Chiudo la porta dietro di me. Siamo in una piccola stanza, seduti a cerchio. La geometria delle sedie vuole farsi accogliente, senza guide, tutti degni di prendere parola. Si è in sette, me compresa, quel giorno.

Leggo un passo da Le parole per dirlo (Bompiani, 2001) di Marie Cardinal: «Ho parlato e l’ho liberata. […] Sono uscita da lei mentre, aggrovigliata sul divano del dottore come un feto, cercavo le parole che annientassero l’angoscia. […] Ormai non era più che un minuscolo embrione, un granello di infanzia, un seme di speranza, un germoglio d’amore. Un inizio. Avevo quasi quarant’anni. Non è molto che vivo».

Nell’incontro successivo, uno dei pazienti si avvicina e mi porge un foglio scritto al computer, di una facciata appena. Mi dice: «Ho scritto di quando me l’hanno detto». Lo legge lui, il testo, con voce ferma.

È una descrizione dell’incontro col medico: l’uomo arriva trafelato in ospedale e ha paura, il dottore parla e lo inchioda alla diagnosi. Tutti attorno si stringono un po’: anche loro hanno storie simili. L’uomo continua col foglio stretto, e prova a spiegare ancora, a spiegarmi meglio: parla di un mondo che si lacera e si riforma attorno alla parola “cancro”, di come ora sia per lui un altro nome proprio. Dice che sta meglio, ora che questo racconto se l’è tolto di dosso; che l’ha scritto «per via di quella cosa che abbiamo letto».

Questo è uno dei tanti episodi di esorcismi inaspettati ai quali ho assistito. Avevo appena cominciato il mio secondo laboratorio di scrittura per pazienti oncologici per uno studio di antropologia in contesti di assistenza sanitaria. Questo dire del proprio trauma (una volta letto – partecipato – di quello di altri) mi ha insegnato qualcosa sul perché certe narrazioni autobiografiche piacciano tanto. Sul come funzionano.

Fissazione vittimistica

Qualche giorno fa, con un articolo su New Yorker (rilanciato da Il Post), la critica letteraria Parul Sehgal si è chiesta se il trauma non sia diventato ormai un cliché alla base di troppe narrazioni (non solo di libri, ma anche di film e serie tv). A causa della continua caccia al trauma, sostiene, le storie non possono che essere stereotipate, attente solo allo scavo nel passato dei personaggi perché qualche danno psicologico ci spieghi il perché sono quello che sono. Dice che non era così, un tempo.

Sempre secondo Sehgal, il trauma oggi è un topos non perché ne siano aumentate le cause, ma perché la nostra percezione si è regolata su una sorta di «fissazione vittimistica», dove il trauma sarebbe diventato uno status distintivo; da lì, l’aumento di testimonianze, memoir, racconti di sopravvissuti. Sehgal sostiene che ci aggrappiamo a qualcosa di traumatico per definire noi stessi; e questo fa male alle storie. 

L’argomentazione di Sehgal a me è parsa da un lato un po’ altezzosa (guai a te se non sbadigli, giri canale, chiudi il libro di fronte a storie così – sei del grande insieme di fruitori che non capisce granché di narrazione) e dall’altro mi pare abbia reso il proprio gusto personale (che è sacrosanto) un sistema.

È innegabile: ci sono centinaia di prodotti culturali dove il trauma è al centro. Ma il perché questo succede è davvero una “fissazione vittimistica” di oggi, di chi non ha altro da svelare se non una (poco interessante) “stanza insanguinata”? La risposta è no. Narrare un trauma non è qualcosa di recente – ce ne sono infiniti esempi nella cultura pre-psicanalitica. Considerarlo solo un topos, poi, è molto riduttivo.

Necessità umana

Narrare il trauma è parte dell’essere umano: un meccanismo che lo rende funzionante. Nei momenti di forte sofferenza, infatti, si verifica una «dissoluzione del linguaggio e del mondo» – lo dice Scarry, docente ad Harvard. Mancano le parole per dire cos’è successo; per dire cosa resta di sé stessi, dopo ciò che è successo. C’è un senso profondo di solitudine: quel dettaglio del vissuto individuale spodesta continuamente il mondo condiviso.

Un paziente mi ha parlato di un marchio che si porta addosso; un altro di una tunica scura e pesante dove inciampa costantemente. Il trauma, dunque, crea una crisi. Non può fare altrimenti. E come reagisce il cervello umano di fronte a un danno del genere? Narrandolo.

Al disfacimento (di senso, di sé, delle relazioni) segue una forte urgenza di fare capo al disastro, una necessità di «emplotting» (dice Mattingly, docente alla University of Southern California), un tentativo di mettere la questione all’interno di una trama. Si ricerca una “oggettivizzazione” del male: le cause, i tratti precisi, gli esiti. Il “processo di significazione”, questo dare un nome e delle ragioni, può procedere utilizzando molteplici media: la forma orale, scritta, visiva. Va a finire nelle serie tv di successo, in teatro. Nei libri mainstream e in quelli letterari.

C’è un’intera branca dell’antropologia medica che si occupa dei racconti di questo tipo. Good, pilastro della scuola di Harvard, ha evidenziato come narrare un fatto non sia banalmente uno sguardo retrospettivo che descrive l’esperienza: sarebbe invece una effettiva sede di creazione di quella esperienza. Narrare è creare: ciò che sembra un dato oggettivo, un fatto inequivocabile, lo diventa davvero solo mentre lo si racconta o ne si ascolta il racconto. Il dire un trauma quindi non è un capriccio narrativo: risponde a questa profonda necessità umana.

Molteplici fattori

Altro punto. Il New Yorker auspica che si prendano come esempio virtuoso quelle narrazioni che usano il trauma solo come «un inizio, come il primo gradino di una scala». A chi legge/vede/ascolta non interesserebbe, insomma, dell’individuo: è ora di aprire a una prospettiva generazionale, sociale e politica (come succede nella letteratura di Toni Morrison e Saidiya Hartman).

È un bell’auspicio, che non tiene conto però di una cosa: il trauma non è mai solo individuale. Ci parla sempre di una dimensione più ampia. In occidente siamo spinti a pensare al malessere come a un’entità che intacca un corpo solo (spesso nella sua dimensione biologica), e che crea ripercussioni dirette solo sull’individuo (sintomi), di cui soltanto la persona interessata è destinataria e responsabile. Il male insomma è un verme in una mela: prende solo il frutto, non un albero intero.

Questa idea di malattia deriva dalla nostra visione capitalista dell’individuo – privato, contrapposto alla società – e dal modello bio-medico: il male è un nemico mostruoso, i cui soli sintomi dovranno essere combattuti. Ma è davvero così?

Il trauma inteso solo nei termini di identità ripiegata su sé stessa è incompleto e privato di molte facce. Esclude le violenze strutturali e le loro dinamiche di potere, che aumentano le probabilità di essere esposti a un pericolo se si è in condizioni economicamente o simbolicamente svantaggiose. Esclude i fattori climatici, ambientali, le diversità di genere e status.

Togliere questi fattori dall’equazione è miope. Il trauma è specchio di qualcosa che il singolo incarna soprattutto in virtù di un sistema più ampio. Così, narrare di un trauma non è una forma di lamentela, ma è parlare anche di società, di politica, e di generazioni – anche senza che chi narra lo espliciti.

La narrazione del trauma non è così mai solo narcisismo – nemmeno dove vorrebbe esserlo. Sehgal non è la sola ad aver frainteso queste trame: molti studi hanno parlato dell’autobiografia come di un “io” che ha solo voglia di esprimersi. Nessun “altro” all’orizzonte: solo un gigantesco “ego”.

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Ma anche qui c’è un ultimo – importantissimo – ma. Sul campo ho più volte riscontrato che la forza “salvifica” della narrazione non sta nella parola in sé, ma nel fatto che venga detta, letta, aperta a un gruppo. Che venga compresa al di fuori.

Il potere della narrazione del trauma, non risiede nel solo gesto del buttare su carta (o schermo o palco) una traccia dolorosa. La chiave dell’atto narrativo è la condivisione del testo e, in seguito, il consenso da parte dell’alterità. Il gruppo, l’altro, il lettore, è una dimensione necessaria, un motore mai immobile, essenziale.

La narrazione mira a ottenere un’estensione sociale. Come dice l’antropologo Remotti, c’è qualcosa di irrinunciabile non tanto nell’identità, quanto nel riconoscimento: è questo che fonda i soggetti – creatrici e creatori, fruitrici e fruitori. I tasselli identitari raggiungono il loro pieno mandato non quando lasciano il perimetro del singolo, ma quando un gruppo, di specchio, li considera significativi. Dire un trauma e leggerlo in altri è un modo di formare una umanità plurale: è un mezzo principale, e potentissimo, di antropo-poiesi.

Ecco perché il pullulare di narrazioni del trauma. Ecco perché piace tanto stare ad ascoltare racconti di sopravvissuti, memoir, autobiografie. C’è un mondo che si lacera e si riforma; qualcosa che fa stare meglio. Può non piacere, ma non c’è davvero niente di strano.


Gaia Giovagnoli è autrice del libro Cos’hai nel sangue, edito da nottetempo e in uscita il 3 febbraio

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