L’autobomba che il 19 luglio 1992 in via D’Amelio a Palermo uccise Paolo Borsellino e la sua scorta la ricordiamo tutti. Quella di Pizzolungo, del 2 aprile 1985, probabilmente anche: doveva eliminare un altro magistrato scomodo, Carlo Palermo. Per un tragico destino provocò invece la morte di una giovane madre e dei suoi due figli gemelli di sei anni: la loro automobile si trovò frapposta tra quella imbottita di esplosivo e i mezzi su cui viaggiavano l’allora sostituto procuratore di Trapani e la sua scorta, che proprio in quel momento stavano superando la donna.

L’autobomba con cui la mafia si sbarazzò di Rocco Chinnici è ancora precedente, 29 luglio 1983: a uccidere il procuratore capo di Palermo fu una Fiat 126 carica di 75 chili di tritolo, piazzata proprio davanti alla sua abitazione, in via Giuseppe Pipitone Federico nel capoluogo siciliano. Morirono pure due carabinieri e il portiere dello stabile. Ma l’autobomba di Aosta, quella, chi se la ricorda più?

La stele che ricorda il pretore Giovanni Selis è stata scoperta ad Aosta neppure due anni fa, il 13 dicembre del 2019: nel luogo in cui, in via Monte Vodice, quello stesso giorno di ben 37 anni prima, scampò al primo attentato nella storia del nostro paese commesso con un’autobomba ai danni di un magistrato. Prima di Scaglione, Palermo e Borsellino.

Quel giorno Selis si era svegliato presto, per portare il figlio a Saint-Vincent, da dove il ragazzo avrebbe proseguito con alcuni amici fino a Ivrea: lì, dai salesiani, frequentava infatti il liceo. Il pretore lo accompagnò con la propria auto, una A112 acquistata appena tre settimane prima. Poi tornò ad Aosta, un salto a casa per cambiarsi e per un rapido caffè. E a quel punto prese l’altro auto di famiglia, pure questa un’utilitaria: una Fiat 500 intestata alla moglie. L’esplosivo era nel cofano posteriore. Erano da poco passate le 7.45. Girò la chiave, premette l’acceleratore e fu l’inferno. Selis si salvò per miracolo: solo un livido alla fronte per la botta contro il parabrezza.

I soldi della P2

Un paio di giorni dopo, un altro “avvertimento”: il suono del campanello di casa, nessuno che risponde al citofono, l’ascensore bloccato al piano terra con le ante aperte, qualcuno che forse lo aspettava sulle scale armato.

E il 21 dicembre, in ufficio, una telefonata della moglie, così riferita dallo stesso Selis in procura: «Mia moglie mi riferiva di aver appena ricevuta una telefonata da un anonimo (voce maschile, con accento meridionale, probabilmente romano-napoletano), proveniente, probabilmente, da una cabina telefonica. Tale telefonata diceva chiaramente che l’attentato da me subìto era opera della casa da gioco di St. Vincent, facendo, in particolare, i nomi di (...) con i marsigliesi».

I nomi nel verbale figurano, sono tre. Li troverete citati in un libro appena uscito, assieme a una miriade di altri documenti: un libro formidabile che racconta un pezzo pochissimo noto della storia d’Italia, anzi, della storia criminale d’Italia. Si intitola I soldi della P2, sottotitolo “Sequestri, casinò, mafie e neofascismo: la lunga scia che porta a Licio Gelli”, e il contenuto (500 pagine fittissime) non lo tradisce affatto.

Gli autori, per PaperFirst, sono la giornalista Antonella Beccaria, l’avvocato Fabio Repici e il magistrato in pensione Mario Vaudano, che negli anni Ottanta condusse la clamorosa inchiesta sullo scandalo petroli che portò all’arresto e al processo di due generali allora al vertice della Guardia di finanza, Raffaele Giudice e Donato Loprete, entrambi poi risultati iscritti appunto alla P2.

Impressionante la mole di informazioni contenute nel libro, il cui titolo non deve trarre in inganno: qui non si parla dell’inchiesta della procura generale di Bologna e del processo in corso sui mandanti della strage alla stazione. Paradossalmente, però, c’è molto di più.

Ma addentrarcisi qui sarebbe impossibile, tanto mastodontico è l’intreccio di nomi e circostanze, a partire da altri due assassinii eccellenti di magistrati: quello nel 1976 del sostituto procuratore di Roma Vittorio Occorsio, che indagava sull’eversione neofascista (ma pure sulla banda delle tre “B”, i marsigliesi Bergamelli, Berenguer e Bellicini), e quello del procuratore di Torino Bruno Caccia, ucciso dalla ’ndrangheta il 26 giugno del 1983.

Quest’ultima vicenda, recentemente tornata alla ribalta, è minuziosamente ricostruita nella seconda parte del libro: Repici è infatti legale dei familiari di Caccia, costituisi parte civile, e la cronaca dei suoi puntigliosi scontri con la procura di Milano, competente sul delitto, è destinata a far discutere. Della morte di Caccia, del suo movente ancora non definito, la storia di Selis è parte importante: leggendo il libro si scoprirà perché.

Lasciato solo

Nominato pretore di Aosta il 3 luglio 1969, a 31 anni, Selis si presentò condannando l’Enel per violazione dello statuto dei lavoratori. Poi fece demolire una costruzione abusiva. E nel 1977 ordinò l’arresto di un assessore regionale per abuso d’ufficio, con successiva condanna passata in giudicato.

Lavoro, cemento, potere: dì lì al casinò di Saint-Vincent, vero cuore dell’economia valdostana, il passo era breve. E Selis iniziò a scavarvi, in particolare sul ruolo degli scambisti e sull’ipotetico reato di usura. Nel 1979 ordinò poi il sequestrò di slot machine, tavoli del black jack e roulette americana, ipotizzando che questi “nuovi” giochi non fossero coperti dalle autorizzazioni che, a suo tempo, avevano permesso l’esistenza (benché in Italia il gioco d’azzardo fosse vietato per legge) dei casinò di Venezia, Sanremo, Campione d’Italia e appunto Saint-Vincent.

Attorno alle sale da gioco, Selis se n’era accorto, “girava” un’economia manovrata da organizzazioni criminali. Il giudice istruttore firmò poi il dissequestro, ma per Selis la partita non era chiusa. E infatti il 16 novembre del 1982, giusto un mese prima dell’autobomba, interpellò la Corte costituzionale con un quesito pericolosissimo: sulla base di quale norma di rango costituzionale i tavoli verdi sarebbero stati legittimi a Saint-Vincent e illegittimi invece a Taormina, dove guarda caso da tempo se ne chiedeva l’autorizzazione?

A quel punto il pretore, attorno a sé, aveva fatto terra bruciata. O meglio: venne lasciato solo. L’autobomba, per quanto inedita e clamorosa, non fu che una inevitabile conseguenza.

La fine della storia

Dopo l’attentato, Selis venne trasferito a Roma dove prese servizio al ministero. Le indagini sull’autobomba che avrebbe potuto (o dovuto) ucciderlo non approdarono a nulla: mandanti ed esecutori non vennero mai individuati. Con un’altra autobomba tra l’altro, la mattina del 21 marzo 1979 in pieno centro a Cuneo, era già stato ucciso l’imprenditore Attilio Dutto, abituale frequentatore proprio della sala da gioco di Saint-Vincent (e non solo).

E in quell’attentato poteva lasciarci la pelle anche un giovane Flavio Briatore, che proprio quella mattina con Dutto (ne era stretto collaboratore) aveva un appuntamento, ma arrivò in ritardo. Buon per lui. Tornando comunque alle indagini aostane di Selis sull’ambiente dei casinò, quanto in alto potevano arrivare lo dimostra un appunto del Viminale del 3 ottobre 1983 allegato a una nota riservata della Questura di Aosta, in cui si dice che uno di quei tre nomi della telefonata avrebbe avuto un ruolo della fuga di Licio Gelli dal carcere svizzero di Champ-Dollon, avvenuta il 10 agosto di quello stesso anno.

Non solo. In un’ordinanza emessa dal gip di Torino nel dicembre 2018, nell’ambito di un procedimento ancora in corso, si legge infatti quanto segue: «Nell’autunno del 1982 un influente esponente della massoneria aostana tentò una discreta azione di convincimento sull’urgenza di ideare qualcosa perché “certe indagini cessassero”.

L’azione del massone si tradusse poi in modo più esplicito attraverso dei colloqui con chi poteva avere interesse alla “rimozione del pretore”. Fra le idee c’era anche quella di spingere lo stesso Selis a una richiesta di trasferimento, oppure di fare pressioni altrove su chi poteva proporgli un avanzamento di carriera o comunque qualcosa che potesse convincerlo a lasciare Aosta.

«Bisogna studiare qualcosa» venne detto anche in alcune telefonate. Un mese dopo la “500” del magistrato saltò in aria quando Selis alzò la levetta dell’avviamento. La circostanza di quell’idea di un trasferimento coatto pensato in sede massonica non emerse: gli inquirenti non ne parlarono mai».

Giovanni Selis morì cinque anni dopo l’attentato, il 9 maggio 1987.  Da pochi mesi era tornato ad Aosta, come pretore dirigente, ma quell’autobomba lo aveva per sempre segnato. Colpito da depressione, fu lui a togliersi la vita a 49 anni: si impiccò in cantina, dove lo trovò la moglie. «Forse qualcuno tirò un sospiro di sollievo», scrivono Beccaria, Repici e Vaudano. È stato sepolto dove lui stesso voleva: a quota 1.800 metri nel piccolo cimitero di Rhêmes-Notre-Dame, minuscolo comune nel parco del Gran Paradiso. Wikipedia, pensate, gli accredita appena 78 abitanti.

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