Il sole di fine luglio abbrustoliva la città deserta. Il silenzio delle vie lo faceva rimbalzare più forte contro i muri, l’asfalto, i cartelli stradali. Quando mi sono affacciato alla finestra a fumare il fiato si è accorciato ancora di più. Tutta colpa dei miei cen­todieci chili, non c’è verso che riesca a scendere sotto il quintale. Per tutto il tempo della sigaretta ho guardato la saracinesca del bar di Sergio. La notte prima, attorno alle tre, l’aveva abbassata fino a farla sbattere sul marciapiede, sfollando così dai tavoli di plastica gli ultimi ubriachi, me compre­so, che senza accorgermene mi ero scolato cinque Campari. Poi aveva tirato un respiro lunghissimo e attaccato con soddisfazione un foglio: ci vediamo a settembre. Gli ho fatto notare che è la frase che dicono i professori ai rimandati e allora lui prima ha sorriso e poi sbadigliato.

Anche quella notte avevo allungato il ritorno a casa. Al posto dei soliti trenta passi avevo girato at­torno alla Villa. Ormai è qualche anno che il par­co della Villa la notte resta chiuso. Verso le otto e mezza il comune spedisce una coppia di vigili in bicicletta, che con le chiavi in mano minaccia i clo­chard di chiuderli dentro. Allora i clochard li guar­dano dall’alto della loro barba ispida, alcuni alzano come un calice il loro cartone di vino, e si girano di lato. Se hanno in corpo dell’aria superflua, volen­tieri la indirizzano verso i pubblici ufficiali.

Avevo fatto il giro largo, come quando c’era Teddi, un collie che è morto mangiando il veleno per topi. Io e Teddi camminavamo sull’erba la sera tardi e il mattino presto. Lui si faceva una corsa, pisciava sotto qualche quercia maestosa e ce ne tornavamo a casa. Se lo stesso giro lo facevo di giorno, i bambi­ni non lo lasciavano in pace un momento. Dopo di lui ho preso un coniglio, Catullo, ma non è la stessa cosa. Dopo non è mai la stessa cosa.

Siccome tutti i cancelli erano chiusi avevo girato un mucchio di volte intorno alla Villa, come un metronotte. Man mano che smaltivo la sbronza sentivo più freddo alle spalle. Poi nel cielo si è aperta una feritoia di luce arancione, che in fret­ta è diventata rosa. Allora mi sono avviato verso via Osculati, dove abito: una casa di ringhiera che affaccia su un’altra casa di ringhiera. A sinistra si vede il parco, sotto il bar di Sergio. È un orizzonte un po’ angusto ma ci ho fatto il callo.

Tempi che cambiano

Una volta rientrato, mi sono messo a tradurre col mal di testa. Mi sembrava il modo migliore per re­agire allo strazio che è diventato questo lavoro. Prima traducevo i romanzi di Nick Job, alcuni classici americani e negli ultimi anni anche qualche spa­gnolo in odore di Nobel. Avevo a che fare con le metafore, stavo ore a rigirare un periodo come un calzino, mani sulla fronte a scegliere un sinonimo. Ora invece i tempi sono cambiati, dicono in casa editrice.

Devo essermi appisolato sulla scrivania. Verso le nove mi sono stropicciato gli occhi e ho ripreso seduta stante a lavorare. Poi mi sono preparato un caffè. Avrò tradotto un’altra decina di pagine, non di più. Finché nauseato dalla noia e dai postumi del Campari ho preso il cellulare e chiamato Mu­stacchi. Le chiamate a bruciapelo lo irritano, per questo gliele faccio: «Ormai per tirare avanti biso­gna puntare sulla varia!», mi ha aggredito il diret­tore editoriale senza farmi dire: «Il commerciale ci rimanda indietro tutto il resto. Sono tempi neri e questa crisi non l’ho inventata io!». I suoi sbuffi mi arrivavano dritti in faccia.

Puntare sulla varia, questo è diventato il mantra del Mondo edizioni. Investire, cioè, su uno scon­finato contenitore di cazzate, che però la gente, a detta dei cervelloni del commerciale, nei periodi bui legge volentieri. Almeno non pensa a tutte le rogne che la affliggono.

«Forse le cose vanno male perché la gente legge troppo la varia», ho detto, «è un problema di in­versione del principio di causa-effetto». «Spiegati», ha risposto scontroso.

«Voglio dire…», ho continuato schiarendomi la voce, «Voi riempite gli scaffali di quella roba, la gente non trova altro e finisce per comprarla».

«E allora?».

«E allora a furia di leggerla succede che non pen­sa più. O che pensa male».

«Pozzi stai filosofando», ha detto irritato.

«I grandi editori dovrebbero sentirsi più respon­sabili del livello culturale di una nazione», ho az­zardato.

«Ah! Dunque se riempiamo gli scaffali di Carlo Marx finalmente scoppia la rivoluzione?».

Sono rimasto per qualche secondo a fiato tratte­nuto, poi senza convinzione ho ribattuto: «L’e­sempio è un po’ forte, ma il ragionamento regge».

«E allora stai facendo il romantico!», ha risposto Mustacchi fuori dai gangheri, «Tu, Pozzi, sarai anche un buon traduttore, ma hai un carattere impossibile, sei peggio di mia suocera!», e ancora sbuffi dritti in faccia, «Sveglia! Il libro non è più un valore culturale, è diventato un prodotto. Ri­peti insieme a me: pro-do-tto!».

«Prodotto».

«C’è qui Aliverti, aspetta in linea che te lo passo, vuole dirti due parole anche lui».

Non ho fatto in tempo a dirgli che non era il caso che immediatamente sono partite Le quattro stagio­ni. E io lì, impotente, con la cornetta appiccicata all’orecchio. Ho compianto la malasorte di Vival­di, ormai immortalato nei jingle d’attesa più che nelle sale da concerto.

Anche Aliverti ha cominciato saltando i saluti. «Il fatto è che tu a furia di tradurre cose serie sei di­ventato snob». Dallo smartphone questa volta sali­va un odore acre di dopobarba. «Guarda che non appaltiamo agli esterni nemmeno più un giro di bozze, lo sai?», e ha chiuso la conversazione come l’aveva iniziata, senza salutare.

Aliverti è del commerciale, l’ho visto una volta sola e me la sono fatta bastare. È un tipo in abito gessato, orecchino e vocali aperte. Cotolètta, idèa, cièlo. Un luogo comune ambulante.

Il precipizio

Insomma, da Nick Job alla varia, dall’ultimo Pu­litzer alla prima starlet, nel giro di nemmeno un anno. Il precipizio è sempre dietro l’angolo. La prima volta Mustacchi mi aveva inviato un libro sulla fitoterapia, accompagnato da una lunga mail di scuse. Giurava che «trattasi di emergenza» e che, se volevo, potevo firmare la traduzione con un nome di fantasia.

Poi ha proseguito con un opuscolo che ha osato definire “pamphlet”: due tizi che hanno girato la California in skateboard. Dopo, un libricino sull’ip­poterapia. E infine il colpo di grazia: 396 pagine sui fiori di Bach. Da allora fino a oggi, solo pattume. E senza più preamboli.

Quel giorno traducevo un libro di dessert di una tizia del Tennessee, un’autrice di romanzi rosa che per giustificare la sua somiglianza a un lamantino e il prosciugamento della sua vena creativa aveva rac­colto ricette di dolci corredandole di citazioni dai suoi romanzi. Un caso esasperato di egocentrismo e glicemia. Nei momenti di stallo osservavo la foto in copertina, che la stampante aveva fatto uscire in bianco e nero: il lamantino sorrideva all’obiettivo, addosso un vestito aderente e un grembiule stretto in vita. Mestolo in una mano, libro nell’altra.

Per ripicca verso Mustacchi ho dichiarato un uovo di meno alla puddle cake. Mi sono bevuto un secondo caffè in una tazza da latte, l’unica pulita. Il lavello e il secchio della biancheria sporca, verso la fine del mese, tracimano sempre. Poi il primo arriva Maria, una filippina di un metro e mezzo che riordina e deterge fino all’estinzione dell’ultimo batterio. Quando torno a casa il primo del mese resto sem­pre imbarazzato sulla soglia e alla fine me ne vado da Sergio a mangiare un panino perché mi sembra irrispettoso sporcare.

Dopo il caffè mi sono riaddormentato sul diva­no. Verso l’ora di pranzo il silenzio che arrivava da fuori mi ha svegliato e per un attimo mi sono spaventato. Sono andato avanti a lavorare col com­puter sulle gambe. Avrò tradotto altre cinque o sei ricette. All’improvviso mi è tornato in mente quell’idiota del commerciale, ho sbattuto lo schermo del pc e ho preso il pacchetto di sigarette. Pro­prio mentre me ne accendevo una è squillato il telefono.

«Buongiorno, è la polizia stradale. Lei è Martino Pozzi?», ho risposto di sì, «I suoi genitori hanno avuto un incidente. Per evitare un camion sono finiti fuori strada sulla provinciale 1, all’altezza di Chiaicis».

«Si sono fatti molto male?», ho domandato len­tamente. Il sudore mi macchiava il colletto della camicia.

«Signor Pozzi, purtroppo i suoi genitori sono morti».


Il testo è un estratto dal racconto lungo L’estate della neve pubblicato da Italo Svevo Edizioni in coedizione con Fondazione Pordenonelegge.it, in occasione della terza edizione del Premio Letterario Friuli Venezia Giulia “Il racconto dei luoghi e del tempo”, istituito dalla Regione autonoma Friuli Venezia Giulia. Il racconto, che verrà premiato oggi alle 11 a Spazio San Giorgio, in occasione della Festa Pordenonelegge, sarà in libreria da ottobre. 

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