È in edicola oggi, al prezzo di 2 euro, lo speciale DopoDomani dedicato alla crisi dei mass media dopo la pandemia, dal potere dei social alle querele temerarie.

Che ne sarà dei “talk show politici”, fatti di sughero per meglio galleggiare sull’onda delle risse? Se lo chiede il mondo dei mass media, chi col timore, chi con la speranza che la convergenza universale dei partiti allineati dietro Mario Draghi stia privando di bandiere le proteste e i loro echi da Massimo Giletti, Bianca Berlinguer, Giovanni Floris, Corrado Formigli, Nicola Porro, Paolo Del Debbio, Mario Giordano e compagnia.

Tanto più che alla novità di una maggioranza estesa da Federico Fornaro fino a Claudio Borghi (il succedaneo umano della bestia social di Salvini) s’aggiunge il taglio comunicativo secco e anti polemico del presidente del Consiglio e la riduzione a zero delle chiacchiere vaganti rispetto alla cogenza del Pnrr coi suoi irrinunciabili miliardi. Rimane all’opposizione tutta sola Giorgia Meloni che un’alternativa non l’avanza e bada piuttosto a pescare a strascico gli elettori di destra indispettiti.

Per il resto calma piatta, perché a Silvio Berlusconi e alle sue aziende non passa per la testa di abbandonare l’ombra del governo, il Movimento 5 stelle è impegnato a smentire il suo passato, il Pd è draghiano per istinto e per cultura e l’opposizione social e piazzarola – che l’estate ha in larga misura privato del risuono dei mass media – alla sfida del bluff si rivela una scartina.

Ci sono in prospettiva, questo è vero, feroci duelli per ruoli di sindaco e assessore, ma, stando almeno a Roma, non tira aria di tempesta e i candidati non promettono sfracelli. Del resto la fiducia nel tocco magico di un onesto, un competente o un furbacchione è svanita e s’è capito che, altro che magia, senza un Pnrr a scala cittadina i rifiuti sono destinati a restare per le strade.

La resilienza degli ascolti

Tuttavia per ragioni tecniche e socioculturali non è affatto scontato che gli ascolti dei talk show politici entrino in crisi e che il genere tramonti a causa dell’unità nazionale che spiana vecchi slogan e differenze. Questo suggeriscono intanto alcuni semplici confronti fra gli ascolti dei talk show che d’estate occupano l’access prime time attorno alle 20.40: In Onda (La7) e Stasera Italia (Rete4).

Considerate le audience delle tre ultime stagioni; viste le scelte degli spettatori vecchi e giovani, umili e agiati; valutati gli orientamenti fra una regione e l’altra; tenuto conto delle circostanze di contorno determinate dai trionfi sportivi dell’Italia; siamo giunti alla conclusione che pochissimo è cambiato fra l’estate del 2020 e quella del 2021 nonostante che nella prima (altro che unità più o meno coatta) il paese fosse spaccato fra il governo giallorosso e le bizze del Salvini oppositore, mentre l’estate attuale è giunta a compiere il primo semestre del governo Draghi con Salvini ridotto a inventarsi ruggiti d’occasione e i Cinque stelle privi degli slogan che li portarono al trionfo. Così le due maggiori sorgenti di audience populista e militante sono andate a farsi benedire, ma senza che i talk show politici ne abbiano patito un qualche esodo. E dunque, per tornare alla questione, cos’è che, a dispetto delle differenze di contesto, rende così placido e inalterabile l’andamento di questi ascolti?

L’ipotesi che facciamo riguarda il piano tecnico e quello socioculturale.

Sul piano tecnico va considerato che i momenti rissaioli dentro i talk (su cui si concentra l’attenzione della stampa il giorno dopo), trattengono lo zapping appena qualche istante, non conquistano lo spettatore in pianta stabile e incidono assai poco sulla media dell’ascolto. Peraltro lo scontro di bandiere è diventato duello tra personaggi da quando la comunicazione politica s’è rifugiata per la più gran parte nelle tecniche di marketing. Dunque le risse sono comunque assicurate con l’aiuto di scuotitori di teste, troll e cantori esagitati dei quali Sgarbi, gliene va dato atto, ha fissato sia l’idea che la tariffa, non platonica.

Le tribù socioculturali

Sul piano socioculturale c’è da considerare che la platea televisiva è tribalizzata e muove il telecomando seguendo una bussola essenzialmente identitaria, in modo perfettamente consapevole e non secondo una reattività elementare ed incosciente. Contrariamente al parere degli spregiatori della “ggente” (sic), gli incoscienti nell’audience sono scarsi e hanno anzi chiara in testa la mappa delle offerte tv che corrispondono alle loro propensioni più profonde. La “ggente”, in sostanza, legge, scrive, valuta e fa zapping secondo criteri di appartenenza culturale. Questo è il dato che abbiamo verificato più volte con l’aiuto dei dati d’ascolto elaborati dallo studio Frasi di Milano.

Quelle mappe identitarie orientano, ad esempio, l’audience di Nicola Porro che non la raccoglie a suon di urla, ma semplicemente somigliandole a costo di restarne prigioniero. Un’audience di destra, più o meno moderata, di brave persone convinte dalla culla che la sinistra sia una specie di long Covid dell’Italia e dunque sempre in guardia e pronta a imbracciare il voto al primo refolo di vento. Oggi quell’audience, detta un tempo “maggioranza silenziosa”, fa più rumore di una volta, si sparge per i social e in qualche modo si rivela ai pochi che, pur diversi, vogliano conoscerla. Ma sta di fatto che al calare della sera quell’audience si rinserra nei talk show che ha scelto come patria, identici quanto a insediamento politico, sociale e culturale, ma diversi nella scelta del profilo del conduttore (più fraterno o più paterno) e del linguaggio (argomentativo, narrativo o surreale). Gli autori a loro volta vezzeggiano i clienti e così si perpetua il circolo della bolla tribale, che ha il difetto dell’autoreferenza, ma gli ascolti comunque li fornisce.

La resilienza delle audience della destra trova analogo riscontro nel campo socioculturale cosiddetto di sinistra. Salvo che mentre il quid del mondo moderato è “stare” e l’unità si crea automatica sul denominatore comune difensivo, il quid della sinistra sta invece nel “volere cose nuove” attraverso la politica. E poiché le cose nuove sono tante e spesso non collimano tra loro, la sinistra inevitabilmente, si frammenta, litiga ed esiste, ma solo al plurale. Tranne quando scatta anche per essa il riflesso difensivo di un nemico comune da combattere.

Le mappe dei talk show politici “di sinistra” rispecchiano questa condizione. Si pensi alla differenza che corre fra il positivismo dialogante di Floris, che analizza ogni problema essenzialmente con gli strumenti della logica, e l’attivismo etico di Formigli che stuzzica nello spettatore l’emozione. Mondi tribali in parte sovrapponibili e in parte differenti. Comunque in perenne ricerca di conferma nel talk show che più li rappresenta.

Il pubblico narciso

In conclusione, sempre che a ottobre una catastrofe d’ascolti non sopravvenga a darci la smentita, noi pensiamo di conoscere la ragione profonda che disegna le mappe identitarie e le conseguenti fidelizzazioni delle audience dei talk show politici, al di là dello svanire dei partiti in quanto idee.

A dirla in breve, i partiti cambiano, muoiono e altri ne verranno, ma mentre noi del pubblico lasciamo girare la ruota della storia continuiamo a cercare nei talk show quello che siamo. In altri termini, per capire le dinamiche d’ascolto, conviene rovesciare il luogo comune per cui chi si becca del narciso sono i conduttori e tutto il bestiario variopinto di quelli che ucciderebbero la madre per garantirsi la comparsata in un talk show.

Conviene invece avere chiaro che i narcisi siamo noi, il pubblico, che come la regina della favola, interroghiamo ogni sera lo specchio del talk show prediletto per controllare che nel reame dei nostri pregiudizi regni l’ordine.

Forti di questo abbrivio, ai talk show “politici” potrebbe quindi bastare un poco di inventiva per riscaldare la solita minestra cogliendo l’occasione di avventurarsi con le tribù d’audience al seguito all’esplorazione delle cose.

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