicità degli episodi di razzismo, omofobia e ogni altra forma di intolleranza cui si assiste durante le partite casalinghe dell’Ungheria deve spingere la riflessione su un piano diverso. Portando a interrogarsi su quale sia, in questa fase storica, il ruolo del radicalismo da stadio nella democrazia europea che più di tutte sta osando sulla strada dello smantellamento dei diritti della persona e delle libertà civili.

Le scene cui si è assistito nella sera di venerdì 3 settembre, durante la gara fra Ungheria e Inghilterra giocata alla Puskás Arena di Budapest e valevole per le qualificazioni ai mondiali di Qatar 2022, sono state disturbanti ma in fondo annunciate. C’era da aspettarsi che parte dello stadio fischiasse il gesto dei calciatori inglesi di inginocchiarsi al momento del calcio d’inizio, in onore del movimento Black Lives Matter.

C’era da aspettarsi anche che i calciatori inglesi dalla pelle nera venissero fatti oggetti di insulti e versi di stampo razzista. E infine, non si sarebbe certo rimasti sorpresi dall’assistere a qualche gesto di puro teppismo, come il lancio di oggetti in campo all’indirizzo dei calciatori avversari. Nella fattispecie si è trattato di bicchieri di plastica ma anche di un fumogeno. Tutto come da copione, purtroppo. Ma fatto in una misura che comunica un senso di impunità e arroganza. Come se i gruppi protagonisti di quei gesti si fossero presi un ruolo fisso sulla scena, diventando parte degli appuntamenti agonistici in cui è impegnata la nazionale allenata da Marco Rossi.

La retorica della persecuzione

Gli episodi avvenuti durante Ungheria-Inghilterra hanno richiamato l’attenzione dei media internazionali e soprattutto della Fifa. Che immediatamente ha diffuso una dichiarazione ufficiale per annunciare l’apertura di un provvedimento disciplinare e rimarcare la propria posizione di totale avversione su ogni manifestazione di razzismo, intolleranza e violenza. A quale esito porti l’azione della Fifa, lo sapremo nelle prossime settimane. Per adesso sappiamo che, in materia di procedimenti disciplinari relativi a manifestazioni di razzismo e intolleranza, la Mlsz è recidiva.

Durante gli Europei itineranti degli scorsi mesi di giugno e luglio si è assistito a scene analoghe nel corso della partita fra Ungheria e Francia, giocata anch’essa alla Puskás Arena. Ne erano scaturiti un procedimento disciplinare da parte dell’Uefa e una sanzione di tre gare casalinghe da giocarsi a porte chiuse in ambito di competizioni organizzate dalla confederazione calcistica europea.

Il precedente è importante e non soltanto per l’influenza che potrà avere quando dovesse essere irrogata la sanzione della Fifa. Lo è soprattutto perché segnala l’assenza di deterrenza delle sanzioni disciplinari comminate dalle autorità sportive internazionali. Chi ha compiuto certi gesti sapeva a cosa può andare incontro. Ma ha deciso di compierli comunque. E anzi, dal suo punto di vista, questa sequenza provocazione-repressione si inquadra in uno schema di azione che cerca lo scontro come elemento di legittimazione e alla lunga porta a esprimere una retorica della persecuzione. Perché nei confronti di chi dice “siete sempre voi”, la risposta è “ce l’avete sempre con noi”. Ciò che innesca una spirale della contrapposizione il cui principale scopo è quello di confondere gli effetti con le cause e rovesciare sulla parte avversa la responsabilità del conflitto e dello stato di tensione.

Si è già visto altrove, quando sono coinvolti i gruppi più estremi del radicalismo da stadio. Ma in Ungheria si vede in special modo, poiché da quelle parti le frange del radicalismo da stadio rivendicano ormai un ruolo e un posizionamento politico da avanguardie organizzate del regime politico illiberale di Viktor Orbán. Come fossero le milizie di una politica proseguita con altri mezzi. Per questo sfruttano la scena delle gare internazionali, come a urlare in faccia al resto dell’Europa la loro fedeltà a un regime politico messo sotto pressione sul versante esterno.

Le solite mele marce

In questo contesto, le reazioni della stampa locale danno la misura di quanto una situazione così grave sia stata metabolizzata e infine normalizzata. Le notizie dei giorni successivi parlano dell’individuazione di due protagonisti degli incidenti, che saranno perseguiti con provvedimenti della Mlsz. Dunque, male che vada, staranno per un po’ fuori dagli stadi ungheresi.

Cosa (e se) rischino in termini penali, non è dato sapere. Tanto più che l’individuazione delle due “mele marce” ha trovato spazio nel mare magno di una narrazione in cui si è detto che la quasi totalità dello stadio ha tenuto un contegno civile e composto, e ha persino applaudito gli inglesi. Un’auto-assoluzione di massa che certifica le condizioni da brodo di coltura in cui il radicalismo da stadio ungherese cresce e si consolida. Si tratta di un fenomeno politico a tutto tondo, come qualsiasi cosa venga espressa dal mondo del calcio che a sua volta è uno fra i fenomeni più politici di cui si possa fare esperienza in questo passaggio d’epoca.

Pensare di combatterlo con qualche gara a porte chiuse, o con la temporanea sospensione della rappresentativa nazionale dalle competizioni internazionali, significa pretendere di andare in battaglia con le pistole spara-bolle di sapone.

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