Dopo un anno di pandemia, un anno come per tutti senza viaggi, senza spettacoli, senza cinema, senza musei, sono finalmente tornata a vedere una mostra, Niki de Saint Phalle. Structures for life (New York, MomaPS1, fino al 6 settembre). All’indicibile emozione di varcare di nuovo le porte di un museo, si è sommata quella di trovare, tra le opere esposte, un video che mostrava pezzi della mia adolescenza trascorsa nella campagna toscana, le voci di alcune persone che ho realmente conosciuto e che sono state, insieme all’artista stessa, l’ispirazione per il mio ultimo romanzo.

Una specie di esperienza diretta nell’abisso di mondi paralleli, il passato e il presente, la finzione e la realtà, la vita e la rappresentazione di essa, il ricordo e l’immanenza. Il mio ultimo libro, Il giardino dei mostri (edizioni e/o, 2019; The Garden of Monsters, Europa editions 2020), è ambientato sul finire degli anni ’80 a Capalbio, il paese in cui ho vissuto da ragazzina e in cui l’artista franco-americana Niki de Saint Phalle ha costruito nel corso di quasi vent’anni la sua opera più grande e favolosa: il giardino dei Tarocchi, un parco con 22 gigantesche statue, alcune delle quali abitabili, che riproducono gli arcani maggiori dei Tarocchi. E nonostante il frontespizio del libro specifichi che si tratta di un’opera di finzione, Niki de Saint Phalle è uno dei personaggi principali della storia.

Appropriazione indebita

L’inserimento di una persona realmente vissuta e riconoscibile all’interno di un romanzo, in cui la si vede interagire con altri personaggi completamente inventati, avere su di loro un impatto al punto da cambiarne la vita (romanzesca) è un’operazione che merita di essere in un certo senso giustificata perché, per quanto rispettosa, si tratta comunque di un’appropriazione indebita.

Seppure personalmente penso che la letteratura sia principalmente il frutto di un rapporto complesso tra realtà e finzione e come dice Onetti la capacità di «mentire bene la verità», ci sono delle ragioni personali che hanno determinato la scelta di inserire Niki come personaggio del romanzo. Ragioni che in qualche modo sono riaffiorate leggendo quanto ha scritto il New Yorker proprio a proposito della mostra e del lavoro di de Saint Phalle: «Ogni sua opera è come una destinazione, che una volta raggiunta, ti lascia andare altrove soltanto ritracciando il cammino da cui sei venuto». Questa frase riassume molto anche del senso della mia scelta perché «ritracciare il percorso da cui sono venuta per andare altrove» è esattamente ciò che ho fatto scrivendo di lei nel mio romanzo.

La letteratura oltre ad avere a che fare con il vero e il falso, per me riguarda sempre anche la memoria, che a sua volta è la depositaria e al tempo stesso falsaria della realtà. Non è un caso che proprio nell’incipit dei libri più antichi della nostra tradizione letteraria occidentale si invoca Mnemosyne, la madre delle muse, la personificazione della memoria nella mitologia greca. Nel Giardino dei mostri sono tornata nel passato per tracciare con esso un percorso nuovo. Ho collocato, in quel tempo e in quello spazio che conosco molto bene, due famiglie, una locale contadina e una romana altoborghese. Le loro vicende si intrecciano in una serie di conflitti interni alle famiglie stesse ma anche tra i membri delle due: il paese del turismo vip in cui le loro storie si intrecciano diventa il teatro perfetto della messa in scena dei cambiamenti che avvengono in Italia nel passaggio tra gli anni ‘80 e i ‘90. Così la dissoluzione delle ideologie, l’inasprirsi delle dinamiche di potere legate al denaro, l’individualismo e la superficialità di quel periodo, si riflettono nei contrasti tra genitori e figli, o tra uomini e donne che appartengono a contesti socioeconomici diversi. Nel paese, dove a prima vista si assiste a un’espansione ubriacante di soldi e feste, tutto sembra dissolversi e perdere i contorni nitidi evidenziando un’umanità debole, spesso meschina, in mezzo alla quale, la creatura più fragile, Annamaria, che ha quindici anni e non somiglia a nessuno dei “mostri” adulti che la circondano, fatica a trovare il suo posto. Nella geografia di quel contesto, sta prendendo forma un mondo parallelo, quasi irreale ma vero. Appena fuori dal paese, su una collina che appartiene alla famiglia Caracciolo-Agnelli, iniziano a svettare delle enormi costruzioni colorate dalle forme inusuali, che la gente chiama «i mostri». È il Giardino dei Tarocchi che Niki sta costruendo con dedizione, abitando all’interno di una delle statue, quella dell’imperatrice.

Pioniera del femminismo

Incredibilmente, anche se abbiamo vissuto a pochi chilometri di distanza l’una dall’altra per un lungo periodo, io non ho mai conosciuto Niki de Saint Phalle personalmente. Ed è come se attraverso il romanzo abbia cercato di compensare questa mancanza. A me che crescevo in quel mondo rurale, ancorato a modelli retrogradi, nel quale la maggior parte delle donne faceva ancora fatica a trovare una dimensione di vera emancipazione, conoscere Niki avrebbe sicuramente aperto le porte sul futuro molto prima di quanto non abbia fatto creare un rapporto con lei a posteriori, attraverso i filtri delle fonti indirette. Così ho fatto in modo che la sua presenza, il suo essere fuori dagli schemi, una pioniera del femminismo nel mondo dell’arte in anni in cui una donna raramente usciva dal ruolo di modella e musa, avesse un impatto sulla protagonista adolescente della mia storia.

Un lavoro che mi ha portato su una montagna russa di piaceri e paure. I piaceri sono venuti dallo studio della vita di Niki attraverso le sue biografie, autobiografie illustrate, cataloghi d’arte, fumetti, dal privilegio di poter intervistare le persone che hanno collaborato con lei e mi hanno raccontato dettagli che dai libri non avrei mai saputo. Tutto questo mi ha permesso di muovermi con una certa sicurezza nella ricostruzione del personaggio. Ma al tempo stesso il terrore di poterla “tradire” in qualche modo, di stilizzare la sua biografia per accordarla con altri eventi del romanzo, di costringere la sua voce dentro dialoghi in una lingua che non era sua, mi ha perseguitato per tutta la stesura del libro. Mentre con i personaggi di finzione mi sono permessa ogni libertà (e crudeltà), con lei ho dovuto muovermi con cautela, nello spazio del rispetto della sua vita e della protezione della sua memoria che è stata una gabbia, necessaria, ma pur sempre un limite alle potenzialità dell’immaginazione.

Arte vs vita

Nel romanzo, la vita di Niki e il mondo parallelo e magico del suo giardino, sono funzionali a creare un contrasto con il racconto del mondo reale. Giardino vs paese. Arte vs vita. L’arte è una possibilità di fuga dai propri mostri, in primis per l’artista, che ha trovato nella pittura prima e nella scultura poi, l’unica via d’uscita da un’angosciosa violenza subita da piccola che le ha condizionato l’esistenza. Ma anche se non direttamente, l’arte di Niki sarà salvifica anche per la quindicenne Annamaria del romanzo, a cui Niki apre le porte del giardino e della sua esperienza dandole accesso a un mondo diverso e più libero, dove non esiste vergogna o paura del giudizio della gente. Un mondo magico e misterioso, non privo di insidie, ma che ha la bellezza sfrontata dell’artificio ed è orgoglioso delle possibilità che non temono costrizioni sociali. Annamaria, tramite il racconto che Niki le fa della sua dedizione all’arte, diventando la sua mentore, imparerà tutto sulla libertà che ogni donna può prendersi.

Nel Giardino dei mostri ho cercato di mettere a fuoco i cambiamenti invisibili e inesorabili (politici, storici, identitari) di un’epoca, concentrandomi sulla fragilità e le conseguenze di questo passaggio, che sono state molto potenti proprio nel posto in cui vivevo. Passaggio in cui avvengono scontri che mettono a nudo anche la difficoltà di liberarsi dalle radici da cui proveniamo, che corrono profonde e ci legano a terreni precisi, anche quando non li sentiamo più nostri. È un romanzo pieno di conflitti. Ma in cui alla fine è chiaro che ci sono delle àncore di salvezza eterne, che restano l’arte e l’amore: una che lega alla libertà, l’altra alla felicità. E pure se imperfetti e sempre fonti di tormento, quando l’arte e l’amore si incontrano generano mostri che invece di divorarti ti possono portare in salvo. E in questo caso lo fanno tramite il lavoro visionario di una donna eccezionale, precipitata in un mondo non suo ma capace di crearne uno nuovo e di farne dono agli altri. Una donna a sua volta salvata dall’arte, la cui storia sono stata felice di scrivere, perché si è intrecciata con quella del posto in cui sono cresciuta, lasciando lì segni magici e indelebili.

Questo testo è stato pubblicato originariamente in inglese sulla rivista LitHub il 28 maggio 2021

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