Non ho ancora tolto dal cellulare l’app dell’allarme per gli attacchi aerei. Ogni tanto suona, come stamattina in metropolitana. Anche se sono tornata dall’Ucraina il 3 gennaio continuo a leggere le notizie che arrivano da lì come prima cosa. Evgenij Golubovskij, lo scrittore 86enne col quale ho trascorso l’ultimo pomeriggio dell’anno, mi aveva avvertita: «Odessa non si dimentica».

La mattina che sono partita da Milano i siti italiani scrivevano: «Ultim’ora, pioggia di missili in Ucraina».

Nello Scavo, che lì è di casa, mi aveva scritto: «Qualche scheggia, niente di che. Vedrai: c’è una guerra vera e una percepita, come la temperatura».

Poi aveva consigliato di scaricare Telegram e una serie di app, avvisando che circolavano anche “immagini forti”. Ho capito che sarebbe stato un Capodanno singolare, e non solo perché stavo andando in una zona di guerra.

Mentre bevevo l’ultimo caffè casalingo scaricando app in cirillico mi sono messa a sfogliare un libro appena arrivato: l’autobiografia di Michelangelo Pistoletto, 90 anni a giugno, intitolata La formula della creazione. Inizia così: «Una cosa di cui non si può fare a meno è credere. Fin da bambino io ho cercato in cosa credere…ho condotto la mia ricerca su cosa credere attraverso la via dell’arte».

Pistoletto, che ha visto le prime bombe inglesi su Torino nel 1940 e poi «quelle anglo americane ben più terribili nel 1943» ricorda che a scuola gli avevano insegnato «ad aver fede in Dio con la dottrina cristiana e in Mussolini con la dottrina fascista». Lui invece credeva nella formula della creazione, e forse anche io.

Mentre scaricavo Telegram inseguivo per casa mia figlia in partenza per la montagna, chiedendo se aveva messo in valigia abbastanza calze e maglioni, fino a che non si è rivoltata dicendo: «Basta mamma non sto andando in guerra!».

Nemmeno io sto andando in guerra. Ma in un paese in guerra sì, in effetti. Come per ogni viaggio ho deciso quali libri portare quando tutto era pronto, per godermi la scelta. Alla fine ho preso un discorso di Svetlana Aleksievič del 2013 intitolato Perché sono scesa all’inferno?

Aleksievič, che nel 2015 ha vinto il Nobel per la letteratura col suo racconto sulla dissoluzione dell’“impero rosso” – come chiama lei la rivoluzione, i gulag, la guerra e Chernobyl – l’ho incontrata due volte.

La prima presentai il suo libro La guerra non ha un volto di donna ad Alba, al Festival Collisioni, poi andammo a pranzo. Non parlava inglese e chiacchierammo attraverso la sua traduttrice dal russo. Tra altre cose mi disse che dopo il Nobel si sentiva sballottata ovunque e aveva voglia di fermarsi ma non sapeva bene dove perché era nata in Ucraina, cresciuta in Bielorussia e aveva vissuto in Russia ma quel che scriveva aveva fatto arrabbiare tutti.

La seconda, tre anni fa, a Milano, poco prima del Covid e della guerra, e mi raccontò che per il suo prossimo libro stava facendo interviste sul tema dell’amore. Mi sembrò un’idea geniale. Non so cosa sia stato di quel progetto: nell’ultima sua dichiarazione, letta pochi mesi fa, diceva che stava scrivendo della guerra. Del resto in Perché sono scesa all’inferno?, a chi le chiede se le persone a cui ha dato voce si esprimano davvero così bene, risponde: «Le persone non si esprimono mai così bene come quando sono innamorate o vicine alla morte».

Ho deciso di partire per Odessa anche se l’accredito del ministero della Difesa ucraina non è ancora arrivato.

Igor, l’autista odessita che viene a prendermi all’aeroporto di Chișinău, in Moldavia, mi dice subito che Darya è russo e che mi chiamerà Daryna, o Dasha, in ucraino. Poi ridacchiando mi preannuncia «un Capodanno romantico sotto i missili».

È accompagnato da sua moglie Valentina, una giovane signora snella con la quale cinguetta per tutto il viaggio. I due, che hanno un figlio grande abbastanza per lo snowboard, non abbastanza per la guerra, tubano come colombi per tutto il viaggio.

La frontiera

Arriviamo alla frontiera in due ore e mezza di strada fiancheggiata da querce, pioppi, ciliegi, noci e campi di terra nera, la famosa černozëm, nota per la sua fertilità. Se non fosse per il cielo limpido e la terra nera sembrerebbe di essere in pianura Padana.

Non c’è quasi nessuno fino a che non arriviamo a Palanca, un paese affollato di piccoli negozi di generatori, trapani, biciclette e vetri per le finestre. Poco dopo arriviamo al confine, un pugno di container, sbarre e guardie nel freddo e nel silenzio della campagna.

Igor mi avverte di prepararmi ad aspettare un tempo indefinito. Davanti a noi c’è una giovane famiglia – lui con barba lunga da hipster, lei di capelli corti e rasati ai lati, il bambino con uno zainetto rosso – che oltrepassa la frontiera a piedi, e una coppia di trentenni – in piumino, sneakers e tuta nera griffati – che fumano sigarette elettroniche. Igor dice che quei vestiti sono imitazioni, ma a me sembrano autentici. Dalla parte ucraina arrivano parecchie macchine, sembrano cariche di famiglie che vanno da qualche parte per Capodanno.

Dopo un’ora di attesa senza che davanti a noi ci sia nessuno, tre militari in tuta mimetica ci controllano a lungo i passaporti, ispezionano il baule della macchina e alla fine la sbarra si alza e possiamo passare.

Alla sbarra ucraina aspettiamo solo mezz’ora. Dentro al container azzurro una donna, della quale vedo solo le mani con unghie lunghe e dipinte di nero che spuntano dalla giacca militare, porge i nostri passaporti a un altro soldato che ispeziona la macchina, apre il mio sportello, mi indica, chiede qualcosa a Igor e alla fine ci restituisce i passaporti e ci lascia passare.

Dopo poche decine di metri superiamo un altro checkpoint e siamo in Ucraina e proprio in quel momento, che sarebbe stato già abbastanza emozionante così, Igor rialza il volume che aveva abbassato al confine e sento uscire dalla radio – giuro – il suono di The Red Viburnum in the Meadow, la canzone patriottica cantata dalla rock star ucraina Andriy Khlyvnyuk e arrangiata dai Pink Floyd. Igor si volta per raccontarmene la storia, che fingo di non sapere.

Dopo il confine le scritte sono solo in cirillico. Alla nostra sinistra scorre il fiume Dnister e sulla sponda si intravede qualche pescatore in tuta mimetica che pesca con la canna.

Attraversiamo il villaggio di Mayaki: altri negozietti, bancarelle di patate, mele, peperoni e pomodori, altri soldati. Poi fin quasi a Odessa la pianura è ancora più piatta e deserta, tranne poche casupole, davanti a una delle quali c’è la prima vecchia signora col grembiule e il fazzoletto in testa di questo viaggio. Sta prendendo l’acqua da un pozzo di ferro dipinto di verde, probabilmente in casa l’acqua non ce l’ha.

Odessa

La prima cosa che vedo di Odessa è un passaggio a livello chiuso mentre un treno azzurro ci passa veloce davanti. Ora che gli aerei non possono volare i treni ucraini sono il mezzo più sicuro per spostarsi, li usa Zelensky, li hanno usati i capi di stato in visita: non si sono mai fermati. Tanto che la Lonely Planet quest’anno ha inserito la linea Chisinau-Kiev tra i percorsi interessanti consigliati, per quando finirà la guerra.

Proprio accanto al passaggio a livello, in mezzo al traffico, c’è una torretta gialla con le tendine di pizzo alle finestre, probabilmente casa del guardiano quando i passaggi a livello non erano computerizzati. Chissà chi ci abita adesso, magari sempre lui, o lei, come il capo delle guardie del carcere dell’Asinara che è rimasto a vivere sull’isola anche quando il carcere ha chiuso.

La seconda cosa che noto è un fattorino di Glovo vestito da Babbo Natale, in motorino. Siamo ancora in periferia e i condomini moderni si alternano alle casette a due piani coi tetti di tegole rosse, ma tutti, tutti i balconi di tutte le costruzioni, sono verandati. Odessa è una città di verandine. Migliaia di verandine che permettono di affacciarsi in strada anche d’inverno: «Perché agli odessiti piaceva stare fuori, non chiusi in casa», mi racconteranno.

Adesso invece quando viene buio in giro c’è così poca luce, per via dei problemi d’energia delle centrali bombardate, che in strada di gente ce n’è poca e chi esce rincasa presto, perché dalle undici di sera scatta il coprifuoco ma già dalle dieci i militari controllano i documenti.

Molti locali e molti negozi sono chiusi, quelli aperti hanno davanti un generatore che romba. Imparerò che il suono delle sere di Odessa è quello dei generatori, piccoli o grandi, che permettono un po’ di illuminazione e riscaldamento. Da un certo punto della notte in poi si spengono anche quelli e cala un buio totale.

Ma è ancora pieno giorno quando arrivo al mio albergo, che sta sulla via Aleksandrovskiy, un tempo via Stalin, larga strada alberata con due controviali e al centro un mercatino di legno che una volta era il vecchio mercato e ora vende caffè e cappuccini, spumanti e panettoni italiani, liquori, detersivi, generatori, pesci affumicati, cover per smartphone e libri in cirillico.

Sulla scrivania della mia stanza sobria e luminosa trovo un foglio che dice: «Cari ospiti! Il team del nostro hotel sostiene il programma nazionale di consumo consapevole di elettricità. Più consapevole è l’uso e più stabile sarà il sistema energetico. Uniti fino alla Vittoria!».

È la prima delle tante frasi patriottiche in cui mi imbatterò.

Piazza Caterina II

La statua deposta di Caterina II - Foto di Anna Golubovskaja

Odessa è una città bellissima. È Milano e Parigi e Torino col mare, più elegante,misteriosa e ovviamente più orientale. In yiddish si diceva: Ades iz kleyn-Pariz, Odessa è una piccola Parigi, e la risposta era: Pariz dolzhen u Odessy botinski chistit, Parigi dovrebbe lustrarle le scarpe, a Odessa.

Cammino nel centro storico tra palazzi settecenteschi e ottocenteschi carichi di colonne, stucchi, cariatidi leggere e telamoni muscolosi, fregi di conchiglie, pesci e tranci di vite. La mia meta è piazza Caterina II, dove stamattina tra molte polemiche hanno rimosso la statua alta tre metri della fondatrice di Odessa e degli altri quattro fondatori: due russi, un fiammingo, un napoletano, come nelle barzellette.

Per arrivarci passo davanti alla statua di Isaac Babel’, l’autore dei formidabili Racconti di Odessa che secondo Hemingway erano i racconti meglio scritti del mondo. Babel’, che fu fatto fucilare da Stalin nel 1940, abitava lì di fronte, al quarto piano. Qualcuno gli ha messo in grembo un calzino a righe bianche e nere, forse perché proprio lì accanto sotto a un tendone si distribuiscono vestiti ai rifugiati.

Purtroppo non potrò vedere la mitica scalinata Potëmkin del film di Ėjzenštejn (e di Fantozzi), perché è chiusa da cavalli di frisia e sorvegliata dai militari. Penso che d’ora in poi assocerò sempre l’angoscia della celebre scena della carrozzina che sobbalza sui 192 gradini a tutte le angosce di questa città, dal pogrom russo che massacrò centinaia di ebrei nel 1905, allo sterminio nazista e romeno di decine di migliaia di cittadini ebrei tra il 1941 e il 1944, all’incendio doloso alla Casa dei sindacati dove morirono 42 odessiti filorussi nel 2014, fino a queste transenne e ai sacchi di sabbia che coprono l’altra statua simbolo della città, quella del duca di Richelieu, il suo primo governatore.

Quando cala la sera vado a cena con Anna Golubovskaja, l’autrice delle foto di questo racconto. Ho conosciuto Anna attraverso le ipnotiche fotografie della mostra Qui Odessa, cronache da una città che trattiene il respiro, che ha inaugurato quest’estate alla Fondazione Stelline di Milano insieme allo scrittore italo-odessita Eugenio Alberti Schatz.

Quando è scoppiata la guerra la sua unica figlia è dovuta partire per la Polonia, ma Anna ha voluto restare a Odessa con suo padre, che non si muoverà mai dal suo appartamento pieno di prime edizioni poetiche e di bellissimi quadri del Novecento e privo di luce e riscaldamento.

Mangiamo pollo e crostini al ristorante di Roberto Armaroli, emiliano sposato a una architetta odessita, arrivato qui otto anni fa dalla Crimea che, ci racconta, è bella come la costiera sorrentina. Ne è venuto via nel 2014, quando l’hanno presa i russi. Dopo cena Roberto offre un limoncello che neanche a Sorrento l’ho bevuto così buono.

Anna e Marina

Madre e figlia ucraine  rifugiate a Odessa - Foto di Anna Golubovskaja

Anche Marina, che ha ventiquattro anni, si ricorda della Crimea. C’è stata in gita da bambina. «Ce la riprenderemo» dice quietamente, sorseggiando una cioccolata calda. Con Marina e Anna, cugine e coetanee, faccio colazione la mattina del 30 dicembre.

Sono le nipoti odessite di una mia conoscente che vive in Italia e hanno accettato di incontrarmi in un caffè vicino all’albergo. Anna, che è incinta di otto mesi e mezzo, si è sposata da poco con Sasha, che faceva il muratore ma adesso è soldato. Non ho il coraggio, guardando la sua pancia tonda, di chiederle se si sono sposati per la pensione, nel caso lui morisse.

Anche Marina è sposata, con Max, che gestisce insieme a lei un negozio di abbigliamento online. Entrambe sono laureate: Anna fa la maestra, Marina insegnava educazione fisica. Minute e graziose, capelli lunghi e lisci, dimostrano ancora meno della loro età.

La prima cosa che mi raccontano è che la mattina del 24 febbraio, quando il presidente Zelensky alla tv ha annunciato l’attacco russo, il fratello di Marina, che abita in Moldavia, le ha proposto di raggiungerlo finché le frontiere erano aperte, ma lei e Max non se la sono sentita: «Crediamo nei nostri militari e nel nostro paese. Anche il nostro presidente poteva andare in America o in Inghilterra ma non lo ha fatto, è rimasto qui con noi».

In aprile Anna è rimasta incinta, in maggio Marina si è sposata. Doveva farlo prima del Covid, aveva rimandato per una faccenda legata ai testimoni, che nel rito ortodosso devono essere sposati in chiesa.

«Vorremmo che la guerra finisse subito, ma niente sarà più come prima. Noi con gli amici abbiamo sempre parlato russo, ora ci sforziamo di parlare ucraino, perché a sentire il russo, o a leggere Tolstoj, ci vengono in mente i morti, i feriti, e stiamo male».

Marina racconta che sua suocera è nata in Russia e che la sua sorella, che vive lì, le ha scritto «vergogna, hai tradito il tuo paese» e le ha chiesto «volete diventare tutti gay come in Europa?».

Qui chiunque – e sono in 41 milioni – ha un parente russo col quale prima della guerra era in contatto e ora ha interrotto i rapporti.

Marina pensa che i russi siano rimbecilliti dalla propaganda della tv, che non pensino, non si informino. «Prima che la Russia ci invadesse volevamo andare a conoscere i parenti russi di Max, ora non è più possibile. Eravamo un paese aperto a tutti, un crogiolo di lingue e nazionalità, soprattutto noi di Odessa: questa aggressione ci ha fatto diventare nazionalisti».

Anna dice che a suo figlio insegnerà a parlare solo l’ucraino. Non sa ancora come lo chiameranno, prima vogliono vederlo, sperando che non mandino Sasha al fronte prima che nasca.

Chiedo a entrambe cosa pensano dei pacifisti e di quelli che chiamano nazisti gli ucraini. Marina risponde: «Ognuno ha la sua opinione, ma come possiamo sapere che, se l’Ucraina facesse concessioni, la Russia poi non distruggerebbe i nostri paesi e le nostre città come ha fatto a Kherson e nel Donbass?»

Anna, con un sorriso da Gioconda, dice: «Preferisco non rispondere. Sono troppo incinta per non essere ipocrita».

Marina si arrabbia: «L’Ucraina, e specialmente la regione di Odessa, è sempre stata multiculturale. Il nostro presidente è ebreo. È da pazzi pensare che qui comandino dei nazisti!».

La spiaggia

Gatti sul lungomare di Odessa - Foto di Anna Golubovskaja

Dopo averle salutate vado al lungomare di Langeron, a vedere il Mar Nero. La spiaggia è minata, ma la celebre passeggiata di legno è frequentata da famiglie con bambini e da ragazzi. E da gatti. Gatti bellissimi, soffici, tondi, gatti neri e rossi e bianchi e tricolori che giocano attorno ai cavalli di frisia.

Gli odessiti amano i gatti, li nutrono, gli hanno costruito sul lungomare delle casette di legno coi dosatori di mangime e i gatti sono così sazi e pigri da ignorare i passerotti che ripuliscono gli avanzi.

Mentre suona il mio primo allarme aereo sto giocando con un gattone tigrato.

Mi guardo in giro ma nessuno sembra far caso alla sirena. Nonne con bambini per mano, fidanzati abbracciati, ragazze coi capelli fluttuanti continuano a passeggiare, e così faccio anch’io.

Il mio brindisi dell’ultimo dell’anno, con la famiglia di Anna e mio suocero Adriano Sofri che di Odessa è diventato frequentatore, lo faccio – anzi ne facciamo parecchi e guardandoci sempre negli occhi – alle quattro del pomeriggio, a casa del padre di Anna, che ha acceso due lunghe candele su un tavolino coperto da una tovaglia rossa. Ci offrono uva, mandarini e una buonissima meringa.

L’ultima notte dell’anno – ovviamente senza l’ombra di botti e fuochi artificiali – la passerò nella mia stanza d’albergo. Gli allarmi saranno parecchi e sulle mie app di Telegram leggerò molti messaggi come: «Gli orchi hanno sganciato altri 59 Shahid (i droni iraniani kamikaze ndr) ma la nostra gloriosa contraerea li ha abbattuti uno per uno!».

La mia conoscente ucraina che vive in Italia, alla quale telefono per raccontare l’incontro della mattina con le ragazze, mi raggela: «E della corruzione non ti hanno parlato? Del fatto che per non essere mandati al fronte i soldati danno le bustarelle al comandante? Guarda che in prima linea a morire ci vanno soprattutto i poveracci, i contadini, quelli di cui a nessuno importa. Chi ha un minimo di soldi scappa, o corrompe per sopravvivere. È facile fare i patrioti con la pelle degli altri!».

«Auguri anche a te», le rispondo. So che sta dicendo la verità, una verità, e che le verità sono tante. Ma non voglio pensarci in questo momento, mentre sul telefono arriva il messaggio di Igor che fa gli auguri e scrive: «Brinda alla nostra vittoria, Dashenka».

Il primo giorno dell’anno Anna Golubovskaja mi invita ad andare con Adriano al porto che era delle imbarcazioni da diporto e ora aspetta che passi la lunghissima nottata di Covid, guerra e mare minato. Andiamo a trovare un leggendario comandante di lungo corso di nome Viktor che aspettando si sta ricostruendo una grande barca di legno. Viktor ha 83 anni, è alto, ebreo, bellissimo, coi baffi e i capelli bianchi e folti. Ci accoglie affettuosamente e sistema un tavolino di legno sul molo, pressoché a pelo d’acqua, per un picnic di Capodanno a base di vodka e insalata russa.

Qui l’insalata russa si chiama insalata Olivier, da un cuoco Olivier di origine francese che la inventò al ristorante Hermitage di Mosca, mentre in Italia dicono che sia nata nell’Ottocento quando il cuoco di corte del regno di Savoia – in onore dello zar in visita – inventò un piatto di verdure russe con una panna che ricordasse la neve.

In Polonia poi l’insalata russa si chiama italiana, quindi non se ne esce. Comunque è buonissima, e la finisco insieme alla vodka per non lasciar bere Viktor da solo, visto che Anna deve guidare e Adriano non beve.

Viktor ha toccato tanti porti italiani, e sostiene che dal porto di Odessa a Rimini con la sua barca potrebbe arrivare in una settimana, attraverso il Bosforo e il Mar di Marmara. Promette che quando finirà la guerra lo farà, ma oggi, il primo giorno dell’anno, sul mare, al sole, nessuno ha voglia di parlare della guerra. Ci saluta dopo un paio d’ore di chiacchiere e ricordi alzando il pugno destro a quarantacinque gradi, come fanno qui. Anna mi dice che per gli anziani è un gesto abituale e non ha un significato politico, anche se probabilmente viene da lì.

Poi Anna propone un giro in auto per la Moldavanka, il quartiere ebraico che cento anni fa, nei Racconti di Odessa di Babel’, era dominato dall’irresistibile Benja Krik, il re della malavita.

Le dico che dei quattro racconti il mio preferito è Liubka il Cosacco, con l’ostessa Liubka – detta il Cosacco per il suo carattere rude – che cerca di conciliare maternità e affari.

«Come tutte» commenta Anna Golubovskaja, mentre il sole tramonta sul primo giorno del 2023, probabilmente non troppo diverso da quello che cento anni fa «pendeva dal cielo come la rossa lingua di un cane assetato» sopra l’ostessa Liubka, il Cosacco.


Le fotografie sono di Anna Golubovskaja (Odessa, 1969), fotografa e storica della fotografia. Le sue ultime mostre sono state a Odessa due settimane prima della guerra e a Milano nel luglio 2022.

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