È la prima artista afroamericana a vincere il premio per l’album dell’anno in un territorio tradizionalmente white, anche se è da più di un secolo che i neri americani prendono in giro la musica dei bianchi. Ora andatelo a spiegare ai modernisti, occidentalisti, identitari, che non ci capiranno niente perché ordinari nostalgici di bidoni vuoti. Ma se sentono un groove, anche loro, muovono il piedino
Novantanove nomination, 32 premi già vinti, ma alla fine non hanno potuto tenerla fuori dal più importante: miglior album dell’anno. Beyoncé ha vinto il Grammy con un disco country, Cowboy Carter. Non è un caso, è una ridanciana necessità. E leviamo subito di mezzo le polemiche su Taylor Swift rimasta a secco, su come i Grammy siano in un periodo di stanca (lo sono da anni, ma noialtri in Italia che non abbiamo mai avuto un premio musicale che sia uno faremmo meglio a starcene zitti e buoni), su come funziona il business musicale Usa (in modo zozzetto di mafie e mafiette) o diomio sul «senso di colpa» bianco nei confronti dei neri, che avrebbe portato a risarcire un’artista nera che fa un album country.
Innanzitutto la cosa non riguarda noialtri italiani che bianchi non siamo (provate, voi di Milano o Milazzo, a definirvi ad alta voce “white” in una cena in società a NY e tenete d’occhio le labbra dei presenti, che intanto vi verseranno del vino per farvi finire di dir cazzate), in secondo luogo i bianchi il senso di colpa nei confronti dei neri se lo meritano tutto. E poi ci sono in ballo cose più importanti.
Tipo l’egemonia culturale. Quella seria, fatta coi contenuti. Egemonia dei neri nei confronti dei bianchi naturalmente. Dopo l’uscita del primo singolo del disco di Beyoncé, Texas Hold ‘Em nel febbraio dell’anno scorso c’era stata qualche polemica sulla popstar black che invade il regno della country music. Beyoncé ha dichiarato con alchemica placidità: il fatto che un’artista nera possa praticare certi territori musicali è un segno di apertura. Vero. Giusto. Ma è una sacra bugia.
Applausi e sberleffi
Le dichiarazioni di Beyoncé sembrano la fotocopia di quelle che Ray Charles rilasciò dopo aver pubblicato il suo Modern Sounds in Country and Western Music (1962). Disco meraviglioso, in tempi bestiali di discriminazione. Lo sconfinamento di Ray Charles fu presentato come un segno di gentil dialogo. Anche lì, bugia. Anche in quel caso Charles mise i piedi nell’aiuola degli hillbilly boys, anzi ci mise tutto il pianoforte (strumento europeo per eccellenza), per pura perfidia culturale.
È più di un secolo che i neri americani prendono in giro la musica dei bianchi, e i bianchi. Studiati, accorti, sottili, spietati. Lo facevano da schiavi, nelle danze che imitavano i pollici nel gilet dei proprietari terrieri, lo facevano nel parlare cifrato dei blues rurali, l’hanno fatto in modo esplicito, come atto politico: ricordiamo non solo le marcette free di Albert Ayler, ma anche le parole di disprezzo integralista di Miles Davis verso i musicisti bianchi («costituzionalmente incapaci di fare jazz»), anche se poi li assumeva, li faceva fiorire (Stern, Scofield, Holland, la lista è infinita), e conosceva benissimo l’armonia euro-colta. Anche lì, era disprezzo politico.
Ancora. Bisognerebbe mostrare e ascoltare in tutte le scuole di musica un video su Youtube con il bassista Richard Bona (nero del Camerun) e il vocalist Bobby McFerrin (nero di Manhattan) che improvvisano per una decina di minuti. C’è un mondo, anzi il mondo. Fughe bachiane, bossanova, free, basso e voci che si inseguono, funk, afrobeat cifrato, tecnica imprendibile. Un’enciclopedia on tap. Concludono, i due, con due brevissime improvvisazioni country, in cui rifanno il verso ai due quarti, al Do/Fa/Sol e alla tipica dei bianchi del Midwest, e il tutto finisce ad applausi e sberleffi. Sappiamo fare la vostra musica meglio di voi.
Il groove
Ed è vero, la sanno fare meglio. Se c’è un luogo culturale nel quale l’egemonia, anzi la colonizzazione, afroamericana, è ovunque, è la musica. Tutto nasce ovviamente dall’Africa. Ed è anche questa una ridanciana vendetta storica di cui nessuno parla mai. Il «continente bambino» (Hegel), il continente che «non ce la fa» (Braudel), il continente colonizzato, «diviso con la squadra e il compasso» (Van Der Post) ha colonizzato il mondo.
Domanda per gli scettici: avete mai ascoltato musica senza batteria, lo strumento poliritmico inventato dai neri americani? Pochina no? Già solo quello, l’aver reso universale il poliritmo (presente in molte culture tradizionali ma non nella musica “classica”) è quasi tutto.
Il poliritmo è il groove. Ritmicamente gli europei contano numeri aristotelici e solfeggiano, l’archetipo africano lavora per chiavi poliritmiche, sempre un po’ decentrate, ritualmente ballerine. Keith Richards la chiama «l’antica arte di ondeggiare». L’”irregolarità” che è nello stesso etimo del greco rythmos, notava Giorgio Agamben in un antico libro.
Siamo in un concetto di tempo, nientemeno, diverso da quello moderno-occidentale. Un’irregolarità e un ondeggiare che i neri sono riusciti a riportare perfino sulla drum machine, lo strumento quantizzato per eccellenza. Vedi il modo geniale di reinventare il ritmo di J Dilla, e il saggio molto approfondito di Dan Charnas.
L’armonia
E poi c’è l’armonia, gli accordi. In un secolo di storia la musica nera ha preso l’armonia europea e l’ha stravolta. Deformando le gerarchie tra i gradi della scala, ricostruendo lucidi e complicatissimi percorsi con le sostituzioni di accordi, l’approccio modale e i cromatismi. E infine l’improvvisazione.
Non più musica-architettura, musica-struttura, ma pure performance. E al momento non esiste AI che sappia fare improvvisazioni jazz. Tutte innovazioni che la critica musicale europea più prestigiosa non ha capito. Theodor Adorno è famoso per la sua vigile dialettica negativa (o meno) quanto per le clamorose cantonate, giornalisticamente disinvolte quanto farlocche, che ha preso sul jazz.
E intanto la musica dei neri, in fondo di mamma Africa, rifaceva l’immaginazione sonora d’Occidente. La British Invasion arrivava negli Usa e spiegava agli americani che loro, gli inglesi, avevano solo copiato la musica dei neri, idolatrati in Gran Bretagna, ma di cui in America si sapeva nulla.
Un segno/simbolo: decenni dopo, quando Eric Clapton decide di fare un disco con il suo primo maestro, B.B. King, lo intitola Riding with the King e fa mettere in copertina una foto dove ci sono i due su una limousine scoperta. Clapton fa l’autista, onesto. B.B. King, sta, regalmente, sul sedile dietro.
Ulteriore considerazione. La musica nera ha costruito l’immaginazione musicale del ‘900, ma non è avanguardia. Le è estraneo ogni storicismo, ogni idea di progresso. Miles Davis ha fatto dischi con bluesman antichi (la colonna sonora di The Hot Spot) e con rapper (il suo ultimo, Doo Bop).
Kendrick Lamar (a proposito di Grammy) usa tutta la storia musicale del secolo, dal be bop al funk. Michael Jackson ballava con James Brown. Manca anche l’aspetto riflessivo-ironico, delle avanguardie. Siamo nell’ ambito di una tradizione, prensile, totemica, avvolgente, attinente più all’animismo, al politeismo, che alle rivoluzioni artistiche europee. Niente «morte dell’arte» (questi sì sputano su Hegel), niente «baffi alla Gioconda», niente orinali duchiampiani.
E infine Beyoncé vince il Grammy, sfotte (eccome) il country. E ora andatelo a spiegare ai modernisti, occidentalisti, identitari, che non ci capiranno niente perché sono non veri tradizionali, sono ordinari nostalgici di bidoni vuoti. Ma se sentono un groove, anche loro, muovono il piedino. Ubbidiscono a Mamma Africa.
© Riproduzione riservata