Comprare in un mercato e rivendere in un altro: così Marx definiva, in sintesi, il cuore della prassi capitalista. Ma cosa si guadagna, e cosa si perde - che prezzo ha davvero questo continuo gioco al rialzo? Quali sono le sue ricadute, le sue alienazioni, i suoi contrappassi? Se lo chiede Hernan Diaz con Trust: un romanzo, lo diciamo da subito, bello e importante, una favola moderna, crudele sulle origini del capitalismo americano e anche sulla natura di quello odierno.

Era da Qualcosa sui Lehman di Stefano Massini che non si leggeva, in narrativa, qualcosa di così lucido. E, obbedendo a questo paradosso un po’ perverso per cui il tema della lotta di classe è diventato di moda (una tendenza cominciata con l’Oscar a Parasite, passando per la Palma d’Oro a Triangle of sadness e il Tony Award allo stesso Massini), Trust ha ottenuto il Premio Pulitzer per la narrativa 2023.

La storia

Trust è un’epopea privata che racconta la storia di due coniugi, Andrew e Mildred Bevel. Un marito e una moglie che non potrebbero essere più diversi: lui è un eccezionale speculatore finanziario nella New York d’inizio Novecento; lei una donna silenziosa e introversa, dalla formidabile intelligenza artistica, morta in circostanze misteriose.

Attraverso un originale espediente narrativo, il romanzo di Diaz ne contiene quattro: una biografia non autorizzata dello stesso Bevel, i materiali di un “controromanzo” commissionato sempre da Bevel, i diari dell’autrice di questo controromanzo e, infine, il memoriale segreto di Mildred.

Come diventare ricchi

Chi è Andrew Bevel? Un antieroe: un uomo grigio, apparentemente insignificante, un anonimo ingranaggio di moltiplicazione di capitali azionari, che diventa un mito americano per la sua capacità, a cavallo della grande crisi del ’29, di crearsi quasi dal nulla un impero finanziario.

Andrew è un paradigma, un uomo-simbolo, protagonista di una stagione memorabile della mitologia americana. Un esempio insomma, un nuovo paradigma da portare a modello per le nuove generazioni. Andrew, del resto, non sembra saper fare altro che questo: acquistare e rivendere azioni.

È un mago del capitalismo finanziario – un alchimista curvo sulla sua telescrivente, che dice di sé «io non ho tempo libero», e sembra non possedere nessun piacere al di fuori di questa funzione di moltiplicazione di denaro. Niente di più lontano da Jordan Belfort, l’arrembante protagonista di The wolf of Wall Street interpretato da Leonardo Di Caprio nel film di Martin Scorsese.

Il suo cerchio magico non è una gang di demenziali cocainomani che fanno orge intorno a una piscina o portano capitali in Svizzera a bordo di una nave clandestina, ma una congrega di burocrati e matematici travet.

Sembra impossibile immaginare che una cosa diventerà l’altra, eppure è così. «Diventare ricchi non era mai sembrato così facile»: nelle pagine di Diaz vediamo l’inizio di un’escalation finanziaria che porterà, come sappiamo, a una rovina violenta; un mercato che – per dirla con Clausewitz – altro non è che la guerra condotta con altri mezzi. Andrew Bevel è il primo paladino della corsa dell’America alla leadership del capitalismo mondiale.

Il romanzo capitalista

Un’epica, certo, accuratamente costruita. Se c’è infatti un tema portante del romanzo, è la necessità che il capitalismo ha di costruire una propria narrativa. Potremmo anzi dire: ogni capitalismo, per ottenere il successo, ha bisogno di una narrazione efficace almeno quanto il suo impeto economico.

Ogni capitalismo ha bisogno di rifondare un sistema di valori in cui il suo movimento appaia virtuoso; ogni capitalismo deve scrivere un suo romanzo, costruire un suo eroe. Andrew Bevel è il paladino predestinato di questo nuovo capitalismo in ascesa.

Così dice di sé stesso: «Ogni finanziere dovrebbe essere eclettico, perché la finanza è il filo che attraversa ogni aspetto della vita. È infatti il nodo in cui si saldano tutti i fili più disparati dell’esistenza umana. Gli affari sono il denominatore comune di ogni attività e impresa. Questo, a sua volta, significa che non esiste affare che non riguardi lo speculatore. Per lui tutto è rilevante. È il vero uomo rinascimentale».

Il capitalismo non vuole appropriarsi solo dei mezzi di produzione (lo ha già fatto da tempo), ma anche della narrazione dominante (e questo, invece, va fatto a ogni cambio di stagione). Viene da chiedersi allora se quelli che chiamiamo usualmente “rinascimenti” – la grandi stagioni dell’arte, dalla Roma augustea alla Firenze medicea alla Parigi del secondo impero fino alla New York della pop-art – non siano in realtà le narrazioni più o meno simmetriche di altrettanti movimenti economici.

Viene da chiedersi, come tanti iniziano a fare in questi anni, se il dilagare dei disagi psichici non sia anche (se non soprattutto) la nostalgia della nostra mente per ciò che sta fuori dalla narrazione, la ribellione dei nostri corpi al grande romanzo capitalista.

Il mostro

Dicevamo che questo romanzo ne contiene quattro: quattro punti di vista sulla stessa vicenda, dove ogni piano narrativo relativizza gli altri. Al lettore è lasciato il compito d’intravedere la verità che sta al centro di questo gioco di specchi.

Nel cuore del labirinto c’è, come da copione, un mostro: Mildred, la moglie di Andrew Bevel, personaggio misterioso e segreto. È lei il Minotauro di questo romanzo di coppia, che sembra un moderno Ritratto dei coniugi Arnolfini, il celebre quadro di Van Eyck. Lì c’era il ritratto enigmatico di una borghesia in ascesa; qui la fotografia bruciata di quella stessa borghesia a un’altra svolta storica.

Il male del profitto

Ma chi è davvero Mildred? Un’artista mancata? Una mecenate? Una donna affamata di un amore che l’uomo che le sta accanto non è capace di provare? Certo è che Mildred finisce piuttosto rapidamente in una clinica per malati mentali, per ragioni che si possono sintetizzare così: Mildred rappresenta il contrappeso crudele del capitalismo, il suo costo segreto e inconfessabile.

La follia di Mildred rappresenta tutto quello che, in questo processo, abbiamo perso e stiamo perdendo. Così nel romanzo è definita la sua “patologia”: «la mente che diventa carne per i propri denti». Di lei si dice che «non riusciva a smettere di parlare perché non riusciva a smettere di spiegare la malattia – il suo desiderio di capire era, in un certo senso, la malattia stessa».

Che è, del resto, quello che stiamo tentando in questo momento: provare a capire le ragioni di un dolore sociale oscuro e diffuso. Parlare, parlare, parlare, cercare un fuori da questa asfissia. Mildred siamo noi: una società decadente ridotta ormai a cibarsi della propria stessa carne, lontana da ogni fasto e da qualsiasi splendore, abitata da esseri affannati in un disagio psichico per cui non esiste un fuori.

Dice Bevel: «Ogni nostro atto è regolato dalle leggi dell’economia. Quando ci svegliamo al mattino barattiamo il riposo con il profitto. Quando andiamo a letto la sera, rinunciamo a ore potenzialmente redditizie per recuperare le forze. E durante la giornata ci impegnano innumerevoli transazioni. Ogni volta che troviamo la maniera di minimizzare le fatiche e aumentare il guadagno stiamo stipulando un accordo commerciale, anche se solo con noi stessi. Questi negoziati sono talmente radicati nella nostra routine che li notiamo appena. Ma la verità è che la nostra esistenza ruota intorno al profitto. Poiché nulla in natura è stabile, non ci si può limitare a conservare ciò che si ha. Proprio come tutte le altre creature viventi, o prosperiamo o scompariamo. Questa è la legge fondamentale che governa l’intero ambito della vita».

Ecco cos’è Mildred: la metafora dolorosa di ciò che noi siamo senza neanche sapere di esserlo, vittime più o meno consapevoli di un capitalismo mortificante e cancerogeno. Portatori, nostro malgrado, di un male che non osa nemmeno pronunciare il suo nome.

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