Pochi sanno che la Germania è stata una potenza coloniale. Pochi sanno che si è macchiata di un genocidio ben prima del nazismo. Pochi sanno che da anni è in corso nel paese una presa di coscienza sui crimini coloniali compiuti un secolo fa contro le popolazioni Nama e Herero in quella Namibia poco narrata dalle cronache giornalistiche dell’occidente.

È di pochi giorni fa, esattamente del 28 maggio, l’annuncio del ministro degli Esteri Heiko Maas su un accordo tra Germania e Namibia su quei crimini del passato. La Germania, che già in precedenza ha presentato delle scuse formali per bocca della cancelliera Angela Merkel, ha riconosciuto il massacro delle popolazioni Herero e Nama tra 1904 e 1908 in pieno Reich Guglielmino. Il riconoscimento dei crimini non avrà però conseguenze legali e sarà ufficializzata a breve una cifra forfettaria di 1,3 miliardi che la Germania dovrà dare alla Namibia come “riparazione” per i crimini commessi.

Le reazioni

La notizia è stata accolta da parte di alcuni con entusiasmo e da altri con scetticismo. Gli entusiasti hanno visto in questo un passo importante verso una Germania decolonizzata, conscia che i crimini partoriti dal Nazismo sono stato di fatto preparati già dal Reich guglielmino con un massacro che ha lasciato sul campo donne, bambini e uomini uccisi con una ferocia e brutalità inaudita. Una Germania conscia del suo futuro transculturale e proiettata nel futuro. Questa è una delle letture dei fatti.

Chi è scettico invece ha visto in questa presa di posizione della Germania un timing sospetto, dettato più da ragioni geopolitiche e soprattutto arrivato dopo le scuse formali della Francia al Rwanda sul genocidio degli anni Novanta. Anche molte delle comunità locali, i cui antenati sono stati massacrati dal Reich guglielmino, hanno parlato di una riparazione a metà.

Molti hanno denunciato che l’accordo è stato con lo stato e non con le comunità i cui antenati sono stati massacrati. Si è parlato di una cifra irrisoria da una parte e della ambiguità dell’aiuto europeo in un continente, l’Africa, sempre più al centro di una nuova guerra fredda tra Cina e il mondo occidentale.

Insomma non si ha una lettura univoca dell’avvenimento. Ma vista dall’Italia questa discussione che sta interessando la Germania e la Francia sembra davvero fantascienza.

Il caso italiano

In Italia il rimosso coloniale, soprattutto a livello istituzionale e culturale, è rimasto ancora rimosso. Negli ultimi anni tentativi di decolonizzazione sono arrivati dal mondo accademico e culturale.

Pensiamo solo all’importante libro di Francesca Melandri Sangue Giusto in uscita in una nuova edizione per Bompiani il 28 di questo mese. L’inizio di questo romanzo è fulminante. Il giorno della visita di Muhammar Gheddafi a Silvio Berlusconi una quarantenne romana Ilaria Profeti si ritrova davanti casa un ragazzo nero. Pensa subito che è lì per l’elemosina o chissà che altro. Prima che lui apra bocca gli dà cinque euro, per levarselo di torno. Il ragazzo non li prende quei cinque euro e gli spiega che lui è lì perché loro due sono parenti, che il padre di lei durante la campagna di invasione dell’Etiopia si è fatto un’altra famiglia, e che lui, il migrante, è suo nipote. Ilaria non sa nulla sul passato fascista e colonialista paterno, e tutto il romanzo è uno scavo in questa storia non raccontata sia in ambito istituzionale sia in ambito familiare. Francesca Melandri parla di doppia rimozione, una dal lato istituzionale, ma anche quella che tutti gli italiani hanno fatto all’interno delle loro mura domestiche. Ed è da questa non conoscenza che l’Italia deve ripartire. Perché il non conoscere partorisce mostri.

Negli ultimi anni c’è stato un grande interesse su quanto lo spazio urbano delle nostre città sia stato colonizzato dalla propaganda coloniale sia di età liberale sia di epoca fascista. Da Bari a Bologna spuntano vie con il nome dell’Africa, sempre possedimenti coloniali, o come a Roma via dell’Ambaradam, una via che porta il nome di una sanguinosa battaglia coloniale, un massacro di persone che stavano solo difendendo la loro terra.

L’Italia è piena di targhe, steli e persino statue ambigue come quella dell’esploratore Vittorio Bottego a Parma. Tutte tracce di un passato che più che rimosse, andrebbero però risignificate o, come nel caso di Bottego, forse musealizzate... Mettendo in luce tutta la problematicità che si portano dietro. C’è un acceso dibattito su questo. Domande che non hanno una risposta unica, ma che variano caso per caso. Come è di fatto interessante quello che sta nascendo a Roma, apertura prevista tra un anno massimo due anni, del museo italo-africano Ilaria Alpi. Si può musealizzare il colonialismo e, se sì, come? Le curatrici si stanno ponendo tutte le domande scomode. Cosa mostrare, cosa restituire, cosa lasciare solo agli occhi degli studiosi o degli artisti. Domande a cui in un certo senso risponde la studiosa Giulia Grechi, in Decolonizzare il museo (Meltemi). Il museo più di ogni altro luogo è stato lo specchio del colonialismo, ma una nuova forma di museo può diventare lo specchio della decolonizzazione?

Scarsa consapevolezza

Insomma, il dibattito è forte in alcuni ambiti intellettuali anche qui in Italia. Ma questa consapevolezza è ancora di pochi. E convivono con orrori storici come il Mausoleo di Affile, una ferita nel corpo della nazione italiana nata dalla lotta antifascista e dalla Costituzione repubblicana.

Affile è stato definito sacrario militare, costruito con fondi pubblici della regione Lazio (che poi sono stati interrotti dalla giunta Zingaretti) dirottati da un piano di investimento per la sistemazione del parco della zona. Invece della cura degli alberi, sono stati costruiti due cubi (quello più piccolo è il bagno pubblico), uno dei quali dedicato al criminale di guerra, Rodolfo Graziani, reo di aver gassato le popolazioni etiopi inermi durante la campagna mussoliniana d’Etiopia (per questo l’Etiopia ha chiesto estradizione e processo, mai avvenuti) e deportato i libici durante la riconquista libica da parte del fascismo italiano. C’è stato lo zampino di Graziani nel massacro di etiopi ad Addis Abeba nel 1937, l’uccisione dei diaconi a Debra Libanos, poi da ricordare che è stato lui a far giustiziare Omar al Mukhtar e aiutare i nazisti durante il rastrellamento del ghetto di Roma. Nel 2012, quando il monumento è stato eretto, ha creato sgomento. Era un po’ come se la Germania avesse deciso di erigere un monumento a Joseph Goebbles o a Heinrich Himmler. Impensabile. Ma in Italia è successo proprio perché di colonialismo non si parla. E si può salire su una collina, quella dove si trova il monumento di Affile, dove le targhe vicino al monumento inneggiano alla X Mas o agli squadristi di Salò. Un orrore contro cui hanno lottato in prima linea l’Anpi nazionale e associazioni migranti. Perché fin da subito è stato chiaro l’intento di trasformare Affile nella Predappio del Lazio. Quel monumento è una ferita nella fragile consapevolezza italiana verso i suoi crimini coloniali che va ricordato non sono stati solo fascisti, ma anche liberali. Colonialismo che è alla base di quel razzismo italiano che oggi colpisce migranti e figli di migranti.

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