Un tempo i genitori dicevano ai figli: «Finisci di mangiare, pensa ai bambini che non hanno niente». Forse qualcuno lo dice ancora oggi, nonostante sia una frase stravagante: pensando ai bambini che non hanno niente, immaginando una situazione di disagio estremo, tu per reazione dovresti finire di mangiare, tirando un sospiro di sollievo. Nessuno ha mai capito il valore educativo o anche solo pratico di questa esortazione.

Si dice che i bambini a partire dai sette anni siano in grado di comprendere bene il denaro e le sue implicazioni. Alcuni educatori suggeriscono di non dare una mancia ai figli in cambio di aiuto in casa: è meglio che si diano da fare per spirito di collaborazione.

Però è normale regalare ai bambini, ogni tanto, qualche soldo da mettere da parte, anche per fargli capire cosa significa spendere, il senso del limite. Una bambina, nel negozio di giocattoli, stringe fra le dita le proprie risorse economiche scarse. Potrà dunque ragionare su cosa vuole veramente, sul significato dell’acquisto e della rinuncia.

La vergogna della povertà

Il denaro però non è solo un gioco individuale di volere e potere, è un congegno organizzativo che determina in modo rilevante il funzionamento del mondo. I bambini vittime di disuguaglianze non devono solo rinunciare ogni tanto a un giocattolo, ma sperimentano ogni giorno disparità che danno forma alla loro esistenza, condizionando il loro apprendimento, lo sviluppo, il potenziale, l’identità sociale, le relazioni, l’amor proprio. Le disuguaglianze, inoltre, non generano traumi che sono esclusivamente legati all’esperienza del singolo.

Discendono dall’appartenenza a una famiglia e a una comunità, dunque generano emozioni contrastanti nei confronti delle proprie origini. I bambini sono molto sensibili alla loro posizione sociale, e hanno un’acuta consapevolezza dei propri svantaggi. Il sentimento prevalente del bambino che vive l’ingiustizia non è la rabbia, ma la vergogna per la propria situazione, il desiderio di nascondersi, di celare le tracce della propria miseria.

In uno studio sulle disuguaglianze di Young Lives (un progetto di ricerca internazionale dell’università di Oxford che da anni analizza la povertà dal punto di vista dei bambini) ho trovato la storia di due ragazzine indiane che durante il pranzo a scuola si siedono lontane dal gruppo per non mostrare il cibo poverissimo che hanno portato da casa. Questo tipo di disagio non fa che promuovere la sopravvivenza di un sistema perverso. La vergogna della povertà, insieme alla vanità della ricchezza (che osserviamo oggi più che mai), è un potente silenziatore delle ingiustizie.

Alla luce di tutto questo, sebbene non sia semplice parlare di disuguaglianze in modo accurato ai bambini più fortunati, provarci è essenziale. I bambini non vanno protetti dalla fatica di capire come funziona (male) il mondo, soprattutto se sono bambini mediamente sereni. Una delle cose che fanno più orrore è incontrare degli adulti benestanti convinti che la loro posizione economica e sociale sia del tutto giustificata, frutto di un meccanismo che li ha correttamente premiati.

Si può essere più ciechi e puerili? Più affetti da forme gravi di superbia, ignoranza, ineleganza e incapacità di vivere? Eppure siamo sommersi dalle narrazioni dei ricchi e delle loro imprese, quel miliardario è riuscito a far questo, vive in questo modo, ora sta scrivendo un libro dove ci spiega come si fa. Tutto viene applaudito e diventa storia, documentario, serie televisiva. Chi si pone il problema di parlare di disuguaglianze ai bambini sta regalando loro un privilegio spirituale incalcolabile, e una forma di intelligenza.

15 barrette

Proviamo dunque a fare un gioco. Prendiamo un gruppo di 20 bambini, una classe delle elementari, per esempio. Facciamo passare fra i banchi un sacchetto di barrette di cioccolato, ogni bambino può prenderne una. Nel sacchetto però non avremo messo 20 barrette, ma solo 15. Alla fine della distribuzione cinque bambini resteranno a mani vuote.

Chiediamo alla classe cosa pensa di questa situazione: è accettabile? È giusto lasciare le cose come stanno? In fondo è andata come è andata, e piagnucolare non va bene, devi accettare il tuo destino senza lamentarti. No? I bambini (non solo i bambini) sono abituati a sentirsi dire che le cose sono come sono, e che non bisogna fare una tragedia. Ma è giusto?

L’aspetto interessante di questo gioco è che in maniera molto semplificata mima la vita. Nessuno ti aveva neppure illustrato quali potessero essere le regole del gioco, nessuno ti aveva detto «Sappi che nel sacchetto mancano cinque barrette».

Sei come un neonato che viene al mondo, nessuno ti ha detto in quale paese nascerai, e in quale classe sociale, e con quali abilità o disabilità. Nessuno ti ha spiegato che il denaro o l’accesso alla cultura o il contesto geopolitico sono fattori rilevanti e al di fuori del tuo pieno controllo.

Affidarsi a un illuminato

Proviamo a chiedere ai bambini che hanno la barretta se vogliono donarla a chi non ce l’ha. Ad alcuni forse non piace il cioccolato, quindi potrebbero regalarla per disinteresse. Altri magari hanno una generosità innata, e vogliono donare perché sentono che è la cosa giusta da fare. Magari la situazione si risolve spontaneamente in questo modo, e chi non aveva la barretta e la desiderava ora ce l’ha. Tutti contenti. Bene.

È questo, dunque, il metodo da seguire? È davvero un metodo? In realtà qui ci stiamo affidando all’iniziativa del singolo. È giusto che una società non faccia nulla e speri che qualche persona generosa, un benefattore, un illuminato, ogni tanto arrivi a risolvere le cose? (Magari perché scopre che può scaricare la barretta donata dalle tasse?).

Forse serve qualcosa di più organizzato, di più sistematico, una decisione comune. E se decretassimo tutti insieme di rinunciare alla barretta? Le rimettiamo nel sacchetto, chiudiamo tutto e lasciamo perdere. Così non ci viene neanche la carie. Funziona? Rinunciare è la soluzione? Forse funziona, anche se c’è qualcosa di arrendevole in questo atteggiamento. Un desiderio di non provare a costruire un sistema migliore. (Per la carie, poi, basta lavarsi i denti).

In quale mondo

E se invece dividessimo equamente le barrette? Usando un po’ di matematica. Quindici barrette, 20 bambini. Ogni bambino ha diritto a tre quarti di barretta. Dividiamo le barrette in quattro e distribuiamo tre pezzetti a ogni bambino… Bello! Siamo tutti d’accordo? Chissà. Forse no. Forse qualcuno proporrà di guadagnarsela, questa barretta. In fondo nella vita è anche bello far succedere le cose, muoversi, darsi da fare.

Potremmo provare allora con un gioco di abilità, una piccola gara sportiva, o un quiz. Chi vince riceve la barretta, magari anche più di una. Meritocrazia! Ma quale gioco di abilità facciamo? Non tutti i giochi sono uguali, alcuni bambini sono portati per certe cose, altri no. Il gioco che sceglieremo condizionerà il risultato, favorendo alcuni. Anche la meritocrazia ha una purezza solo apparente.

Ora chiediamo agli alunni di chiudere gli occhi e di immaginare di essere una bambina che sta per nascere. Non sai niente, non sai in quale città nascerai, chi saranno i tuoi genitori, se sarai brava a scuola, se sarai una frana nello sport. Non sai se la famiglia che avrai potrà darti quello che hai adesso.

Magari mancheranno i soldi per farti mangiare ciò che desideri, magari ti vergognerai. Magari no, invece. Sarai fortunatissima. In questa situazione, come ti senti? Sei curiosa? Preoccupata? Come ti piacerebbe fossero le regole del mondo in cui nasci? Il mondo come lo conosci adesso ti sembra adotti le regole più giuste? Cosa vuoi cambiare? Cosa ti fa paura?

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