Nei giorni scorsi ho postato su Twitter e su Facebook il recente rapporto del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici. Nel suo scenario più pessimistico (e, malauguratamente, forse il più probabile), il rapporto prevede per l’Italia un aumento delle temperature medie di ben cinque gradi entro il 2100, un’intensificazione delle ondate di calore, degli incendi, dei nubifragi, degli uragani e delle inondazioni, la desertificazione di vaste aree, la sommersione di ampie zone costiere, la difficoltà della produzione agricola e di energia, con un impatto devastante sull’economia.

Uno scenario che avevo già ampiamente descritto nel mio romanzo Qualcosa, là fuori. Roba da mettersi le mani nei capelli e scendere immediatamente in piazza con i ragazzi di Fridays for future, per chiedere ai nostri governanti di prendere finalmente misure radicali contro la crisi climatica, ammesso che si sia ancora in tempo.

E invece. Invece il mio post ha ottenuto meno di un ventesimo dei like, dei retweet e delle condivisioni che usualmente ricevono le mie «normali» esternazioni sui social. Insomma, la mia indagine casereccia, ovviamente priva di ogni proposito scientifico, ha dimostrato ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, che noi umani non prendiamo davvero sul serio la crisi climatica. La sottovalutiamo o non la avvertiamo come «il» problema della nostra epoca, che ci riguarda già oggi molto da vicino. Com’è possibile?

La tentazione di negare tutto

Psicologi, neurologi, filosofi e bioevoluzionisti ci spiegano che noi sapiens abbiamo dei bias, ovvero dei pregiudizi, delle distorsioni cognitive, di cui non siamo quasi mai coscienti e che ci fanno considerare il cambiamento climatico come un problema astratto e lontano oppure ne riducono la rilevanza e l’intensità. Si tratta di pregiudizi che l’evoluzione ha incrostato nel nostro cervello e che entrano in azione a prescindere dalla nostra volontà.

Per esempio, il bias della distanza: cicloni tropicali in Europa, scioglimento dei ghiacci, inondazioni, siccità, incendi sono sempre più frequenti, ma ci sembrano colpire ancora una parte piccola del pianeta, che in fondo non ci riguarda. Così tendiamo a credere che gli effetti più forti siano ancora lontani nel tempo e nello spazio.

Anche perché una nostra inclinazione naturale è quella di sottovalutare i rischi e di esagerare i benefici di qualunque evento. È il bias dell’ottimismo, che ci fa credere che i rischi del riscaldamento globale non ci toccheranno e che qualche soluzione tecnica verrà prima o poi trovata. E siccome (eccoci al bias della rilevanza) i numeri che ci raccontano il cambiamento climatico ci appaiono in fondo piccoli (2 gradi non sembrano molti, il 2050 è ancora lontano…), questa tendenza viene ancora più rafforzata, continuando a spingere verso l’inazione.

Siamo, per di più, calibrati per dare maggiore importanza ai risultati immediati, alle gratificazioni vicine nel tempo, che a quelli su una scala temporale più vasta: pochi, maledetti e subito, insomma; ed è evidente che questa distorsione cognitiva ci impedisce spesso di valutare razionalmente i risultati ottenibili con politiche ambientali corrette, i cui effetti potremo vedere solo fra qualche anno.

Anche il diniego di ciò che sta già accadendo, dei «fatti» provocati dalla crisi climatica, è un istintivo meccanismo di autodifesa, a cui spesso ricorriamo senza esserne consapevoli, così come la tendenza a cercare informazioni che ribadiscano idee e supposizioni che abbiamo già in testa, che ci confermino nelle nostre convinzioni. Se i dati che raccogliamo ci richiedono grandi cambiamenti della nostra identità personale, allora è probabile che non li accoglieremo.

Infine, il bias della volontà: tendiamo a scaricare le responsabilità, a pensare che il cambiamento climatico sia un problema di cui devono occuparsi i governi, le istituzioni, e non noi. Anche perché, adottando iniziative concrete di mitigazione, aziende e individui temono di trovarsi in svantaggio competitivo rispetto a chi non le ha adottate. Lo dice perfino la teoria dei giochi…

Insomma, pare proprio che abbia ragione il filosofo Jeremy Morton, per il quale la crisi climatica è l’«iperoggetto» per eccellenza, un oggetto, cioè, che esiste su dimensioni spaziotemporali troppo grandi perché possa essere visto o percepito in maniera diretta da noi umani.

Del resto, dai tempi in cui ci dovevamo guardare dalle tigri dai denti a sciabola ne è passata di acqua sotto i ponti. L’umanità non si era mai trovata a dover affrontare un pericolo così planetario e così esteso nel tempo.

Certo, ci sono altri mille motivi per cui gran parte del mondo non combatte con il dovuto impegno la crisi climatica: gli interessi economici, la farraginosità delle diplomazie, gli scontri tra modelli di sviluppo, l’egoismo individuale e collettivo, la grande cecità, eccetera eccetera. E tuttavia, ci dicono gli evoluzionisti, alla base di questa sottovalutazione generale c’è il fatto che noi Sapiens non siamo fatti per affrontare e gestire questo problema.

Il potere delle storie

Brutt’affare. E allora? Be’, noi Sapiens siamo invece sicuramente fatti per le storie, per le narrazioni. E potremmo sfruttarle per sconfiggere i bias che ci fanno sottovalutare il riscaldamento globale.

La scienza ha ormai dimostrato che le narrazioni possiedono un’utilità inestimabile: ci rendono più empatici, più disposti a comprendere e ad ascoltare gli altri, più capaci di nominare i nostri sentimenti e le nostre angosce e di affrontarle. Insomma, più adatti alla vita, più bravi a muoverci in società.

Del resto, basta rivolgere uno sguardo alle nostre spalle per capire che è davvero così. Fin dai tempi dei cacciatori-raccoglitori, raccontare storie è la forma più antica che l’umanità abbia elaborato per trasmettere esperienza.

Noi sapiens siamo infatti l’unico animale che non può fare a meno dei racconti, in tutte le loro forme. D’altronde, se le narrazioni fossero inutili, la logica utilitaristica dell’evo­luzione avrebbe ben presto eliminato quella predisposizione dalla vita umana, non potendo permettere un simile spreco di tempo ed energia. E invece, eccoci qua, decine di migliaia di anni dopo, a continuare a raccontare storie.

Le varie forme di narrazione artistica (dai romanzi ai film, dalle serie televisive ai videogiochi), almeno quelle che mettono in campo personaggi con motivazioni complesse e profonde, mondi inesplorati che ci costringono ad affrontare nuove esperienze, sono una specie di gioco cognitivo, un’arcaica realtà virtuale che simula i problemi umani, una fonte di apprendimento attraverso le esperienze degli altri che diventano nostre, un collante sociale che unisce le persone. Le storie, insomma, hanno anche una finalità biologica, come sostengono molti teorici dell’evoluzione.

Perciò le narrazioni servono, eccome. Oggi più che mai. Perché l’empatia tra gli esseri umani si sta drammaticamente perdendo, proprio quando molte delle sfide più difficili del nostro tempo dovrebbero essere risolte in maniera collettiva e solidale: dal cambiamento climatico alle migrazioni, dai pericoli delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale alle nuove disparità e ingiustizie globali.

A questo punto dovrebbe essere chiaro perché raccontare la crisi climatica attraverso le narrazioni, cambiando «inquadratura», sceneggiatura, strumenti di comunicazione, è davvero importante: può aiutare a evitare quelle distorsioni cognitive e a superare quell’individualismo che è il marchio delle società attuali e che, di fronte all’incombenza del problema, ci spinge a dirci: «io da solo non posso fare nulla» e dunque a rimuoverlo, a pensare che se ne occuperà qualcun altro.

Vivere, invece, il riscaldamento globale attraverso le storie, attivando la parte emozionale di noi stessi, coinvolgendoci ai livelli più profondi, può contribuire a farcene prendere piena coscienza. Vivere, grazie alle narrazioni, nei terribili mondi possibili in agguato dietro l’angolo potrebbe davvero aiutarci a evitarli.

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