Venezia non attira solo turisti. Anche le fondazioni d’arte, italiane e straniere, amano la città lagunare e, se possono, volentieri vi trovano casa. Non è un fenomeno nuovo, basti pensare alla Fondazione Solomon R. Guggenheim con la Collezione Peggy Guggenheim di palazzo Venier dei Leoni e alla fondazione Pinault con le sedi di Palazzo Grassi e Punta della Dogana. E poi Prada, Cini, Querini Stampalia, Bevilacqua la Masa. Negli ultimi mesi all’appello si sono aggiunte la Anish Kapoor Foundation, che ha acquistato palazzo Manfrin, e la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, che aprirà una nuova sede nell’Isola di San Giacomo nel 2024.

Mentre le agenzie di rating mettono il nostro paese nel mirino, insinuando il dubbio sulla solidità dal punto di vista economico e allontanando gli investitori stranieri, per il mondo dell’arte contemporanea Venezia è diventata the place to be. L’effetto Biennale è indiscutibile: tutti vogliono beneficiare della vetrina offerta dalla manifestazione più importante a livello globale. Il marchio di città d’arte per eccellenza non sembra risentire della recessione mondiale.

Ultimo arrivo in laguna, in ordine di tempo, è quello della neonata fondazione Berggruen Arts & Culture che ha iniziato il restauro di palazzo Diedo, acquistato da Nicolas Berggruen. La città piace così tanto al finanziere multimiliardario, filantropo e collezionista americano che insieme al palazzo di Cannaregio ha pensato alla Casa dei Tre Oci alla Giudecca come nuova sede europea del Berggruen Institute, think tank dedito a studi di filosofia, politica ed economia già presente a Los Angeles e Pechino.

I Berggruen

Berggruen è un nome importante per la storia dell’arte europea del XX secolo. Il padre di Nicolas, Heinz, è stato uno dei maggiori collezionisti del mondo che, prima della sua scomparsa nel 2007, ha ceduto alla Nationalgalerie di Berlino 165 opere di grandi maestri del Novecento, tra cui Pablo Picasso, Alberto Giacometti, Georges Braque, Paul Klee e Henri Matisse, oggi conservate al Berggruen Museum della capitale tedesca.

La passione per l’arte ha fatto il salto di generazione e anche Berggruen figlio ha continuato a interessarsi dell’arte dei suoi contemporanei, anche se non si sa molto del contenuto della sua collezione personale. Nel 2012, il Los Angeles Times ha scritto che avrebbe acquistato opere di Ed Ruscha, Gerhard Richter, Sigmar Polke e altri e le avrebbe regalate al Lacma (Los Angeles county museum of art) di cui è un amministratore fiduciario.

Tra le opere più famose nel patrimonio di Berggruen c’è Metropolis II (2010) di Chris Burden – una gigantesca scultura che, una volta attivata, ricorda una città vorticosa – che è in prestito a lungo termine allo stesso museo californiano.

«In un’epoca in cui le culture guardano a sé stesse e le barriere politiche rendono difficile il libero scambio di idee», spiega a Domani Berggruen, «l’arte può svolgere un ruolo di avvicinamento delle diversità culturali: questa è l’essenza di Berggruen Arts & Culture e del suo programma internazionale e multidisciplinare che si svolgerà a Venezia e in tutto il mondo».

Il progetto

Luigi Molin by Tiberio tinelli

Direttore artistico della fondazione è il curatore veneziano Mario Codognato, che in questi mesi sta lavorando alla messa a punto del programma della nuova istituzione che ruoterà attorno a una serie di residenze d’artista.

«Durante i mesi del restauro, curato dall’architetto Silvio Fassi, abbiamo pensato affidare la prima residenza all’artista californiano Sterling Ruby». La scelta di Sterling Ruby, spiega Codognato, è dipesa dal fatto che da tempo Berggruen è un collezionista dell’artista di Los Angeles e che Codognato stesso ha curato nel 2016 una sua retrospettiva quando dirigeva il dipartimento di arte contemporanea del Museo Belvedere di Vienna: «Ci è sembrato che fosse il punto più naturale da cui iniziare questa nuova collaborazione. Abbiamo pensato che il lavoro di Sterling potesse accompagnare il periodo di avvicinamento all’apertura del nuovo spazio. Il suo intervento si intitola A Project in Four Acts. Dei quattro “atti”, tre avverranno all’esterno dell’edificio durante i lavori di ristrutturazione, mentre il quarto corrisponderà alla sua vera e propria residenza. Il primo “atto” è già visibile sulla facciata del Palazzo».

L’opera di Sterling

Si tratta di HEX, una scultura composta dal telaio di un camion arrugginito e tubi d’acciaio riciclati, un cerchio rosso luminoso e una bandiera gialla. Per l’artista si tratta di una sorta di «distintivo» appeso alla facciata dell’edificio. Nella sua apparente semplicità, l’intervento non è stato privo di difficoltà, ammette l’artista: «Il nostro vincolo più significativo, per il primo dei quattro “atti”, è stato il tempo.

Inoltre, appendere un’opera sulla facciata di un edificio storico come questo è stato impegnativo, perché non potevamo montare nulla agganciandolo direttamente all’edificio. Alla fine, con l’aiuto del comune e dell’architetto Fassi, siamo riusciti a trovare il modo di realizzare una bretella interna per tenere tutto insieme».

Cantiere aperto 

È ancora troppo presto per dire in che direzione proseguirà il lavoro dell’artista, ma di certo non potrà non confrontarsi con il contesto della città lagunare. «La storia di Venezia come città galleggiante è complessa», ci dice Ruby, «ho iniziato a studiarla: l’impero bizantino e le invasioni barbariche, il grande incendio del 1105, la peste del 1630. Anche una città bella come questa ha avuto le sue difficoltà. Per secoli, si sono sviluppate scuole di artigiani specializzati nel vetro, nella ceramica e nel merletto. Mi piacerebbe trovare un modo per interagire con questi mestieri nel lavoro per Palazzo Diedo. Ma temo anche il rischio di fare arte come un turista o di usare certi elementi solo per il gusto di farlo. Sono solo all’inizio del lavoro».

Quello di palazzo Diedo è dunque un cantiere aperto non solo dal punto di vista edilizio. Qualcosa di analogo sta capitando per palazzo Manfrin, sede della Anish Kapoor Foundation (anch’essa affidata alla direzione Codognato), che ha ospitato parte della grande mostra dello scultore inglese, nonostante i lavori di restauro non siano ancora terminati e l’identità dell’istituzione ancora tutta da definire. L’impressione è che la voglia di essere a Venezia sia talmente forte che prima ci si affretta a comprare gli spazi e solo dopo ci si preoccupa della fase progettuale per capire che cosa andrà fatto dentro. Solo il tempo dirà se si tratta di una strategia in grado di portare frutti sul lungo periodo. 

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