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Con un articolo su New Yorker la critica letteraria Parul Sehgal si è chiesta se il trauma non sia diventato ormai un cliché alla base di troppe narrazioni.
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Narrare il trauma è parte dell’essere umano: un meccanismo che lo rende funzionante. Nei momenti di forte sofferenza si verifica una «dissoluzione del linguaggio e del mondo». Il dire un trauma quindi non è un capriccio narrativo.
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Il trauma è specchio di qualcosa che il singolo incarna soprattutto in virtù di un sistema più ampio. Così, narrare di un trauma non è una forma di lamentela, ma è parlare anche di società, di politica, e di generazioni – anche senza che chi narra lo espliciti.
Chiudo la porta dietro di me. Siamo in una piccola stanza, seduti a cerchio. La geometria delle sedie vuole farsi accogliente, senza guide, tutti degni di prendere parola. Si è in sette, me compresa, quel giorno. Leggo un passo da Le parole per dirlo (Bompiani, 2001) di Marie Cardinal: «Ho parlato e l’ho liberata. […] Sono uscita da lei mentre, aggrovigliata sul divano del dottore come un feto, cercavo le parole che annientassero l’angoscia. […] Ormai non era più che un minuscolo embrione, un



