Daria si sveglia di ottimo umore. Le pareti odorano ancora di vernice, il parquet di colla e i vetri delle finestre sono splendenti. Si prepara il caffè con un fare cerimonioso che la mette in imbarazzo, ma poi le sembra giusto celebrare il momento: la prima notte che è riuscita a dormire nella sua casa nuova. Cerca l’orgoglio nella stanchezza degli ultimi mesi: le discussioni con la banca, con gli operai, con gli addetti del gas. Tutta l’arroganza degli uomini, pensa. Tutte le volte che si è sentita chiamare signorina da imbonitori professionisti. Tutte le volte che ha tenuto il punto. Tutte le volte che non ha telefonato a Michele, il suo ex fidanzato, per farsi dare una mano.

E adesso è lì, nella luce perfetta della mattina, l’esposizione a est, il panorama sgombro da altri palazzi, i rami del nespolo che lambiscono il davanzale («Dovresti farlo potare» le avrebbe detto Michele). Si veste in fretta per scendere al bar a fare colazione e fuori dalla porta trova un cetriolo infilato in un preservativo. 

Il dono le è stato depositato sullo zerbino col gatto e la scritta wellcome che le ha regalato sua madre, benché Daria odi i gatti e gli errori di spelling. Ma se è per questo odia anche sua madre. Fissa l’oggetto e rimane paralizzata sulla soglia. Richiude la porta col cuore che le pulsa in un occhio. Si versa altro caffè. L’affettazione dei gesti l’ha abbandonata, e ne rovescia metà sul tavolo. Chiama un’amica: non si rivela né una grande stratega, né di grande utilità.

«Sì, ho capito che è assurdo – sbotta Daria, – e quindi che cazzo devo fare?»

L’amica si è proposta di accompagnarla dalla polizia, Daria non ha voglia di incontrare altri uomini dai quali farsi chiamare signorina. Si prefigura il verbale, la descrizione del ritrovamento: un ortaggio crudo afferente alla categoria dei cetrioli infilato in una guaina di lattice avente l’aspetto di un profilattico. Le domande a cui non saprebbe rispondere: «Signorina, il preservativo era usato?»

Pensa che dovrebbe almeno approfondire le informazioni, conoscere le risposte, a prescindere dalla polizia. Tuttavia, non sa bene quali inferenze trarne da un’analisi più accurata. È davvero così rilevante se il preservativo sia usato o meno? E comunque le sembra difficile allargare un preservativo usato tanto farlo aderire a un cetriolo di medie dimensioni. Deve sentirsi rincuorata dal fatto che con buona probabilità si tratti di un preservativo appena scartato dalla confezione?

Prende un pezzo di Scottex e pulisce il caffè dal tavolo con una sensazione sgradevole, come se il caffè si fosse trasformato in una sostanza sordida. Stacca altri pezzi di Scottex e se li arrotola intorno alla mano. Sono le dieci di mattina, vuole rimuovere il cetriolo prima che possa essere notato da qualcuno dei vicini. Non le sembra il modo migliore per fare il suo ingresso in quel condominio. O sono stati proprio loro – si chiede – ad averle dato quel monito di benvenuto? A ricordarle che – fino a prova contraria – è un’intrusa?

Ha conosciuto solo la signora che abita al piano di sotto, una donna anziana con due figli grandi a carico, un siparietto di disagio familiare da cui vuole tenersi alla larga. La vecchia si era lamentata per il rumore, per la polvere, per la nazionalità degli operai, lei l’aveva rassicurata che avrebbe fatto rispettare gli orari lavorativi, la sacralità del riposino pomeridiano. Ma non si è concessa altre smancerie, ha risposto a monosillabi all’interrogatorio sulla sua vita – «Viene a vivere qui da sola?», «Porta animali domestici?», «Dove pensa di metterla la bicicletta?» – subendo l’inquisizione con un sobrio stoicismo che non dava adito a confidenze future.

Eppure non le sembra plausibile che una donna anziana possa architettare un simile scherzo. O è stato forse uno dei suoi figli? Li ha visti solo ciondolare di ritorno dalla spesa, sempre ingrugniti, ma dall’aria innocua. O il dirimpettaio? Una guardia giurata fieramente taciturna che non l’ha mai degnata di uno scambio verbale, pur tenendole il portone aperto per lasciarla entrare. L’idea di abitare sullo stesso pianerottolo con un uomo armato era stato un elemento di inquietudine, persino uno dei motivi che l’aveva spinta a dubitare dell’acquisto della casa, ma se è un uomo che dispone di una pistola perché mai dovrebbe minacciarla con un cetriolo?

Daria torna verso l’ingresso, apre la porta e si china a osservare il cetriolo. Allunga la mano, gli dà appena un buffetto protetta dallo Scottex, e si ritrae di impulso. Non riesce a raccoglierlo. Non si capacita di come un cetriolo possa apparirle tanto minaccioso e ripugnante, prova di nuovo ad allungare la mano, niente da fare. Si domanda se sia il preservativo a conferirgli quella forza sinistra, se un semplice cetriolo sprovvisto di guaina le sarebbe apparso meno intoccabile. E se invece avesse trovato soltanto un preservativo senza cetriolo? Lì il grado di utilizzo avrebbe fatto tutta la differenza.

Rinuncia all’impresa, si toglie la fasciatura di Scottex e l’adagia su quel cadaverino vegetale per occultarlo. Poi scavalca il cadaverino e fa di corsa le scale. Si ritrova per strada come in fuga da un incendio. Arriva al bar, si versa una buona dose di disinfettante dal dispenser, un’abitudine che non ha mai preso. Si avvicina al bancone e ordina un caffè, attenta a non toccare nulla. Non riesce a capire se sia lei a sentirsi sporca o se tutto il mondo sia diventato un luogo sudicio. Il barista le porge il caffè e le sorride. 

«Allora come è andata la prima notte?»

Le sembra un sorriso affettuoso, ma quella domanda l’ha trasformato in un sorriso allarmante. Si irrigidisce. Non è strano che glielo domandi, è stato messo a parte di tutto il processo, le ha offerto un prosecco il giorno del rogito, ha seguito l’avanzamento dei lavori, hanno parlato di caldaie a gas e pompe di calore, di dove trovare le campane per buttare i vuoti delle Peroni che le lasciavano gli operai. Daria ha pranzato lì tutti i giorni con un’insalata o un panino al tonno da quando ha acquistato la casa. Non può considerarlo un amico, ma stenta a credere che uno dei cetrioli utilizzati per le insalate sia finito sul suo zerbino.

Eppure le sembra quasi un indizio, non sono molti i bar a mettere il cetriolo nell’insalata. Scatolette di mais, pomodori pachino, rughetta. Sono quelli gli ingredienti. A volte insipidi cubetti di formaggio. Ma i cetrioli sono una sua prerogativa, pensa Daria. O forse no. Non è in grado di fare paragoni. L’idea di visualizzare dei cetrioli dentro altre insalate della sua vita le mette i brividi.

«Bene, grazie» risponde secca. Poi si pente del suo tono.

Il barista non sembra farci caso e passa a schiumare il caffè del suo vicino di bancone. Un altro cliente fisso.

«Hola!» la saluta quello. È un artista sudamericano (Daria è colpevolmente ignara del suo paese di origine e del suo nome di battesimo) che una volta le ha mostrato i suoi dipinti dal cellulare: una serie di donne con la testa da uccello, le tette enormi e un cuore al posto della fica. Un cuore sanguinolento, trafitto di spine, come il cuore di Cristo. Daria si era limitata a un commento blando e imbarazzato. Non poteva certo definirsi un’esperta d’arte, ma non occorreva essere un’esperta d’arte per liquidare un abominio simile.

Eppure è quasi divertita dalla sua presenza al bar quando le capita di incrociarlo, lo considera un indicatore sociale che il quartiere dove si è trasferita conservi ancora una sua autenticità, qualunque cosa voglia dire. Comunque meglio un artista sudamericano di sessant’anni dedito alle sue pacchianate che l’ennesimo creativo di trent’anni dedito a sé stesso. A quello basta lei.

Ora quel senso di fraternità verso la bizzarria dell’uomo si è corrotto in un sentimento di repulsione. Non avrebbe dovuto intuire cosa si annidava dietro la sua arte? Un disprezzo sfacciato verso il genere femminile, la visione oscena di un povero disgraziato pronto a ficcare un cetriolo in un preservativo e lasciarlo sullo zerbino di una mezza sconosciuta. È forse una forma di vendetta per quel commento liquidatorio verso i suoi dipinti? O addirittura – dal suo punto di vista – un’altra espressione artistica? Una scultura? Un’installazione? Un atto di guerrilla dadaista?

Daria guarda l’uomo che versa due bustine di zucchero nel caffè e se ne infila una in tasca. Ha uno sguardo buono, sembra solo un randagio a zonzo per bar, con un passato denso alle spalle che forse un giorno si farà raccontare. Si sente in colpa per i suoi sospetti, non riesce a ignorare la punta di razzismo che li ha generati. Non vuole che quel bar diventi un luogo ostile.

«Hola!» risponde.

La richiama la sua amica.

«Quindi che hai fatto?»

«Niente, ho preso un caffè al bar».

Non se la sente di tornare a casa. L’oggetto incriminato giace sotto il sudario di Scottex. Si avvia verso il parchetto di quartiere vagliando mentalmente le ipotesi: il capocantiere da cui ha preteso la ricevuta? L’agente immobiliare che l’ha invita a uscire senza successo? L’operaio che lei ha redarguito perché lasciava le scolature di vernice visibili sulla parete? Si era sentita così male dopo averlo fatto che era corsa a comprargli due Peroni ghiacciate e un pacchetto di sigarette. Sicuramente un risarcimento insufficiente per l’umiliazione subita.

Daria ha passato gli ultimi mesi a destreggiarsi tra condiscendenza e autorevolezza, tra infantilismo e credibilità, incapace di fissare il confine giusto, e adesso quel cetriolo le presenta il conto della sua inadeguatezza. Dovrebbe passare alla controffensiva, si dice. Ma anche lì, come fare a valutare una reazione appropriata? Ci sono altri confini da stabilire, e non è certa di esserne in grado. Se si limitasse a rimuovere il cetriolo, sarebbe un messaggio abbastanza forte? Dovrebbe lasciare un biglietto? Ma con su scritto cosa? Valuta altri scenari: farlo a fettine e metterlo in un tupperware (troppo elaborato). Appenderlo alla maniglia come fosse un pupazzo impiccato (troppo concettuale). Sostituirlo con un fiore (troppo hippy). Infilarselo e farsi una foto (troppo spavaldo o troppo disperato). Non si masturba da mesi, pensa. Poi scaccia il pensiero come fosse la battuta arrivata da un estraneo.

Il parchetto è arido e assolato. I cani corrono con la lingua a penzoloni dietro i loro padroni sadicamente sportivi. Si mette a sedere su una panchina tirando fuori il cellulare. Scorre la rubrica per avere un’illuminazione, ma è chiaro chi voglia sentire. Ripensa al discorsetto motivazionale con cui è riuscita a lasciare Michele. Il suo bisogno di autonomia. La paura di codipendenza. Ripartire da sé stessa, da una casetta tutta sua (non è nemmeno riuscita a pronunciare la parola casa senza usare un diminutivo idiota). Peccato che l’anticipo per la casetta glielo abbiano dato i suoi e che non avrebbe mai avuto il coraggio di interrompere quella convivenza se non avesse avuto un piano b, tenuto nascosto fino all’ultimo. Si era immaginata di richiamare Michele in condizioni diverse – invitarlo a cena da lei, sbronzarsi, tornare a scopare in un posto nuovo –, e non chiedere il suo aiuto perché si è ritrovata un cetriolo fuori dalla porta.

Possibile che non si meriti neppure una minaccia seria? Che non possa richiamare il suo ex fidanzato per farsi consolare e proteggere da una violenza dignitosa? Si sente degradata alla parodia di una vittima. Persino l’incubo di una casa infestata – il fantasma di un suicida, un neonato morto in culla, un fattaccio di cronaca nera – apparirebbe meno ridicolo. La superstizione è più accettabile che la farsa. Michele che ha sempre trovato irritanti i suoi riti scaramantici, magari adesso si mostrerebbe più indulgente. Si domanda se gli siano mancati i suoi strilli bambineschi quando vedeva che un cappello era finito sul letto, o la sua incomprensibile fissazione di non accendere dagli accendini viola.

Il sole smargina le sagome dei pochi alberi intorno, i secchi della spazzatura sono pieni di cacche imbustate. Di certo non corre il rischio di un panorama romantico per quella chiamata. Fissa lo schermo del cellulare. Pensa a come esordire. Un “ehi” informale? «Scusa, ti disturbo?» Un silenzio già foriero d’ansia? Ma se un fantasma notturno potrebbe giustificare una telefonata piagnucolosa, un cetriolo sullo zerbino no. E per quanto si senta la protagonista di una brutta barzelletta, sa che non può permettersi di buttarla sul ridere. Quella consapevolezza la atterrisce.

Un cagnetto le abbaia contro destandola dalla sua frustrazione. Si rificca il cellulare in tasca. Azzarda una carezza al cane; non ci capisce niente di animali, infatti si rivela una mossa controproducente. Quello prende ad abbaiare più forte. Chissene frega, si dice. Non ha bisogno di silenzio, di pace, di tranquillità. Non ne ha bisogno perché non chiamerà Michele, se la caverà da sola tenendo fede a quel discorsetto motivazionale che ora le suona falso e patetico.

A dire il vero le era sempre suonato falso e patetico. Si vergogna di ogni singola parola, codipendenza su tutte. Non sa nemmeno di preciso cosa significhi, si è ripromessa di googlarla e poi si è dimenticata. «Non ti amo più» avrebbe dovuto dirgli. Tutto lì. Scoppia a piangere per un dolore che non si è mai concessa fino ad allora. Ci si può giustificare per un tradimento, per una casa comprata di nascosto, per un mutuo non condiviso, per aver portato via il tavolo, per essere una stronza, ma come chiedere scusa per la fine dell’amore?

Continua a piangere a dirotto nonostante il sole che le picchia in testa, nonostante il cagnetto molesto, nonostante la premura del suo padrone che cerca di zittirlo e le chiede se va tutto bene. Non si è mai sentita tanto triste. Così triste che benedice il cetriolo. Ha un problema pratico da risolvere.

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