Quello dello sceneggiatore di fumetti è un lavoro un po’ misterioso. A volte, addirittura, anche per chi lo fa. E per questo ci ho scritto su un libro, intitolato L’uomo con la faccia in ombra. Un manuale che contiene un metodo. È il mio metodo, quello che uso io. Non significa che io l’abbia inventato. L’ho messo insieme, l’ho assemblato, pezzo dopo pezzo. Errore dopo errore, pure.

È un mestiere che si impara sbagliando, finché non arriva qualcuno a correggerti. Oppure ti accorgi, da solo, che c’era una porta, un passo più in là, su quel muro dove continuavi a sbattere la testa. Questo libro, spero, servirà a qualcuno per risparmiare un po’ di zuccate. Io avrei voluto averlo, ai tempi.

Ho ricapitolato, spiegandole un po’ anche me stesso, cose imparate in tanti anni di lavoro e, per certi versi anche da prima, da quando ero “soltanto” un lettore. Non è l’unico metodo che esiste al mondo, ma posso assicurarvi che funziona. Ed è importante questo, per un metodo. Deve funzionare.

L’ho imparato dai miei editor, dai colleghi che ho conosciuto e affiancato, dai lavori di altri che ho avuto sott’occhio. Se una cosa si può imparare, la si può anche insegnare. Ho fatto pure questo, in scuole di fumetto e di scrittura. Ho individuato un metodo per insegnare un metodo. Mi sono reso conto di essere in una posizione per molti versi unica, che mi permetteva di svolgere questa funzione.

A differenza di tanti altri sceneggiatori di fumetti, della maggior parte di loro, io mi sono infatti trovato a lavorare a serie e personaggi con differenti caratteristiche. Ho scritto storie di Topolino e di Dylan Dog, di Diabolik e di Zagor, di Lupo Alberto e di Tex. Lo stile e i contenuti cambiavano, di volta in volta, ma il metodo restava lo stesso. C’era una specie di minimo comune multiplo fatto di ferri e trucchi del mestiere, che ho messo da parte, in quella che Stephen King chiamerebbe la mia “cassetta degli attrezzi”. In questo libro, l’ho aperta e l’ho messa a disposizione di tutti. Un atto di restituzione, dato che tanti di quegli attrezzi io li ho rubati dalle cassette altrui, lasciatemi generosamente aperte.

Un altro motivo a spingermi a scrivere questo libro, questo “manuale autobiografico”, è stata la mia esperienza di docente, che va avanti da oltre vent’anni. In particolare alla Scuola Holden. Cosa di cui devo ringraziare il mio amico Alessandro Baricco, grande lettore e cultore di fumetto. Con lui, tra l’altro, ho sceneggiato La vera storia di Novecento, versione disneyana del suo Novecento, con Pippo nella parte del pianista sull’oceano. So che Alessandro ne va fiero, e io sono fiero di questo.

Ma che cosa significa sceneggiare un fumetto? Qui stanno il mistero e la fonte di equivoci. Rimuoviamo subito la classica confusione fra il lavoro dello sceneggiatore e quello dello scenografo. No, proprio non ci siamo. (Sebbene uno sceneggiatore, in un fumetto, indichi anche come sono fatti gli ambienti).

E accade ancora che qualcuno chieda: «Ma si fanno prima i testi oppure i disegni?». Che razza di domanda. Come se il disegnatore, preso da divina ispirazione, potesse mettersi a illustrare vignette così come gli vengono, secondo criteri puramente estetici oppure a casaccio, su cui poi lo sceneggiatore inserirebbe dialoghi e didascalie, riuscendo prodigiosamente a cavarne una storia dotata di un senso. Be’, me ne sono successe di tutti i colori, perfino di questi, ma capirete che non può funzionare così, di regola.

La sceneggiatura è la progettazione di una storia. Viene prima di tutto, naturalmente. Se la storia è un edificio, noi sceneggiatori siamo gli architetti.

È un testo che contiene tutte le indicazioni necessarie al disegnatore per illustrare la storia. Vignetta dopo vignetta, pagina dopo pagina. E poi ci sono pure i dialoghi, chiaro, da inserire nelle nuvolette. Ma sono soltanto una parte del tutto, non la più grossa. A dispetto di quanto si pensi, e di ciò che avviene nel cinema.

Vi mostro un esempio.

1/2/3/4

Vignettona quadrupla, con titolo. Stacco. Esterno giorno, panoramica. Siamo alla partenza della storia... che coincide con la partenza del piroscafo Virginian. È attraccato, al porto, e i passeggeri stanno salendo, lungo le scalette, come una fiumana. Si stanno anche caricando dei pesanti bauli, con un ufficiale che incita i caricatori. E c’è folla anche giù, al porto, in attesa di salire. Un altro ufficiale, con un megafono, è a terra ai piedi della scaletta, e incita i passeggeri. Insomma, c’è un grande e vivace caos.

Fra tutta questa gente, vediamo Topolino, appena arrivato in alto, sul ponte di coperta superiore, fra comignoli, fumaioli, marinai e passeggeri. A tracolla ha una borsa/sacca, rigonfia. In mano, l’inconfondibile custodia di una tromba. Si guarda attorno con espressione rapita, affascinata.

Titolo: La vera storia di novecento

Primo tempo

Didascalia: “Questa storia parte... dalla partenza!”

Ufficiale che incita i caricatori: Muoversi con quelle casse!

Ufficiale sul molo: Avanti, signori! imbarchiamo i passeggeri della terza classe!

Topolino: Uao!

Punti di vista

Questo è un pezzo di una pagina sceneggiatura. Preso proprio da La vera storia di Novecento. Riguarda una vignetta, una soltanto. Per inciso, non è neppure la prima, perché quella storia comincia con un prologo, e il titolo arriva nella terza pagina, in questa vignetta grande, che occupa lo spazio di quattro vignette normali, e per questo porta la numerazione "1/2/3/2". (Nel libro parlo anche di come si struttura la gabbia di una tavola). Il che spiega perché non ho indicato, qui, come è fatto il piroscafo e in quale modo è abbigliato Topolino. Lo avevo già fatto prima. Altrimenti, la descrizione sarebbe stata ancora più lunga e dettagliata.

Ora, avete notato come queste indicazioni destinate al disegnatore occupino molto più spazio di dialoghi e didascalie, vero? Indicazioni che, in particolare, riguardano le inquadrature. Croce e delizia di questo mestiere. È un argomento su cui ho fatto parecchie riflessioni, presenti nel libro e, prima ancora, in tante mie lezioni di sceneggiatura. Diciamo che sono una mia fissazione, e portate pazienza.

“Punto di vista” è un’espressione di uso molto comune. È un sinonimo di opinione. Abbiamo punti di vista su ogni cosa, su ogni argomento. Ognuno ha il suo punto di vista su questo e su quello. Ogni individuo si definisce, ed è definito, dai suoi punti di vista. Dalle sue opinioni e da quelle che gli altri hanno nei suoi confronti. (Un mio amico dice che «ciascuno ha le opinioni che ha, ma anche un po’ quelle che si merita», però questo è un altro discorso). Un punto di vista è un modo di vedere, di considerare, una determinata cosa. Bene, fin qui ci siamo. Sto esplorando l’ovvio.

In senso letterale, però, un punto di vista è un’inquadratura. Proprio così. Perché un’inquadratura stabilisce la distanza, la posizione e l’angolazione dell’osservatore rispetto all’oggetto osservato. Da che punto di vista, precisamente, lo sta guardando.

In ogni vignetta di un fumetto, il lettore si trova a guardare le cose secondo il punto di vista stabilito dall’autore, in base all’inquadratura da lui stabilita in sceneggiatura.

L’autore-sceneggiatore impone il proprio sguardo e, quindi, il proprio punto di vista, attraverso le inquadrature. Ecco perché mi capita di affermare, non del tutto con ironia, che «il fumetto è un’opinione».

Intendiamoci, anche nei film e nelle serie televisive, per dire, le inquadrature hanno importanza. Ma sono di più, in un flusso continuo e multiforme. Se prendeste le vignette di una storia a fumetti, anche lunga centinaia di pagine, e le faceste scorrere alla velocità dei fotogrammi di una pellicola cinematografica, ventiquattro al secondo, otterreste soltanto uno sfarfallio indecifrabile. Un fumetto ha molte meno inquadrature, rispetto a un film, e proprio per questo ciascuna è molto più importante. È decisiva. Sancisce un’opinione. Con le inquadrature farete vedere al lettore quello che volete voi, come volete voi, nella misura da voi decisa. È come se apriste delle finestre in un muro, dietro al quale c’è un paesaggio soltanto a voi noto. Finestre delle dimensioni e nella posizione da voi stabilite, in modo da mostrare soltanto una porzione di quel paesaggio, da una certa altezza e angolazione. I lettori, in un fumetto, non percepiscono questo con pesantezza, come una costrizione, seppure in effetti il loro sguardo venga ristretto. Risulterà tutto molto naturale. Trovo che questa sia una delle più grandi magie del fumetto, anche se di magico non c’è niente. C’è tanta tecnica, invece, che ho esposto dentro a L’uomo con la faccia in ombra.

Nelle mie lezioni uso sempre un esempio, partendo da un siparietto di una banalità sconcertante. È presente anche nel libro, e lo riporto qui.

John e Bill

Ci sono due personaggi che fantasiosamente chiamiamo John e Bill. John dice: «Sono tuo padre». Bill sta zitto. Tranquilli, di solito faccio di meglio.

Vi chiedo ora un piccolo sforzo di visualizzazione mentale. Inquadriamo John e Bill così, per cominciare: John frontale, vedendolo bene in faccia, e Bill davanti a lui, di spalle. Il nostro punto di vista è focalizzato su John, di cui inquadriamo il volto, l’espressione. Stiamo raccontando, visivamente, il suo rivelare di paternità. Con quale espressione, con quale postura. Di Bill invece mostriamo le spalle, negando allo sguardo la sua reazione. L’unica informazione minima e indispensabile che diamo riguardo a Bill è che è lì, davanti a John. Cambiamo inquadratura, punto di vista, facendo un controcampo. Un’inversione di prospettiva di 180 gradi, per così dire. Adesso John è di spalle, mentre parla, e Bill è frontale, in secondo piano, davanti a John stesso. Non ci interessa rivelare lo stato d’animo di John. Lo sguardo è su Bill che, seppure in silenzio, ci dirà qualcosa con la sua espressione. Stiamo raccontando che cosa prova nello scoprire di essere figlio di John.

Cambiamo di nuovo punto di vista, con un’inquadratura laterale. John e Bill di profilo, uno di fronte all’altro, come sui piatti di una metaforica bilancia. Vediamo le espressioni e le posture di ognuno dei due. Le confrontiamo. Hanno pesi diversi, su quella bilancia. Il peso della rivelazione della paternità, il peso della scoperta di essere il figlio. Altro cambiamento. John e Bill sono inquadrati un po’ dall’alto, visti come figure intere, dalla testa ai piedi, dentro a un ambiente. Una strada affollata, poniamo, con altra gente attorno che si fa gli affari propri. Stiamo mostrando come, intanto che avviene quella rivelazione, il mondo continui a girare, indifferente dei drammi personali di John e Bill, come in fondo di ognuno di noi.

Adesso una piccola prodezza, concessa al fumetto. Lasciamo lì i personaggi, visti un po’ dall’alto, ma facciamo sparire lo sfondo. John e Bill sono scontornati nel bianco, nel nero o comunque nel nulla. Nel fumetto si fa, più spesso di quanto probabilmente abbiate notato. Prendete un albo qualunque, un numero di Topolino o di Dylan Dog, una graphic novel o quello che vi capita sotto mano. Sfogliate quel fumetto e osservate. Ve ne siete accorti, adesso? Ci sono un mucchio di vignette su sfondo neutro, assente. Servono anche a dare respiro alle pagine, alle tavole. Se tutte le vignette avessero uno sfondo, finirebbero per confondersi l’una con l’altra, in un ammasso unico. Un pasticcio. Però, narrativamente, mostrare John e Bill lì da soli, isolati, in quella dimensione metafisica, come se quel momento di rivelazione facesse svanire ogni altra cosa, non è niente male.

Potrei andare avanti, con altri esempi. La situazione resta sempre uguale. John che dice: «Sono tuo padre», Bill che tace. Ma ogni volta cambia il punto di vista che il lettore ha su quei due, in quella vignetta. Capite a che cosa rinunciate, se delegate la scelta dell’inquadratura al disegnatore, limitandovi a scrivere che cosa succede, senza indicare da quale punto di vista lo volete mostrare?

La forchettina del dolce

In questo manuale, dedico un ampio spazio alle inquadrature, ma parlo anche di molte altre cose, che vengono prima e dopo. Mi soffermo su come si descrivono ambienti e personaggi, con particolare attenzione alla regola della “forchettina del dolce”. Una delle tante cose che ho rubato, non ricordo nemmeno a chi (uno dei miei tanti editor, suppongo), e poi ho fatto mia, ho rielaborato, e adesso restituisco. La regola dice che sceneggiare è come apparecchiare una tavola: dovete mettere subito anche la forchettina per il dolce.

Se qualcuno dovrà entrare in una stanza, metteteci una porta. Quella ci vuole sempre, direte voi, ovvio. Ma come sarà? Se quel qualcuno dovrà entrare di sorpresa, mettetela aperta. Se dovrà bussare prima, mettetela chiusa. Se si scoprirà che c’era già lì qualcun altro, appostato dietro una porta, vi converrà metterne due, una d’ingresso e una interna. Dovete stabilirlo prima.

Magari quella stanza apparirà più volte, in una storia, a distanza di tante pagine. E solo l’ultima volta accadrà che un personaggio prenda un posacenere di alabastro e lo lanci contro una grande vetrata, sfondandola. Quel posacenere e quella vetrata voi dovrete metterli subito, in sceneggiatura, nella prima sequenza ambientata in quella stanza. O, almeno, dovrete avvisare il disegnatore di regolarsi con la scena finale, indicando il numero di tavola relativo. Posacenere e vetrata sono la forchettina del dolce.

Serve sempre un po’ di buonsenso. Ovvio che alcune scelte potete lasciare tranquillamente al disegnatore. Saprà benissimo, da solo, come è fatto un saloon e come è abbigliato uno sceriffo, in un western. Però magari vi servirà spiegare che vi servono un piano e un pianista, in quel saloon. Oppure che quello sceriffo, all’entrata in scena, deve avere la stella coperta da un lembo dello spolverino, in modo da non rivelare subito il proprio ruolo.

E se qualcuno dovrà estrarre un coltello, sorprendendo il lettore, avvisate subito il disegnatore che servirà un abbigliamento dotato di tasche adeguate. Altrimenti vallo a spiegare, poi, da dove arriva quel coltello, se un personaggio indossa soltanto jeans attillati e maglietta. Niente battutacce, per favore.

Cos’è il soggetto

Fra le cose che vengono prima, ce n’è una che precede addirittura la sceneggiatura stessa. È il soggetto. Tema a cui sono dedicati alcuni capitoli della prima parte del libro. Mi sono soffermato anche a esaminare quale forma abbiano le storie. Spoiler: molto spesso, si tratta di un cerchio.

Il soggetto è una visione dall’alto della storia, ed è per questo che permette di vederne la forma. Segna la strada che si percorrerà in sceneggiatura.

A leggere un soggetto, sarà soltanto l’editor, per approvare o meno la storia. Verrebbe da dire che un soggetto è carne da cannone. Peccato, però, perché dietro c’è tanta fatica. C’è uno sforzo narrativo, atto a convincere e sedurre. E voglio concludere, qui, proprio con un esempio di soggetto, che ha originato una storia per Topolino, il settimanale, con protagonista Pippo, il personaggio.

Pippo e il brontolatore estivo

È estate, finalmente. Il periodo dell’anno in cui ci si rilassa, ci si diverte, si parte per qualche bel viaggio o, semplicemente, ci si prende una meritata pausa per ritemprarsi.

A Topolinia, tutti accolgono gioiosamente questo periodo. Cioè, quasi tutti.

C’è un vicino di casa di Pippo che odia l’estate, la detesta. Costui, grande estimatore dell’inverno, mostra un netto peggioramento dell’umore con l’arrivo della bella stagione, che per lui “bella” non è. Si dichiara infastidito dal sole, dal caldo, dall’eccessiva lunghezza delle giornate, dal chiassoso buonumore altrui, dai negozi chiusi... e non riesce a vedere il senso di andare a fare inutili viaggi. Il vicinato non fa molto caso a questo emerito brontolone, lasciandolo nel suo brodo. Ma Pippo no: non riesce a darsi pace. Perché Pippo è fondamentalmente molto buono – e vorrebbe vedere quel malmostoso signore divertirsi – e allo stesso tempo è anche molto ostinato. Non senza fatica, ponendo la questione in termini di sfida con il vicino (se fallirà, gli taglierà il prato per tutto l’anno), Pippo lo convince a passare una giornata d’estate insieme. Lo scopo riuscire a farlo divertire e, quindi, a fargli apprezzare quella stagione.

E qui entriamo nel cuore della storia. Pippo trascina il vicino in una serie di tipiche attività (e inattività) estive: spiaggia, montagna, lago, turismo culturale, escursioni nella natura, grigliata, picnic, campeggio... ogni volta, con incidenti tragicamente comici, in un’accelerazione di eventi. Nulla va per il verso giusto, e il vicino ogni volta ha un valido motivo per brontolare.

A fine giornata, quando Pippo lo riaccompagna a casa, il vicino è chiaramente di pessimo umore.

«Be’, come è andata?» chiede Pippo. E la domanda pare del tutto superflua.

«Malissimo!» sbotta il vicino.

Al che Pippo fa un gran sorrisone. «Yuk! Yuk! Allora ho vinto io!».

«Già, lo so», dice il vicino, ingrugnato. «Mi duole ammetterlo».

Perché Pippo, con il suo particolare modo di vedere le cose, ha capito che al vicino, in realtà, piace brontolare. È la sua grande passione, che oggi ha potuto esercitare pienamente.

Se la giornata fosse andata benissimo, sarebbe andata malissimo. Invece è andata malissimo, quindi benissimo. Tutto molto logico, no?

L’estate è la stagione in cui ognuno dovrebbe fare quello che più gli piace. E se a uno piace brontolare...

Tutto è bene quello che finisce bene e stavolta, in un certo senso, anche quello che finisce male. Sotto sotto, Pippo si è pure divertito. Ma, quando il vicino gli propone di “rifarlo domani”, se la dà a gambe levate.

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