Alcuni mesi fa è apparsa la notizia che il famoso gambero rosso di Mazara del Vallo in realtà non esiste.

Come è prassi in questi casi, alla banale constatazione di carattere biologico e genetico, è seguita una violentissima polemica che sta tra il politico e il gastronomico.

Perché per molti italiani mettere in discussione la storicità e la superiorità dei nostri prodotti significa minacciare la nostra economia e soprattutto la nostra stessa identità.

Lasciando da parte queste discussioni, magari con il proposito di tornarci in futuro, da storico sono molto più interessato a capire come sia nata la denominazione “gambero rosso di Mazara” pur in assenza di un prodotto specifico e capire perché abbia avuto così tanto successo.

A prima vista, infatti, la faccenda potrebbe sembrare molto semplice; c’è un prodotto molto buono che viene fatto, raccolto o pescato in un determinato luogo ed è quindi naturale che quel prodotto assuma il nome del luogo stesso: “caciotta di Pienza”, “prosciutto di Carpegna”, “anguilla di Comacchio”, “lenticchia di Altamura” e così via. Ma, come spesso accade, le apparenze ingannano.

Logiche economiche

Il primo problema è quello dei confini: dove si smette di produrre il prosciutto di Parma e si comincia a produrne un altro, che per definizione deve essere di qualità inferiore?

Determinare l’area di produzione di una denominazione è sempre un atto arbitrario, legato a logiche economiche, più che a vere considerazioni di carattere storico e culturale.

Questo meccanismo, del resto, ce lo ha spiegato molto bene nientepopodimeno che Karl Marx, quando nel III libro del Capitale descrive il meccanismo che trasforma i maggiori profitti ottenuti dai produttori di champagne in maggiori rendite fondiarie per i proprietari dei terreni su cui si coltivano le vigne.

Ne deriva che la determinazione di un’area di denominazione sarà sempre il compromesso tra i produttori (che vogliono poter produrre sempre di più) e i proprietari terrieri (che al contrario vogliono impedire l’allargamento dell’area per massimizzare la loro rendita). Con buona pace per tutti i discorsi sulla qualità dei terreni, sul microclima, sul know-how e così via.

Infrastrutture

Quindi, una volta stabilito che la denominazione ha sempre confini artificiali, siamo punto e a capo; resta da capire perché si decida di dare una specifica connotazione geografica a un prodotto che in realtà potrebbe averne molte altre.

Da questo punto di vista storicamente scattano due meccanismi che possono essere alternativi, ma anche complementari.

Il primo è quello più semplice: il prodotto assume il nome dell’infrastruttura che ne consente la diffusione, vale a dire un porto, una stazione ferroviaria, un importante snodo stradale.

È il caso, ad esempio, della cipolla di Tropea, che a Tropea non si produce, ma che da Tropea è sempre partita per la contemporanea presenza di un importante scalo ferroviario e di un altrettanto importante porto marittimo.

Qualcosa di simile, del resto, deve essere accaduto per la lenticchia di Altamura o il radicchio di Chioggia.

Luoghi leggendari

L’altro meccanismo è quello di trovare un luogo particolarmente evocativo, sul quale si possa costruire una narrazione suggestiva.

È questo il caso del lardo di Colonnata, che per evidenti motivi di spazio a Colonnata non si può produrre, se non in quantità irrisorie.

Ed è pure il caso del vino di Bolgheri, che grazie alla notorietà del piccolo borgo, finisce per dare il nome a una produzione che non può essere fatta in quel luogo specifico.

L’epica di Mazara

E il gambero di Mazara? Questo è proprio il caso in cui i due elementi si sommano e si rafforzano a vicenda.

Da un lato c’è un porto estremamente sviluppato e specializzato nella pesca commerciale e dall’altro c’è una storia quasi epica di pescatori costantemente in bilico tra Europa e Africa.

Mazara è un luogo evocativo nel quale si incrociano storie millenarie e culture differenti; è quindi stato facile inventarsi una narrazione e il nome di un prodotto.

Si è sempre detto che il gambero rosso provenga dalle acque immediatamente frontali le coste di Mazara del Vallo: niente di più falso.

Questi crostacei, dalla carne squisita e succulenta, infatti arrivano per la maggior parte dai mari della Libia, a centinaia di chilometri di distanza dalla Sicilia.

Uno storico dell’alimentazione non può che sorridere della levata di scudi e dell’indignazione generale, perché sa benissimo che da sempre il cibo più buono non porta il nome di chi lo produce, ma di chi lo sa vendere.

© Riproduzione riservata