«La vita è una milonga, bisogna saperla ballare». In queste parole è racchiuso il senso dell’esistenza, della professione e dell’avventura umana di Gianni Minà, uno degli ultimi grandi esponenti del giornalismo novecentesco, scomparso lunedì sera all’età di 84 anni.

In effetti, la sua vita è stata un invidiabile ballo, il riassunto perfetto di cosa ha voluto dire raccontare il mondo attraversandolo, lasciandosene assecondare, scovando i pertugi per entrarci da protagonista.

Torinese e tifoso granata, infatuato dall’epopea del Grande Torino, Gianni Minà ha avuto proprio nello sport la palestra e la maturità della sua attività giornalistica: entrato giovanissimo nella redazione di Tuttosport, passò poi alla televisione in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960 diventando poi collaboratore di rubriche curate da Maurizio Barendson, l’inventore di quella logica di estensione dello sport raccontato, sezionato e analizzato lungo il palinsesto che segnò un’intera stagione del servizio pubblico.

Una passione, quello per lo sport, che viveva coniugando la necessità dei tempi e della visibilità televisiva rituale, arrivando a condurre La domenica sportiva, passando per i servizi di Dribbling o la ricca inchiesta in quattordici puntate Facce piene di pugni, un documento unico sulla tecnica e la sociologia di uno sport poco raccontato come il pugilato, che segnò anche il celebre sodalizio e l’amicizia con Cassius Clay-Muhammad Alì.

Jazz e vita

Gianni Minà con Sandro Ciotti (foto Olycom / via LaPresse)

Cultore di immaginari molteplici (dalla musica all’arte, dalla politica alla letteratura), portatore di uno stile fatto di spartito e improvvisazione, Minà poteva essere considerato un jazzista del giornalismo, un maestro nel trascinare la narrazione su traiettorie inconsuete, aprendo scenari e creando connessioni, quasi anticipando quell’idea dello storytelling televisivo ai suoi tempi ancora germinale e poco codificato, legato più alla natura romanzesca della carta stampata che a uno specifico linguaggio d’elezione.

E proprio con il jazz iniziò il suo viaggio nella musica, curando una storia del genere in quattro puntate e poi aprendosi con Alta classe del 1991 a esibizioni e interviste con artisti come Ray Charles, Pino Daniele, Chico Buarque, Lucio Dalla, Zucchero e tanti altri.  

Gianni Minà con Astor Piazzolla e Gino Paoli nel 1984 (Foto Olycom via LaPresse)

Amore per la musica che presto si tradusse in amore per il Sudamerica, terra che fece emergere il suo spirito ribelle e anticonformista, sin da quando – in Argentina come inviato per i tragici mondiali del 1978 – si mise in luce per domande scomode sulla dittature e sui desaparecidos.

Il legame con Gabriel Garcia Marquez, Jorge Amado, Luis Sepulveda e, naturalmente, quello con Fidel Castro, rappresentano il biglietto da visita di un curioso viaggiatore nelle anime dei popoli, di uno dei pochi giornalisti italiani di primo piano ad essere letteralmente entrato nelle vene aperte dell’America latina, per citare il titolo di un libro di Eduardo Galeano.

Una mina vagante

LaPresse

Poliedrico e versatile, Gianni Minà era una mina vagante per la televisione degli anni  Settanta e Ottanta, un volto capace di unire alla profondità del documentarista (nel 1984 fondò anche una sua casa di produzione, la Gme) la leggerezza dell’intrattenitore, sperimentando il nascente formato del “contenitore” pomeridiano ed entrando nelle case con programmi cult come L’altra domenica con Renzo Arbore e lo stesso Barendson del 1976 (il controcanto di Domenica In), o Blitz, rubrica del 1981 della domenica pomeriggio in cui con una lunga diretta Minà spaziava dallo sport allo spettacolo, reggendo il confronto con i personaggi più amati e talvolta inaccessibili dell’epoca, sempre improvvisando ed empatizzando, consapevole di quel “bello della diretta” che divenne una delle sue locuzioni inconfondibili.

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Tra i pochi formidabili esponenti della “tv di parola” all’italiana, Gianni Minà aveva innato il gusto dell’intervista, arrivando a nobilitarlo come genere autentico della professione giornalistica, incalzando l’interlocutore alla ricerca di un punto comune più che di un’autoreferenziale necessità polemica.

Sport, musica, Sudamerica, tv generalista: i pilastri di una carriera coincisa in tutto e per tutto con la vita, con la missione di scoprire e raccontare il mondo facendosene interprete, sfuggendo alle tentazioni della semplificazione, ma allo stesso tempo senza eccedere in ricami, astrazioni, forzate ricerche della complessità.

Olycom

Uno dei suoi ultimi libri si intitola Storia di un boxeur latino; non (solo) un’autobiografia, ma un’onesta e appassionata esaltazione degli ambiti che l’hanno visto in prima linea, il dizionario di un secolo – il Novecento – fatto di sogni, ingiustizie, speranze. Ballato come una milonga, fronteggiato come un gancio sul ring, giocato fino all’ultima emozione.

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